mercoledì 23 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 18° Capitolo: "Tentazioni"


La famiglia Ferrara abitava, come ho detto, sul nostro stesso pianerottolo. Il padre, romagnolo come Zàuli, si chiamava Cirillo. Era un uomo alto e nervoso, con un viso che sembrava di cera. I suoi capelli sottili e leggeri, pettinati con la riga e un ciuffetto sulla fronte, avevano un color bruno indefinibile che sembrava artificiale, opaco e polveroso: quel color bruno che sembra eterno, perché imbianca molto lentamente oppure mai, e che appartiene soprattutto, mi pare, a una certa categoria di uomini nervosi con la carnagione bianca. Cirillo aveva gli occhietti piccoli e rotondi. Nelle orecchie portava sempre dei batuffoli di ovatta. Come càpita alle persone timide e nervose, parlava a scatti, accalorandosi spesso inutilmente. Quando discorreva con calma, si fregava continuamente le mani.    
Coltivava qualche velleità culturale. In quegli anni poveri aveva comprato un paio di quadri di artisti romani di una certa notorietà cittadina e possedeva alcuni buoni libri.
A volte, la sera, io e mio fratello andavamo a trovarlo. Cirillo aveva una certa predilezione per Gigino, perché era stato amico del figlio Giuseppe e anche perché era un ragazzo sensibile che corrispondeva con simpatia al suo desiderio di conversare. Ci prestava dei libri e chiacchierava con Gigino, stando in piedi davanti alla libreria, nel salotto minuscolo, dove era qualche oggetto artistico che lui ci indicava con soddisfazione. Possedeva montagne di fascicoli di Selezione dal Readers’ Digest, che era la sua principale lettura, poiché gli piaceva, senza troppa fatica, sentirsi aggiornato.
La moglie, più giovane di oltre dieci anni, era friulana, grande, bruna e focosa. Da ragazza era venuta a Roma a fare la donna di servizio. Dalla signora dove lavorava, che dava camere in affitto a giovani scapoli, aveva incontrato il timido Cirillo e l’aveva conquistato con la sua esuberanza.
Dei quattro figli, tre avevano la carnagione bianca e i lineamenti del padre. Umberto, invece, aveva un colorito olivastro e dei tratti esotici, che probabilmente costituivano il ricordo (come i bambini del racconto di Cechov “Cronologia vivente”) del passaggio per Roma dei soldati coloniali alleati, un distaccamento dei quali era stato accampato per qualche giorno in una grande piazza, nelle vicinanze del palazzo dove i Ferrara abitavano al tempo della liberazione di Roma.                       
Ornella, la secondogenita, aveva un paio d’anni più di me. Già da ragazzina, a dodici o tredici anni, era bella e impudica. A me, quando frequentavo ancora le elementari, raccontava barzellette oscene con assoluta naturalezza, usando le parole più esplicite senza mai perdere l’aria di persona beneducata. Anch’io rimanevo composto e apparentemente indifferente. Sentivo che in lei c’era un desiderio di lascivia, ma io ero troppo piccolo per avere la forza di raccoglierlo.
Ornella crebbe alta e slanciata. Aveva i capelli neri, tagliati corti a caschetto, la pelle bianca e la bocca piccola e ben disegnata, che lei, quando voleva provocare, protendeva un poco in avanti.
Io e Gigino fummo per anni suggestionati e invaghiti di lei. Se Ornella usciva sul balcone (che avevamo in comune, diviso solo da un piccolo muretto), noi due ci sporgevamo verso di lei e cercavamo di attirarla ad una conversazione che diventava subito seria e artificiosa, a causa della nostra timidezza e dell’enfasi che noi ci mettevamo. Ornella voleva apparire anche lei una persona intelligente e interessata ad argomenti elevati e corrispondeva alle nostre parole libresche con un tono egualmente falso e scolastico. Ma i suoi piccoli occhietti brillavano di malizia e probabilmente ci canzonavano.
Verso la metà degli anni Cinquanta, i Ferrara, primi nel palazzo, comprarono il televisore e cominciarono a ricevere, come in un cinematografo, gli altri inquilini, un paio di volte alla settimana: il lunedì sera, che era dedicato al cinema e il sabato sera, riservato al varietà. Dietro la poltrona, in prima fila nel salottino, dov’era seduto papà Ferrara con il cappello e la sciarpa, venivano  aggiunte una decina di sedie (per gli spettacoli più affollati qualche inquilino si portava la sedia da casa) che superavano la soglia della stanza, invadevano il corridoio e arrivavano fino alla porta d’ingresso.
Un sabato sera trovai posto, nel piccolo salotto, su una sedia ai piedi di un lettino dove era coricata Ornella, che era malata, ma non voleva rinunciare al varietà “Rascel la nuit”. Tutto preso dallo spettacolo, ad un certo momento, afferrai, senza rendermene conto, una piega della coperta e la strinsi a lungo, tentando meccanicamente di spiegarla. Solo dopo molti inutili tentativi mi accorsi che, dentro la piega, tenevo strette le dita di un piede di Ornella, la quale aveva lasciato fare, convinta che la mia stretta fosse intenzionale.
Quando Ornella aveva quindici anni, mio fratello ne aveva diciassette ed io tredici. Gigino frequentava l’istituto per ragionieri “Duca degli Abruzzi”, dove studiava, due o tre classi indietro, anche Ornella. Per decisione della mamma, che aspirava a distinguersi, Ornella prendeva  lezioni di pianoforte, mentre il fratello Umberto studiava violino. Quell'estate, siccome Ornella era stata rimandata in due materie e doveva sostenere a settembre gli esami di riparazione di diritto e ragioneria, Gigino andava tutti i giorni ad aiutarla. Studiavano insieme la mattina, quando i fratelli di Ornella erano scesi a giocare giù in strada e la mamma, uscita per il mercato, poiché si fermava a chiacchierare con tutte le signore che incontrava, non rientrava a casa prima di un paio d’ore.
Io naturalmente invidiavo mio fratello per l’importanza che all’improvviso aveva acquistato agli occhi di Ornella e perché poteva ora starle accanto con tanta confidenza, ma non avevo il minimo dubbio che essi dedicassero unicamente allo studio il tempo che passavano insieme.
Il pomeriggio, appena il caldo diventava meno opprimente, avevamo l’abitudine di andare a Villa Massimo, dove restavamo fino al tramonto a guardare da lontano una bella e avvenente ragazza, allieva anche lei del “Duca degli Abruzzi”, che piaceva tanto a Gigino e che veniva ogni giorno in quel piccolo parco con gli amici del suo palazzo, in via Padova, e parlava e giocava in mezzo a loro come Nausicaa fra le sue ancelle.
Nella sua vita troppo presto interrotta, mio fratello ha veramente amato, anzi sognato, solo bellissime donne, che la sua timidezza patologica non gli ha mai permesso di raggiungere. Con la baldanza incosciente di chi è  ancora escluso dal gioco dell’amore, io lo incoraggiavo a farsi avanti e a rivolgere la parola alla sua compagna di scuola, se non voleva che rimanesse soltanto una bella apparizione.
Gigino doveva soffrire per la propria timidezza e un giorno, per riscattare ai miei occhi la propria immagine, mi raccontò che era riuscito a conquistare Ornella.
Ricordo quel momento come si ricorda il primo giorno di scuola o quello della prima comunione. Era un pomeriggio di luglio. Nella nostra camera con due lettini separati da un comodino, le stecche delle serrande abbassate lasciavano filtrare  lame di luce che illuminavano strisce di pulviscolo. In quell’ora silenziosa, in cui il mondo sembrava remoto e vuoto, si spalancò per me all’improvviso la porta di una realtà che fino a quel momento avevo solo immaginata vagamente, ma che da allora  in poi ha premuto su di me con la forza di una montagna.
Gigino mi raccontò che, già alla prima lezione, Ornella avvicinava il proprio viso al suo e gli alitava in faccia il profumo della sua bocca. Inoltre lo canzonava e lo stuzzicava con tante domande. Alla seconda lezione gli disse: “ Scommetto che non hai mai visto una donna nuda”.
Alla fine mio fratello dovette arrendersi (posso appena immaginare il suo piacere) ai desideri di Ornella, la quale, come si dice nei romanzi d’amore, gli permise tutto, tranne una cosa.
Ma i loro incontri diventarono ancora più complessi e avvincenti, quando Ornella chiamò a parteciparvi anche un’amica che abitava nella nostra stessa scala, Mariuccia.
Mariuccia era una ragazza di sedici anni alta, bionda e ardita. Aveva la pelle bianchissima, gli occhi azzurri un po’ slavati e un seno prorompente. Apparteneva a una famiglia numerosa. Il padre era morto subito dopo che erano venuti ad abitare nel nuovo palazzo della Banca. Per questi motivi e forse anche per la mancanza di una tradizione famigliare di studio, non andava più a scuola, ma stava in casa a sbrigare le faccende. Era sempre di buon umore, con delle maniere energiche e dirette da popolana. Sembrava una balia, una pescivendola o una lavandaia.
L’inverno successivo, in un tardo e già buio pomeriggio domenicale, quando il palazzo era tranquillo e silenzioso e il cortile deserto, mentre salivo a casa tornando da fuori, incontrai Mariuccia che scendeva le scale.
“Vado a prendere la legna in cantina. Mi vuoi aiutare?”
Arrivati nella remota cantina, in quel silenzio domenicale che invitava a pensieri lascivi, sentivo il cuore che batteva agitato.
Mentre riempivamo la cesta di pezzi di legno, Mariuccia si interruppe, mi guardò fisso con i suoi slavati occhi azzurri e mi chiese:
“Ma tuo fratello non ti ha raccontato niente?”
“No”, risposi fingendo di essere sorpreso. “Che cosa mi doveva raccontare?”
“Niente, niente.”

Rividi Ornella alcuni anni dopo che mi ero trasferito a Firenze. Ero tornato per qualche giorno in visita dai miei e accompagnai mio padre e zia Francesca a far visita ai Ferrara, che abitavano ora fuori Roma, in campagna.
Ornella era sposata con un funzionario di banca ed era in vacanza, con i suoi due figli, nella villetta dei genitori. Il marito era assente, ma lei parlò del lavoro di lui, degli stipendi e delle possibilità di carriera con una meravigliosa competenza da sindacalista. Anche allora, mentre facevamo una passeggiata attraverso i campi,  simulammo la serietà di una conversazione elevata e parlammo della condizione della donna e di Betty Friedan. Con una intenzione che smentiva completamente i miei discorsi da femminista, dissi: “Perché non ci sdraiamo un po’ sull’erba?”. Ma Ornella rifiutò. Dapprima mi dette una risposta che sembrava incongrua: “Ma io sono innamorata davvero di mio marito!”. E poi aggiunse prudentemente: “E’ tardi, bisogna tornare.”
           (continua al post successivo)

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