Io e Gigino non amavamo solo il
cinema, ma anche i romanzi di Salgari e i giornalini d’avventure. Fino almeno a quindici anni
abbiamo avuto la capacità di vedere in ogni cosa, anche la più comune, un
aspetto meraviglioso.
Sulle sedie tubolari della
Banca mettevamo una sella fatta di cuscini; alle spalliere legavamo delle
corde, come fossero briglie e, coperti con le nostre lunghe mantelle
impermeabili, una sciarpa intorno alla testa a mo’ di turbante, galoppavamo per
ore, agitando come una sciabola un
qualsiasi pezzo di legno oppure il nostro lungo e innocuo coltellone di
cucina.
Un personaggio di Salgari, se
non sbaglio il fedele Kammamuri, era descritto come un uomo il cui pugno
colpiva con la forza di un maglio; ed io mi esercitavo per delle mezz’ore a
colpire il materasso del mio letto con tutto l’avambraccio, che alzavo ed
abbassavo con una calma regolarità per simulare la potenza inesorabile di un
maglio.
La sera, a letto, mi divertivo
a immaginare lunghe storie fantastiche. Ero lo sceriffo di un villaggio del
Far-West, buono e coraggioso, che sgominava bande di fuorilegge. Oppure ero un
ragazzo che diventava amico e protetto di Papa Pio XII.
Un fratello di Anna Clementoni,
Franco, era entrato in seminario. La famiglia veniva da Castelgandolfo,
residenza estiva del Papa, e tutti i figli avevano assorbito dall’atmosfera
cittadina una certa untuosa devozione. Quando Franco tornava a casa dal
seminario per un periodo di vacanza, indossava la tonaca nera, che a me
sembrava molto attraente e mi faceva desiderare di imitarlo. Ma Franco si stufò
presto del seminario ed io trovai altri obiettivi a cui aspirare.
La fantasticheria di essere un
ragazzo conosciuto e benvoluto dal Papa esprimeva una inconscia aspirazione che
è rimasta viva durante tutta la mia adolescenza. Avevo il sentimento confuso di
possedere un cuore capace di grandi slanci e sognavo che le persone che
incontravo mi scoprissero e mi ammirassero.
Nacque in quegli anni, credo,
la mia facile attitudine, che dura ancora oggi, a sognare tutte le notti.
Questi sogni notturni sono diventati, nel corso dei decenni, sempre più
complessi, più lunghi e più intensi, forse perché il tratto di vita vissuta si
allungava sempre di più e la sfera dei ricordi e dei rimpianti diventava più
ampia e, un poco alla volta, predominante. Sognare mi è sempre piaciuto, anche
quando facevo brutti sogni, che mi costringevano a riflettere su lati nascosti
o secondari di me stesso. Adesso che posso prestare maggiore attenzione ai
sogni, mi sembra, sognando, di passare
la notte a teatro o al cinema e che la notte sia come la cassa di risonanza del
giorno. Mi sveglio la mattina con delle emozioni che considero benefiche,
perché mi pare che diano più sonorità, una eco, alle cose fatte e pensate di
giorno.
Mi era capitata fra le mani una
cartolina illustrata, lucida e in bianco e nero (come erano le cartoline degli
anni Cinquanta), che aveva questa didascalia: “Pieve di Soligo – Motivo”.
Rappresentava un fiumicello che scorreva tranquillo sotto un cielo coperto. Le
casette che fiancheggiavano il torrente sembravano silenziose e astratte,
perché non si vedevano né persone né automobili sulla strada lungo il fiume.
Ho sempre pensato alla scena di
quella cartolina, con le casette vuote accanto al lento fiume, sotto il cielo
grigio, come a un luogo dello spirito, incoraggiato, credo, anche dalla
didascalia: “pieve di soligo”, che evoca un luogo religioso, e “motivo”, che effonde sulla
scena una dolce monotonia musicale.
Avevo conosciuto in colonia due
ragazzini, fratelli, che venivano da Cremona. Erano diversi da noi romani.
Parlavano in un altro modo, avevano i
capelli tagliati diversamente da noi e giocavano con più sicurezza, senza
urlare, con battute più argute. Mi erano simpatici e mi piacevano.
Quando, poco più tardi, vidi la
cartolina di Pieve di Soligo, immaginai che quel tipo di paesaggio e quel cielo coperto fossero
l’ambiente dove vivevano quei due ragazzi che ammiravo.
(continua al post successivo)

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