lunedì 21 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 10° Capitolo: "Scuole e maestri".


La nuova scuola dove cominciai a frequentare la seconda elementare si chiamava “Fratelli Bandiera” e si trovava a un paio di chilometri da casa nostra, in Piazza Ruggero di Sicilia. Era stata costruita verso la metà degli anni Trenta e inaugurata nell’anno scolastico 1935-36 con il nome del nazionalista Enrico Corradini. Fu ribattezzata con il nuovo nome democratico-risorgimentale dopo la fine della guerra. L’edificio, benché alto ed esteso, era tuttavia snello elegante e luminoso.  Lo stile era quello di molte scuole, colonie e case private che durante il fascismo furono costruite, seguendo sempre cinque o sei moduli standard, in tutte le regioni d’Italia, e che rappresentano la nostra migliore architettura civile degli ultimi centocinquant’anni.
Piazza Ruggero di Sicilia era un luogo appartato, senza traffico né auto in sosta e, a parte la folla di bambini all’entrata e all’uscita da scuola, quasi deserto. In quella prospettiva libera e ampia l’edificio dei Fratelli Bandiera, con il suo rivestimento in mattoncini rossi, le sue eleganti linee curve, le sue grandi finestre, risaltava fra gli altri palazzi, quasi tutti scuri e tetri, come una costruzione moderna e vivace, solida e rasserenante.
La direttrice si chiamava Adele Di Donato ed era una signora bella e sottile con i candidi capelli raccolti in una crocchia dietro la testa. Con la sua grazia e mitezza, doveva sembrare un personaggio di De Amicis, proveniente da un’epoca lontanissima. Sembrava aleggiare su tutte le attività della scuola senza farsi sentire e quasi senza farsi vedere. In un libro recente (2004) ho trovato qualche notizia su di lei. Nel 1945 fu inquisita dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo. Il libro riporta brani della sua relazione difensiva:
“La premessa dei nuovi programmi osserva che ‘necessita all’educatore un alto senso di responsabilità sociale che l’induca, nella scuola e fuori, ad essere maestro di vita, esempio di probità in ogni sua manifestazione. Solo così potrà considerare l’insegnamento come missione di civiltà’. Mi si perdoni il senso di orgoglio che mi fa dire che questo è stato il mio credo spirituale, da quando nel 1905 iniziai la mia carriera d’insegnante”.
“... assai spesso la finestra illuminata della direzione attestava agli alunni che la loro direttrice, entrata in iscuola al mattino sempre prima di loro, lavorava ancora per loro a sera inoltrata. Mi rifiuto di credere che voi possiate pensare che questo significhi aver dato alla scuola un’impronta fascista. Dareste al fascismo un attestato di benemerenza. Per me fascismo o antifascismo non avevano nulla a che vedere con la scuola. La mia norma consisteva nell’essere appassionata ed attenta all’adempimento del mio dovere”.
L’autodifesa della direttrice, con il suo tono da libro Cuore, mi sembra sincera (del resto il libro Cuore rispecchiava una buona parte di realtà, non era solo un’opera di propaganda). E anche i Commissari credettero alla sua sincerità. Nel 1953, come risulta dalla mia pagella scolastica di quinta elementare, la signora Di Donato era ancora in servizio.
Gli anni della scuola elementare passarono  senza avvenimenti memorabili. In seconda e terza classe ebbi come maestra Maria Camilli, una anziana signora imponente e con un discreto paio di baffi. Per noi alunni fu una nonna molto affettuosa. Ci decorava con fiocchetti rossi e multicolori, recuperati dalle confezioni delle uova di Pasqua, che ci attaccava sul grembiule con una spilla per  premiare il nostro grado di bontà, di disciplina e di profitto. Quando qualche bambino veniva a scuola con le scarpe nuove o con il cappotto nuovo, ansioso di farsi notare, la maestra era sempre generosa di complimenti e di attenzione. Per molto tempo ho avuto il culto della maestra Camilli. Aveva, però, un modo di parlare troppo pieno di diminutivi e vezzeggiativi, che già allora mi disturbava. Sentir dire continuamente “quadernino”, “matitina”, “mammina”, ecc. era per me come sentire una forchetta  stridere sul piatto.
Abitava vicino alla scuola, in via Lorenzo il Magnifico. Alla fine di un anno scolastico andai a casa sua a portarle un mazzo di garofani avvolto in un vecchio foglio sgualcito e screpolato di robusta carta da pacchi. Mio padre li aveva comprati da un fioraio ciclista, che teneva i fiori in un canestro attaccato al manubrio della bicicletta e non aveva di che confezionare un bouquet. Ma mio padre, sempre pragmatico, sapeva affrontare ogni situazione. In Banca era capo del magazzino della carta e la nostra casa abbondava di carta da pacchi già usata.
In quarta elementare ebbi il maestro Sante Macrì e in quinta il maestro Pietro Serafini. Macrì era il tipo dell’elegantone con baffetti e l’unghia del dito mignolo più lunga delle altre, un portamento da zerbinotto e la voce arrochita dalle sigarette. Invece Serafini era, al contrario, un materialone con una giacca frusta e spiegazzata su una camicia sempre abbottonata senza cravatta. L’attore americano Broderick Crawford (protagonista del film “Il Bidone” di Fellini), con il suo faccione inquietante, me l’ha richiamato alla mente. Avevano entrambi l’abitudine di dare violenti scapaccioni ai ragazzi. L’elegante Macrì, se vedeva qualcuno assorto a guardare fuori della finestra, era capace di avvicinarsi di soppiatto e di colpirlo all’improvviso. Una volta si accanì contro il povero Giorgio Di Giorgio colpendolo più volte con tutte e due le mani. Di Giorgio era un ragazzino alto ed esile, con il viso delicato dall’espressione timida e una testolina rotonda che sotto i tre o quattro colpi del maestro Macrì oscillava da destra a sinistra.
In questi ultimi anni mi sono convinto che la punizione corporale è, in una situazione disperata, l’ultima risorsa pedagogica. Gli studenti di oggi, figli della televisione-spazzatura e del permissivismo lacrimoso e democratico, sono in generale refrattari a ogni discorso o esempio morale che voglia correggerne l’estrema maleducazione. Solo la punizione corporale potrebbe provocare il trauma necessario ad accendere in loro  una luce di riflessione e di coscienza. Però la punizione corporale non andrebbe data a capriccio e con evidente piacere, non dovrebbe essere uno sfogo nevrastenico come era per Macrì e Serafini.
La direttrice Di Donato sarà stata a conoscenza di queste vili abitudini manesche? Penso di sì. Come avrebbe potuto ignorarle?  Picchiare bambini e ragazzi era a quel tempo una pratica ancora diffusa sia nelle famiglie che in tutte le comunità.
Debbo dire, però, che nonostante le efferatezze (tutto sommato contenute) dei due maestrucoli, non c’era in classe un clima di paura e credo che nel complesso lavorassimo in pace.
Verso la primavera del 1953, avvicinandosi per la nostra classe gli esami di licenza elementare, il maestro Serafini invitò le famiglie degli scolari a mandare i loro figli, perché fossero meglio preparati, a ripetizione da lui. In una dozzina andammo per alcune settimane, sempre in gruppo, a casa sua, in via Ariodante Fabretti, una strada tranquilla a cento metri dal giardino di Villa Massimo. Alla fine di quel ciclo di inutili lezioni, Serafini, in aula, mise in mano a ciascuno di noi un foglietto con il conto da pagare, suggellando la sua richiesta con una  pacca di complicità sulla spalla. 
La direttrice Di Donato non poteva ignorare nemmeno questo losco sistema di arrotondare lo stipendio. Ma, poiché manca ogni possibilità di sapere che cosa ne pensasse e se avesse fatto qualcosa per scoraggiarlo, voglio credere che lo subisse  a malincuore.

Per andare e tornare da scuola dovevo camminare per una buona mezz’ora. Attraversavo dapprima dei campi incolti, poi costeggiavo interessantissimi cantieri di case in costruzione, poi entravo nell’abitato: via Salento, Piazza del Campidano, via Luigi Pigorini, via Stamira...
In terza e quarta elementare avevo il turno pomeridiano: mi pare dalle 14 alle 17,30. Io uscivo di casa con largo anticipo, ma sulla strada di scuola mi fermavo dappertutto: rimanevo a lungo ad ammirare i muratori dei cantieri edili, guardavo con avidità le vetrine dei negozi e con curiosità i banchi del mercato, passavo lunghi minuti, quando pioveva, sotto lo scroscio delle grondaie, protetto da una mantella lunga fino alle caviglie, e se avevo deciso di arrivare tardi, camminavo a passettini corti e lenti. Quando arrivavo finalmente in Piazza Ruggero di Sicilia, se i cancelli della scuola erano già chiusi, tornavo rapidamente a casa per godermi un pomeriggio di libertà. Zia Francesca si beveva ogni scusa e mio padre non era  presente per chiedermi giustificazioni serie. Lei magari approfittava della mia presenza per farmi passare l’olio paglierino su qualche mobile o per farmi lucidare col Sidol i pomelli del portoncino di casa. Ma se qualche volta zia Francesca trovava qualcosa da rimproverarmi, si limitava ad avvisare: “Stasera lo dico a tuo padre”. Mio padre era un coscienzioso giustiziere e sapeva punire anche a freddo con efficaci serie di sganassoni.
Il piacere più grande lo provavo all’uscita da scuola, specialmente in primavera, quando a metà del pomeriggio era ancora giorno. L’aria tiepida, il cielo azzurro, il volo delle rondini, la vivacità simpatica delle strade rendevano il ritorno a casa una deliziosa passeggiata di libertà.
Non ricordo compagni di scuola antipatici. In seconda e terza fui molto amico del mio compagno di banco, che si chiamava Fausto Perri. Era un ragazzino pallido, con un viso affilato da topolino e la vocetta di un piccolo gatto. In quinta strinsi una grande amicizia con un ragazzetto dalla faccia seria e burbera, Goffredo Zaccardi. Abitava lontano, in via Mingazzini, e benché non si usasse fra compagni di classe fare i compiti insieme e scambiarsi visite, lui veniva qualche volta a casa mia ed io andavo da lui. Parlavamo di libri gialli e di una nostra nascente passione di fare gli investigatori. Conoscevamo già Philo Vance, il raffinato detective dei romanzi di S. S. Van Dine, e sognavamo di essere come lui. Nel mio ricordo quei ragazzini delle elementari, che avevano un’età fra i sette e i dieci anni, dovrebbero forse apparire al me stesso di oggi come dei nipotini al loro nonno. Invece no. Nella mia vita mentale, quando evoco le loro figure, siamo sempre coetanei e le loro facce, anche se qualche scolaro, maldestro nell’usare la penna intinta nel calamaio, si macchiava le guance d’inchiostro, non mi sembrano facce puerili di bambini (come mi accade di pensare oggi, quando ne vedo uno per la prima volta), ma facce di persone con cui mi trovo ancora adesso a mio agio e che virtualmente possono rivolgersi a me da pari a pari.
Il mio ultimo contatto di alunno con la scuola Fratelli Bandiera fu in un pomeriggio di giugno del 1953, quando accompagnai mio padre a ritirare la pagella di quinta. Camminavo spavaldamente, perché lui aveva promesso di comprarmi un fucile a piumini se fossi stato promosso a pieni voti, ed io ero sicuro del risultato. Questo fucile era un giocattolo molto desiderato. Nei prati attorno a casa, solo i ragazzi dei palazzi di lusso dove abitavano i professionisti (ce n’erano quattro nella nostra strada, costruiti prima dei nostri) andavano a caccia di lucertole con il fucile a piumini.
Uscito dalla scuola con la pagella in mano, mio padre si diresse in silenzio verso via Sambucuccio d’Alando, dove si trovava il negozio di giocattoli. Ma invece di mostrarsi lieto e tranquillo, aveva l’espressione di muta e concentrata disperazione di un condannato che viene portato, innocente, al patibolo.  Arrivati a pochi metri dal negozio, gli dissi: “Ma senti, papà, se mi compri una pistola a ditalini, va bene lo stesso”. Lui non insistette per mantenere la sua promessa né fece domande, non disse niente e comprò la pistola più economica, ad un solo colpo. Io, che avevo voluto fare un gesto di pietosa rinuncia, non ebbi l’animo di mettermi a mercanteggiare perché mi comprasse almeno una pistola a tamburo, che sparava sei colpi. 
                        (continua al post successivo)

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