La nuova scuola dove cominciai
a frequentare la seconda elementare si chiamava “Fratelli Bandiera” e si
trovava a un paio di chilometri da casa nostra, in Piazza Ruggero di Sicilia.
Era stata costruita verso la metà degli anni Trenta e inaugurata nell’anno
scolastico 1935-36 con il nome del nazionalista Enrico Corradini. Fu
ribattezzata con il nuovo nome democratico-risorgimentale dopo la fine della
guerra. L’edificio, benché alto ed esteso, era tuttavia snello elegante e
luminoso. Lo stile era quello di molte
scuole, colonie e case private che durante il fascismo furono costruite,
seguendo sempre cinque o sei moduli standard, in tutte le regioni d’Italia, e
che rappresentano la nostra migliore architettura civile degli ultimi
centocinquant’anni.
Piazza Ruggero di Sicilia era
un luogo appartato, senza traffico né auto in sosta e, a parte la folla di
bambini all’entrata e all’uscita da scuola, quasi deserto. In quella
prospettiva libera e ampia l’edificio dei Fratelli Bandiera, con il suo
rivestimento in mattoncini rossi, le sue eleganti linee curve, le sue grandi
finestre, risaltava fra gli altri palazzi, quasi tutti scuri e tetri, come una
costruzione moderna e vivace, solida e rasserenante.
La direttrice si chiamava Adele
Di Donato ed era una signora bella e sottile con i candidi capelli raccolti in
una crocchia dietro la testa. Con la sua grazia e mitezza, doveva sembrare un
personaggio di De Amicis, proveniente da un’epoca lontanissima. Sembrava
aleggiare su tutte le attività della scuola senza farsi sentire e quasi senza
farsi vedere. In un libro recente (2004) ho trovato qualche notizia su di lei.
Nel 1945 fu inquisita dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il
fascismo. Il libro riporta brani della sua relazione difensiva:
“La premessa dei nuovi programmi osserva che ‘necessita all’educatore un
alto senso di responsabilità sociale che l’induca, nella scuola e fuori, ad
essere maestro di vita, esempio di probità in ogni sua manifestazione. Solo
così potrà considerare l’insegnamento come missione di civiltà’. Mi si perdoni
il senso di orgoglio che mi fa dire che questo è stato il mio credo spirituale,
da quando nel 1905 iniziai la mia carriera d’insegnante”.
“... assai spesso la finestra illuminata della direzione attestava agli
alunni che la loro direttrice, entrata in iscuola al mattino sempre prima di
loro, lavorava ancora per loro a sera inoltrata. Mi rifiuto di credere che voi
possiate pensare che questo significhi aver dato alla scuola un’impronta fascista.
Dareste al fascismo un attestato di benemerenza. Per me fascismo o antifascismo
non avevano nulla a che vedere con la scuola. La mia norma consisteva
nell’essere appassionata ed attenta all’adempimento del mio dovere”.
L’autodifesa della direttrice,
con il suo tono da libro Cuore, mi sembra sincera (del resto il libro Cuore
rispecchiava una buona parte di realtà, non era solo un’opera di propaganda). E
anche i Commissari credettero alla sua sincerità. Nel 1953, come risulta dalla
mia pagella scolastica di quinta elementare, la signora Di Donato era ancora in
servizio.
Gli anni della scuola
elementare passarono senza avvenimenti
memorabili. In seconda e terza classe ebbi come maestra Maria Camilli, una
anziana signora imponente e con un discreto paio di baffi. Per noi alunni fu
una nonna molto affettuosa. Ci decorava con fiocchetti rossi e multicolori,
recuperati dalle confezioni delle uova di Pasqua, che ci attaccava sul
grembiule con una spilla per premiare il
nostro grado di bontà, di disciplina e di profitto. Quando qualche bambino
veniva a scuola con le scarpe nuove o con il cappotto nuovo, ansioso di farsi
notare, la maestra era sempre generosa di complimenti e di attenzione. Per
molto tempo ho avuto il culto della maestra Camilli. Aveva, però, un modo di
parlare troppo pieno di diminutivi e vezzeggiativi, che già allora mi
disturbava. Sentir dire continuamente “quadernino”, “matitina”, “mammina”, ecc.
era per me come sentire una forchetta
stridere sul piatto.
Abitava vicino alla scuola, in
via Lorenzo il Magnifico. Alla fine di un anno scolastico andai a casa sua a
portarle un mazzo di garofani avvolto in un vecchio foglio sgualcito e
screpolato di robusta carta da pacchi. Mio padre li aveva comprati da un
fioraio ciclista, che teneva i fiori in un canestro attaccato al manubrio della
bicicletta e non aveva di che confezionare un bouquet. Ma mio padre, sempre
pragmatico, sapeva affrontare ogni situazione. In Banca era capo del magazzino
della carta e la nostra casa abbondava di carta da pacchi già usata.
In quarta elementare ebbi il
maestro Sante Macrì e in quinta il maestro Pietro Serafini. Macrì era il tipo
dell’elegantone con baffetti e l’unghia del dito mignolo più lunga delle altre,
un portamento da zerbinotto e la voce arrochita dalle sigarette. Invece Serafini
era, al contrario, un materialone con una giacca frusta e spiegazzata su una
camicia sempre abbottonata senza cravatta. L’attore americano Broderick
Crawford (protagonista del film “Il Bidone” di Fellini), con il suo faccione
inquietante, me l’ha richiamato alla mente. Avevano entrambi l’abitudine di
dare violenti scapaccioni ai ragazzi. L’elegante Macrì, se vedeva qualcuno
assorto a guardare fuori della finestra, era capace di avvicinarsi di soppiatto
e di colpirlo all’improvviso. Una volta si accanì contro il povero Giorgio Di
Giorgio colpendolo più volte con tutte e due le mani. Di Giorgio era un
ragazzino alto ed esile, con il viso delicato dall’espressione timida e una
testolina rotonda che sotto i tre o quattro colpi del maestro Macrì oscillava da
destra a sinistra.
In questi ultimi anni mi sono
convinto che la punizione corporale è, in una situazione disperata, l’ultima
risorsa pedagogica. Gli studenti di oggi, figli della televisione-spazzatura e
del permissivismo lacrimoso e democratico, sono in generale refrattari a ogni
discorso o esempio morale che voglia correggerne l’estrema maleducazione. Solo
la punizione corporale potrebbe provocare il trauma necessario ad accendere in
loro una luce di riflessione e di
coscienza. Però la punizione corporale non andrebbe data a capriccio e con
evidente piacere, non dovrebbe essere uno sfogo nevrastenico come era per Macrì
e Serafini.
La direttrice Di Donato sarà
stata a conoscenza di queste vili abitudini manesche? Penso di sì. Come avrebbe
potuto ignorarle? Picchiare bambini e
ragazzi era a quel tempo una pratica ancora diffusa sia nelle famiglie che in
tutte le comunità.
Debbo dire, però, che
nonostante le efferatezze (tutto sommato contenute) dei due maestrucoli, non
c’era in classe un clima di paura e credo che nel complesso lavorassimo in
pace.
Verso la primavera del 1953,
avvicinandosi per la nostra classe gli esami di licenza elementare, il maestro
Serafini invitò le famiglie degli scolari a mandare i loro figli, perché
fossero meglio preparati, a ripetizione da lui. In una dozzina andammo per
alcune settimane, sempre in gruppo, a casa sua, in via Ariodante Fabretti, una
strada tranquilla a cento metri dal giardino di Villa Massimo. Alla fine di
quel ciclo di inutili lezioni, Serafini, in aula, mise in mano a ciascuno di
noi un foglietto con il conto da pagare, suggellando la sua richiesta con
una pacca di complicità sulla
spalla.
La direttrice Di Donato non
poteva ignorare nemmeno questo losco sistema di arrotondare lo stipendio. Ma,
poiché manca ogni possibilità di sapere che cosa ne pensasse e se avesse fatto
qualcosa per scoraggiarlo, voglio credere che lo subisse a malincuore.
Per andare e tornare da scuola
dovevo camminare per una buona mezz’ora. Attraversavo dapprima dei campi
incolti, poi costeggiavo interessantissimi cantieri di case in costruzione, poi
entravo nell’abitato: via Salento, Piazza del Campidano, via Luigi Pigorini,
via Stamira...
In terza e quarta elementare
avevo il turno pomeridiano: mi pare dalle 14 alle 17,30. Io uscivo di casa con
largo anticipo, ma sulla strada di scuola mi fermavo dappertutto: rimanevo a
lungo ad ammirare i muratori dei cantieri edili, guardavo con avidità le
vetrine dei negozi e con curiosità i banchi del mercato, passavo lunghi minuti,
quando pioveva, sotto lo scroscio delle grondaie, protetto da una mantella
lunga fino alle caviglie, e se avevo deciso di arrivare tardi, camminavo a
passettini corti e lenti. Quando arrivavo finalmente in Piazza Ruggero di
Sicilia, se i cancelli della scuola erano già chiusi, tornavo rapidamente a
casa per godermi un pomeriggio di libertà. Zia Francesca si beveva ogni scusa e
mio padre non era presente per chiedermi
giustificazioni serie. Lei magari approfittava della mia presenza per farmi
passare l’olio paglierino su qualche mobile o per farmi lucidare col Sidol i
pomelli del portoncino di casa. Ma se qualche volta zia Francesca trovava
qualcosa da rimproverarmi, si limitava ad avvisare: “Stasera lo dico a tuo
padre”. Mio padre era un coscienzioso giustiziere e sapeva punire anche a
freddo con efficaci serie di sganassoni.
Il piacere più grande lo
provavo all’uscita da scuola, specialmente in primavera, quando a metà del
pomeriggio era ancora giorno. L’aria tiepida, il cielo azzurro, il volo delle
rondini, la vivacità simpatica delle strade rendevano il ritorno a casa una
deliziosa passeggiata di libertà.
Non ricordo compagni di scuola
antipatici. In seconda e terza fui molto amico del mio compagno di banco, che
si chiamava Fausto Perri. Era un ragazzino pallido, con un viso affilato da
topolino e la vocetta di un piccolo gatto. In quinta strinsi una grande
amicizia con un ragazzetto dalla faccia seria e burbera, Goffredo Zaccardi.
Abitava lontano, in via Mingazzini, e benché non si usasse fra compagni di
classe fare i compiti insieme e scambiarsi visite, lui veniva qualche volta a
casa mia ed io andavo da lui. Parlavamo di libri gialli e di una nostra
nascente passione di fare gli investigatori. Conoscevamo già Philo Vance, il
raffinato detective dei romanzi di S. S. Van Dine, e sognavamo di essere come
lui. Nel mio ricordo quei ragazzini delle elementari, che avevano un’età fra i
sette e i dieci anni, dovrebbero forse apparire al me stesso di oggi come dei
nipotini al loro nonno. Invece no. Nella mia vita mentale, quando evoco le loro
figure, siamo sempre coetanei e le loro facce, anche se qualche scolaro,
maldestro nell’usare la penna intinta nel calamaio, si macchiava le guance
d’inchiostro, non mi sembrano facce puerili di bambini (come mi accade di
pensare oggi, quando ne vedo uno per la prima volta), ma facce di persone con
cui mi trovo ancora adesso a mio agio e che virtualmente possono rivolgersi a
me da pari a pari.
Il mio ultimo contatto di
alunno con la scuola Fratelli Bandiera fu in un pomeriggio di giugno del 1953,
quando accompagnai mio padre a ritirare la pagella di quinta. Camminavo
spavaldamente, perché lui aveva promesso di comprarmi un fucile a piumini se
fossi stato promosso a pieni voti, ed io ero sicuro del risultato. Questo
fucile era un giocattolo molto desiderato. Nei prati attorno a casa, solo i
ragazzi dei palazzi di lusso dove abitavano i professionisti (ce
n’erano quattro nella nostra strada, costruiti prima dei nostri) andavano a
caccia di lucertole con il fucile a piumini.
Uscito dalla scuola con la
pagella in mano, mio padre si diresse in silenzio verso via Sambucuccio
d’Alando, dove si trovava il negozio di giocattoli. Ma invece di mostrarsi
lieto e tranquillo, aveva l’espressione di muta e concentrata disperazione di
un condannato che viene portato, innocente, al patibolo. Arrivati a pochi metri dal negozio, gli
dissi: “Ma senti, papà, se mi compri una pistola a ditalini, va bene lo
stesso”. Lui non insistette per mantenere la sua promessa né fece domande, non
disse niente e comprò la pistola più economica, ad un solo colpo. Io, che avevo
voluto fare un gesto di pietosa rinuncia, non ebbi l’animo di mettermi a
mercanteggiare perché mi comprasse almeno una pistola a tamburo, che sparava
sei colpi.
(continua al post successivo)

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