Avevo già superato i
cinquant’anni quando sono venuto in possesso del carteggio fra i miei genitori.
Per molto tempo ne avevo ignorato l’esistenza e non saprei ora neppure immaginare
dove potesse essere stato conservato in quell’appartamento così spoglio di
mobili che abitavamo alla fine degli anni Quaranta. Ad un certo momento, però, quel
fascio di lettere fece la sua apparizione in uno dei nuovi enormi e misteriosi
armadioni che piacevano tanto a mio padre, e lì rimase per decenni. Questi
armadioni si riempirono immediatamente, appena comprati da un rigattiere, di
una infinità di oggetti vari e strani. Mio padre aveva la sindrome del
naufrago, e conservava e raccattava tutto, anche pezzetti di spago e mollette
per stendere la biancheria. In mezzo a radiografie, certificati, pagelle
scolastiche, saponette, mozziconi di matita, quaderni, pacchetti di caffè,
scatole di fiammiferi, guanti e portafogli avuti in regalo e riposti ancora
nuovi, pettini e pettinini, una macchinetta per tagliare i capelli e decine di
altre cose disparate, spiccava un grande anello di filo di ferro dove erano
infilate centinaia di chiavi. Erano chiavi di case, uffici e magazzini di altri
luoghi e di altri tempi, di sportelli e cassetti appartenenti a mobili ormai
scomparsi, di valige, scatole e lucchetti perduti nei tanti traslochi e perfino
chiavi trovate per strada. Mio padre aveva una passione per le chiavi. Tutto in
casa era chiuso a chiave; anche gli armadioni si aprivano solo su ordine o
concessione di nostro padre. Anche quando rimase solo, a ottant’anni, continuò
a tenere ogni cosa sotto chiave.
Avrei certo potuto leggere
facilmente le lettere dei miei genitori anche quando ero ragazzo e vivevo ancora
in famiglia. Ma allora non ero curioso ed ero forse anche frenato da un
sentimento di discrezione. Vivevo nel presente, credevo di conoscere bene mio
padre, e di mia madre mi bastava sapere le poche cose che mi erano state
raccontate. Poi, uscito di casa e formata una mia famiglia, sono stato per
molto tempo, rispetto a quel lontano passato, come in letargo.
Ma ora che tutti i protagonisti
di quel tempo non ci sono più e solo io posso descrivere il passato e ridargli
un po’ di vita, ho sentito che non potevo fare a meno di leggere, anzi di
studiare, quelle antiche lettere.
Confesso che le ho lette
commosso solo a metà. Già nella prima lettera, del settembre 1929 (quando non
aveva nemmeno vent’anni), mio padre rivela uno stile retorico che, per tutta la
sua lunga vita, non è più cambiato.
“Attratto dalle sue doti, e
dalle maniere gentili e piacevoli che adornano la sua bella personcina, la mia
mente ed il mio cuore, uniti e concordi, le domandano se possono amarla.
Difatti, i suoi modi e le sue virtù l’hanno talmente attratti, che questa notte
un sogno bello e radioso accompagnò il sonno ristoratore di ogni umana fatica.”
Nel sogno, descritto nei minimi
particolari, mio padre, che stava appena scrivendo la sua dichiarazione, già si
vedeva in una “bella chiesa adornata a festa”, sposato con una “vergine
fanciulla tutta di bianco vestita, con in capo fiori d’arancio”.
“Finito il rito solenne ed
austero, nell’uscire dal tempio, lo sposo nel rimirare la sua dolce compagna,
tenta, con un supremo abbraccio stringerla al suo petto. Ma
proprio in quel mentre mi sveglio di soprassalto, ansante, con le braccia in
alto, in atto di abbracciare”.
Una immagine inventata per
concludere un sogno finto.
Per tutti i quattro anni di
fidanzamento le lettere di mio padre mantengono lo stesso tono alato:
“Sento nel mio intimo aleggiare
una dolcezza infinita, una passione profonda, che mi conquidono, e rendono il
mio cuore pronto al sacrificio e al dovere!”
Il sacrificio e il dovere: era
lo loro epoca!
Lampi di erotismo sublimato:
“Rallegrati, una gioia pura e
sincera aleggia sui nostri cuori, un’amore profondo tiene avvinte le nostre
anime in stretta e sublime comunione. Per esso tutto il mio intimo freme per
te, ed i più dolci e soavi palpiti sprigionano dal mio cuore il profumo
fragrante ed il nettare della nostra passione, che con tenerezza infinita ai
tuoi piedi depongo.”
Ma c’è anche qualche
involontaria nota comica:
“Altamente apprezzo le tue
belle espressioni e mi è caro grandemente sentire dalla tua bocca la dolce e sublime
parola: ti amo! Come mi sento lieto e contento di corrispondere tale nobile
sentimento! [...] Maria, quando nella prossima S. Pasqua verremo a trovarti,
non far fare alla tua mamma spese eccessive; come già ti ho detto i miei nonni
mangiano molto poco, e quindi sarebbe uno sprechìo direi quasi inutile.”
Mia madre fu certo trascinata
dall’enfasi sentimentale e patriottica di quelle lettere; conservò tuttavia una
concretezza, una grazia e una sincerità simpatiche e commoventi.
La sua risposta alla dichiarazione
di mio padre mi sembra scritta con garbo e leggerezza:
“Gent.mo Vincenzo,
prima di accogliere la tua
proposta ho lungamente riflettuto e finalmente ho deciso a risponderti. Il
cuore che non parla, ma che sente e palpita animato dalla passione non potè
restare a lungo incerto, debbo dirtelo? Non ho potuto negarti quanto mi hai con
tanta amabilità domandato.”
A parte le espressioni
stereotipate della fraseologia amorosa convenzionale, con cui si concludeva
ogni lettera dei due fidanzati, i pensieri di mia madre erano sempre vivaci e
personali.
“...da parte mia ti prometto di
essere tale come mi hai conosciuta, anzi col tempo saprai conosciermi meglio,
allora potrai dire sì, quello che oggi potrebbe essere lusinghe un giorno
vedrai che è realtà, certo con l’aiuto di Dio perchè senza di lui io non sono
che niente.”
Qui voglio vedere un pizzico di
ironia involontaria:
“Ho ricevuto la tua cara
lettera e leggendo le belle parole che dici io rimango in estasi ad un amore si
grande, si bello, si puro.”
“Ripeto ancora ciò che avrò
detto tante volte perchè non ho più parole, anzi non so esprimere tutto quello
che il cuore vorrebbe dirti, sono così ignorante! Tu invece sai dire tante
belle cose.”
Una volta mio padre mancò un
appuntamento:
“Vincenzo non ti esagero,
tornai a casa con le lagrime agli occhi, quando a me e tanto difficile il
piangere.”
Una delicatezza da grande
romanzo psicologico:
“Stamattina ho letto la tua
lettera con la cartolina in un attimo, ma poi mi son messa a rileggerla più
attentamente e adagio quasi per paura di finire troppo presto.”
Un grande sentimento di sé:
[I miei] “ti stimano e ti
vogliono bene perchè sanno che io non avrei mai amato una persona che
moralmente non sia degna di me.”
Mio padre le aveva mandato
qualche foto, tra cui una di quando era bambino:
“più di tutto il mio animo ha
provato un immensa tenerezza per quel piccolo Vincenzo. Per me saranno tutte
care e non esagero se dico come reliquie. Com’è bello avere i ricordi
d’infanzia e vero? E che peccato che mamma non abbia mai pensato a questo a suo
tempo.”
Un sincero sentimento
religioso:
“Io dico, non è mai troppo
tutto ciò che si fa a scopo di bene. Comprendo che non tutti gli uomini anno
gli stessi sentimenti buoni, e riconoscono qual’è i propri doveri ma noi non
vogliamo essere eguali a costoro, la nostra coscenza non dovrà mai
rimproverarci niente.”
Una capacità di sentire con
grande finezza e intensità (mio padre le aveva mandato una foto di sua madre
defunta):
“a guardarla, unito alla
bellezza non doveva mancare la bontà.”
“Mi dici Vincenzo di scriverti
assai io vorrei accontentarti ma proprio non so cosa dire, tu sai che io sono
tanto poco istruita e perciò non so scrivere delle lunghe pagine, un’altra
ragione poi è questa, che non so dire parole che non valgono nulla o magari
parole che escono dalla bocca e non dal cuore.”
Dopo il matrimonio non ci sono
più lettere fino al settembre 1942, quando mio padre trentatreenne fu
richiamato alle armi, prima ad Ascoli Piceno, poi a Massafra, in provincia di
Taranto.
Due settimane prima di partire,
egli sostiene un esame, forse interno alla Banca in cui lavorava, per decidere
il suo inquadramento professionale. Di quell’esame ho trovato fra le lettere lo
svolgimento del compito d’italiano, che è, dopo più di dieci anni, ancora
perfettamente in linea col tono “sublime” delle lettere alla fidanzata.
Il titolo era “Apro la mia
finestra e guardo fuori: che cosa vedo?”.
Mio padre scrisse che egli
davanti alla sua finestra vedeva: “una caserma di baldi soldati!”.
“Questi giovani, speranze della
patria, danno al mio animo un senso di profonda fierezza, e nel tempo stesso mi
fanno pensare ai sacrifici immensi, che con spirito sereno vanno incontro,
nella difesa del suolo patrio”.
E continuava così fino alla
perorazione finale:
“Speriamo che l’incendio che
divampa nel mondo, nel suo fuoco divoratore bruci tutto ciò chè è impuro nei
cuori umani, lasciandoci soltanto sentimenti di maggiore giustizia e
solidarietà sociale”.
L’esaminatore, pago
dell’ispirazione patriottica, non vide o non volle correggere alcuni errori di
sintassi e di ortografia e dette un voto alto, con questo sciocco commento:
“Scritto corretto e chiaro – Bravo – Perseverate.”
Durante il suo servizio
militare, che durò poco meno di un anno, mio padre tenne un sintetico diario.
Appena arrivato ad Ascoli
Piceno, il 26 settembre 1942, passa la prima notte alla Caserma Umberto, “sulle
dure tavole, senza coperte né paglia. Mi veniva quasi a piangere al pensare
alle nequizie umane causa prima dell’immenso braciere che arde nel mondo, che
tanti e tanti padri e tanti figli consuma nel suo fuoco divoratore!”
Ma in poche settimane si adatta
alla nuova vita. Il 30 ottobre fa una marcia in montagna.
“La faticosa marcia fatta per
strade mulattiere, per sentieri montani accessibili soltanto a capre l’ho
felicemente superata. Sul monte Chiamatore abbiamo fatto i tiri e lezioni alle
armi e poco distante abbiamo consumato il rancio. Ho mangiato con molto
appetito, consumando una gavetta piena ricolma di riso. La riuscita di tale
marcia l’ho dovuta a una borraccia piena di vino cotto che cammin facendo
dovevo ogni tanto sorseggiare.”
Primo dicembre:
“inizio del corso di
Segnalatori di bandiere a lampo di colori, corso assai piacevole e divertente,
che mi ha dato motivo di accostare nuovi camerati e fare così nuove amicizie.”
4 dicembre.
“Marcia di 34 Km. Abbiamo raggiunto il
paesetto di Appignano, sito in località bella e salubre, ed in esso abbiamo
consumato il rancio. Ho trascorso la giornata in allegria cantando a squarciagola
e divertendomi un mondo.”
Qualche giorno dopo.
“Passeggiata a Marino.
Esercitazione di lancio di bombe a mano, dopo di che un capitano ci fece un
acceso discorso patriottico per infonderci entusiasmo e desiderio di vittoria a
costo di qualsiasi sacrificio.”
20 dicembre.
“Partenza del primo contingente
del battaglione. Una cerimonia molto commovente e solenne ha preceduto la
partenza. Il saluto del colonnello alla truppa schierata in perfetto
equipaggiamento nel cortile della Caserma Umberto, la musica con i suoi inni
patriottici, i visi muti e gli occhi velati dei camerati, l’effusiosa ed
affettuosa cameratesca cordialità degli ufficiali, mi commossero fino a
piangere. Poche volte in vita mia ho sentito in me tanto dispiacere, tanta
tenerezza!”
Alla fine di dicembre mio padre
è trasferito a Massafra.
“Dopo un fortunoso viaggio di
oltre 28 ore in tradotta, ammassati come... bestie, stanchi e spossati siamo
arrivati a destino. Scesi dalla Stazione e per una mulattiera fangosa e
puzzolente ci siamo incamminati verso il paese: era circa le 22. Arrivati in
piazza, località più importante, per rintracciare i Comandi Militari abbiamo
dovuto fare una sosta di oltre un’ora. Stanchi, assonnati, affamati, non si
riusciva a trovare la nostra sistemazione! Mi sentivo l’animo triste ed
accasciato, e maledivo in cuor mio i responsabili di tanti nostri guai e
patimenti. Infine fummo condotti in un fabbricato mezzo diroccato, ex convento,
e dopo aver consumato un frugalissimo pasto ci potemmo gettare nelle braccia di
Morfeo, nel soffice letto consistente: telo da tenda e nudo pavimento”.
In una lettera alla moglie, del
31 dicembre, mio padre si lamentava.
“Oltre ad essere maggiormente
lontano da casa, ho trovato un ambiente molto diverso di Ascoli; qui i bei
pranzetti che prima facevo debbo purtroppo dimenticarli poichè Massafra è un
paesone ma vi manca la vita cittadina con trattorie ed alberghi e ristoranti”.
Già il 30 dicembre mio padre
annota sul diario che svolge mansioni di scritturale al Comando della 2^ Compagnia,
“in considerazione delle mie capacità”.
Alla fine di gennaio 1943, mio
padre scrive:
“I giorni mi trascorrono
veloci. Il lieve lavoro che svolgo nel Comando della Compagnia mi è di molto
ausilio a non pensare alla famiglia lontana, con quel dolore e tristezza dei
primi giorni. Ho avuto la grande fortuna di incontrare superiori ottimi, degni
della massima stima e rispetto. Fra gli altri nutro una spiccata simpatia per
il Comandante, il quale ha conquistato tutta la mia ammirazione per la sua
nobiltà di cuore e magnanimità d’animo. Sentimenti questi riconosciutigli da
tutti i fanti alle sue dipendenze e dagli stessi altamente apprezzati”.
20 febbraio 1943.
“Di buon mattino siamo partiti
a mezzo di autotreni alla volta della pineta di Chiatona. Quivi simulando
attacchi nemici ci siamo dati all’inseguimento dell’immaginario nemico,
percorrendo per circa sei chilometri la boscaglia tra siepi e sterpi,
avvallamenti e colline, riuscendo così veramente a simulare una battaglia che
ci è servito di valido addestramento. Mi ha molto soddisfatto, e come immediato
risultato ho avuto un aumento d’appetito”.
10 marzo 1943.
“Ultimo giorno di carnevale.
Carnevale di guerra che alla migliore maniera ho cercato di trascorrere. Da
molti giorni passo le serate in lieta brigata nei locali dei sergenti e con
essi mi diverto un mondo giocando e conversando allegramente”.
24.marzo.1943.
“Il sig. Capitano mi ha invitato a partecipare ad una esercitazione tattica che io ho senz’altro accettato aggregandomi al plotone ciclisti. E’ stata una magnifica passeggiata che mi ha divertito un mondo”.
“Il sig. Capitano mi ha invitato a partecipare ad una esercitazione tattica che io ho senz’altro accettato aggregandomi al plotone ciclisti. E’ stata una magnifica passeggiata che mi ha divertito un mondo”.
Con una annotazione riassuntiva
di due mesi di attività, il 20 maggio 1943 mio padre scriveva:
“Nessun fatto di particolare
importanza si è succeduto in questo periodo di tempo. La vita militare mi è
trascorsa e mi prosegue a trascorrere piana e tranquilla”.
Di tutto questo ultimo anno non
è rimasto alcuno scritto di mia madre, tranne quattro cartoline postali
dell’agosto 1943, l’ultima delle quali del 30, il giorno prima della fatale
incursione aerea.
Di mio padre, invece, sono
rimaste, per questo periodo, una quarantina di lettere. La vita di mia madre,
sola con due bambini, con poche risorse economiche e con tutti i pericoli dello
stato di guerra, doveva essere difficile e dolorosa. Mio padre (si capisce
dalle sue lettere) era esigente ed assillante.
Tuttavia, in una lettera da
Massafra del 3 marzo 1943, egli scrive il pensiero più profondo e sincero di
tutto il carteggio.
“Sento vivo in me la vostra
mancanza poichè forse ero troppo assorbito dalle cure per voi, ero troppo a voi
legato oltrechè dagli affetti più intimi, dai tanti e tanti bisogni materiali
di cui dovevo continuamente elargirvi. Quegli atti d’impazienza che molte volte
mi sfuggivano, vorrei riviverle, poichè adesso comprendo che avevo torto di
tali incandescenze. Vorrei riviverle per essere vicino a voi, vorrei riviverle
per dimostrarti ancora una volta quanto siano grandi il mio affetto ed il mio
amore”.
Ma mio padre era organicamente
un egocentrico. Nonostante che la vita militare fosse per lui, per sua stessa
ammissione, piana, tranquilla e quasi divertente, ha il coraggio, annunciando
una sua visita in licenza, di fare questa raccomandazione, l’11 marzo 1943:
“Come per il passato verrò
all’improvviso. Ti raccomando fammi trovare tutto il mondo famigliare pieno di
giocondità, fa che il mio soggiorno tra la famiglia mi sia di dolce conforto e
di meritato riposo”.
E ancora, il 22 marzo:
“Verrà con me anche un
sottufficiale che è qui per me un carissimo amico, voglio quindi, che ti possa
ritrovare tutta rassettata sia nella persona che nella casa”.
Mia madre aveva una natura
appassionata e purtroppo avrà risposto senza sarcasmo ad una raccomandazione
così meschina.
Intanto mio padre continuava la
sua villeggiatura a Massafra.
“Io sto facendo la cura di
uova: me ne bevo due o tre al giorno” (4 aprile 1943).
Il 30 aprile mio padre ha un
altro lampo di sincerità.
“Ti ho fatto un sacco di
chiacchiere, delle parole ripetute centinaia di volte, e che forse ti
seccheranno, mi devi scusare: ormai conosci il mio carattere e devi
comprendermi”.
Ma il suo egocentrismo riprende
subito il sopravvento, 19 maggio 1943.
“Come vedi ogni mio pensiero,
ogni mia preoccupazione sei tu ed i bambini, certo questi sentimenti sono
comuni a tutti i buoni mariti e padri, ma io forse me ne sento fiero dei miei
sentimenti e non li eguaglio a nessuno. Sta a te a saperli apprezzare nella
giusta misura e spronarmi col tuo affetto e con la tua amorosa parola a
perseverare nel meglio.”
Mia madre lo aveva
evidentemente criticato perché, nonostante le scarse risorse economiche, lui
aveva sottoscritto dei Buoni del Tesoro. Mio padre dapprima risponde: hai
ragione, spediscimi allora meno soldi per me. Poi, col tipico bel gesto eroico
e sprezzante con cui si vorrebbe schiacciare l’avversario, aggiunge:
“Male che ti vada non mi
manderai niente, va bene? Credo allora che nessun squilibrio ti porterà il
passo che ho fatto, ed anzi se hai buon senso e buon cuore ne dovresti
apprezzare il gesto maggiormente stamani notando con questo atto quanto amore e
spirito di sacrificio sento per la mia adorata famigliola” (10
luglio 1943).
Nel suo diario di Massafra, il
10 luglio mio padre scrive:
“Un fatto nuovo nelle vicende
della guerra ha riempito il mio cuore di profonda pena: lo sbarco degli
anglo-americani nella nostra Sicilia. Un vivido senso di odio è esploso dal più
profondo dell’animo contro questi maledetti che si accingono a calpestare il
sacro suolo della nostra Patria. Voglia il buon Dio darci tanta forza e tanto
coraggio da contrastare e ricacciare in mare questi novelli barbari. Attendo
fiducioso gli eventi, sicuro che il Signore farà degli italiani un granitico
blocco di individui virili e sereni, coscenti e prodi, consapevoli di quanto la
patria da essi attende”.
E a mia madre il 14 luglio
scrive:
“Come già hai appreso tristi
eventi si preparano alla nostra patria, speriamo che il Signore mi tenga sempre
la sua possente mano sul capo e mi faccia ritornare sano e salvo tra i miei
cari [...] L’Italia, questa nostra Italia, madre comune di tutti noi, sicura
della sua giusta causa non può, non deve perdere la guerra, poichè altrimenti è
la rovina di tutti e in special modo anche nostro”.
Nemmeno le cannonate
risveglieranno la coscienza politica di mio padre, formatasi prima in collegio,
ascoltando con incondizionato rispetto le allocuzioni e le vuote solennità dei
direttori, poi assorbendo la trita e velleitaria sottocultura della piccola
borghesia fascista e dannunziana. Dopo la guerra egli si consegnerà, cambiando appena qualche
parola del suo vocabolario e conservando la stessa enfasi e lo stesso
pressappochismo, al mito della Russia di Stalin.
Nella lettera a mia madre del
16 luglio, rammaricandosi di ricevere poche lettere dalla moglie, ha un lampo
di umana debolezza:
“La mia mente è sconvolta da
mille preoccupanti pensieri e ti sarei infinitamente grato se non verresti meno
a questa carità verso tuo marito”; ma subito dopo, poiché mia
madre non era andata a far visita a dei parenti di lui, riprende l’abituale
tono saccente: “Quanto poco saper fare hai in certi casi!”
La fine della lettera è una
apoteosi di narcisismo. Riprende il discorso sui Buoni del Tesoro.
“Se il danaro che eventualmente
verrai a percepire per l’avvenire non ti sarà sufficente, non mi spedirai più
nulla. Vedi di quanto spirito di sacrificio sono pieno per il benessere dei
miei cari? Lo apprezzi tu questo mio modo di fare, oppure mi giudichi alla
stessa stregua dei nostri parenti, come uomo insofferente, tedioso ed avaro?
Solo Iddio può giudicare i miei atti che sono stati sempre ispirati dal cuore e
dal bene. Ho avuto in ogni tempo e luogo, persone che l’essenza del mio
carattere e della mia bontà non l’hanno saputo nè apprezzare nè comprendere,
non voglio, non posso credere che anche tu sii tra queste”.
Il 6 agosto 1943 mio padre
scriveva:
“Non credere, non sospettare
che io sia ostile verso di te; che non ti ami come i giorni del nostro primo
incontro [...] Tu mi accusi che io non so comprenderti, mentre io invece accuso
te di tale incomprensione”.
Tre giorni dopo mio padre
scriveva nel suo diario di vita militare:
“Dalla fureria sono passato al
ripostiglio. In otto mesi ho saputo tanto bene conquistarmi l’affetto e la
stima dei miei superiori, che questi hanno creduto opportuno affidarmi quest’altra
mansione di fiducia”.
Il 16 agosto, a mia madre:
“Non passa giorno che sulle ali
del pensiero non scavalchi monti e valli per raggiungere voi che amo tanto”. Benché
le circostanze famigliari e generali siano difficili e drammatiche, mio padre non
sa uscire dalla retorica.
Mia madre invece è concreta,
sincera e umana. Rispondendo alle lamentele di mio padre, il 21 agosto scrive:
“Se tu mi potresti vedere e
controllare compatiresti il mio comportamento che agli occhi tuoi lontani può
sembrare riprovevole. [...] Non chiamarmi esagerata ma tu non sai quanto io
soffro”.
Il 25 agosto scrive:
“Gigino [...] ti ricorda con
affetto nel parlare sempre di te e ogni giorno mi domanda quando finisce la
guerra acciocche torni il suo papà. Da
parte mia ti ringrazio della posta quotidiana che mi fai avere, non puoi
credere quanta gioia sento nel ricevere un tuo scritto da parte mia dovrei fare
altrettanto eppure delle volte vengo meno ad un mio primo dovere ma ti giuro
che attraverso delle giornate tanto occupate con questi bambini che non mi
lasciano un minuto di tempo specialmente Fabrizio che li tengo sempre attaccato
a me come una sanguisuga ma con tutto ciò il mio primo pensiero tutto il mio
affetto è rivolto a te. [...] Mio caro Vincenzo se ti riesce comprare qualche
paio di scarpette per Fabrizio perchè di quelli della piazza di cartone ne
occorrono un paio la settimana quindi è una bella spesa”.
Il 27 agosto scrive:
“Sono molto agitata per tutti
questi quotidiani eventi ed anche per mio fratello Nanduccio che da tanto tempo
prima della resa della Sicilia non si è saputo più nulla, forse sarà
prigioniero? Chi sa! Il Signore l’aiuti e lo protegga. Ieri con l’incursione su
Sulmona è morto parecchi di Pescara e tra questi Bruno Basciano il nipote di
Zazzetta non puoi credere quanto mi ha accasciata questa notizia [...] Ti ho
detto che mi trovo a casa di tua sorella Nerina ci sto più tranquilla. Ma poi
chi sa che cosa vuole il Signore di noi! E’ meglio dire sia fatta la sua
volontà”.
E nell’ultima cartolina, il 30
agosto, il giorno prima del massiccio bombardamento, fra varie cose famigliari,
mia madre scrive:
“Qua a Pescara gente che
sfollano a migliaia”.
Mio padre il 26 agosto aveva
scritto a Massafra l’ultima paginetta del suo diario:
“Ho assistito per la prima
volta ad un bombardamento aereo. E’ cosa terrificante che riempie l’animo di
profonda pena. Dormivo da circa due ore quando un formidabile scoppio mi ha
svegliato di soprassalto: credendo fossero dei tiri di esercitazione mi stavo
riaddormentando; senonchè successive detonazioni fragorose mi fecero aver
sentore della realtà. Era circa le 2,30 di notte: completamente nudo mi son
riversato fuori, e uno spettacolo terrificante si offrì al mio sguardo.
Centinaia di razzi illuminavano a giorno la città di Taranto dalla quale appena
circa 20 Km
ci separa, e varie decine di aereoplani si susseguono nel lancio di bombe di
ogni calibro! I danni sono stati rilevantissimi. Centinaia le famiglie rimaste
senza tetto; numerose le vittime ed i feriti.
Ecco il risultato della civiltà
e della libertà! Ecco il risultato di tante nequizie umane! Si combatte, si
muore, non per gli ideali sacri della fede e della patria, ma per distruggerci
dalle più profonde radici, incoscemente; disprezzando e bistrattando quanto Iddio
con la sua infinita bontà ci ha elargito. Si assiste al paradosso che il genio
umano, la scienza, anzichè essere al servizio del progresso e del bene, sono
strumenti di distruzione e di morte.
Qui in Massafra vi sono oltre
20.000 sfollati di Taranto. All’indomani, giorno successivo al bombardamento,
ho assistito a delle scene ancora più tristi e pietose: centinaia e centinaia
di donne e bambini scalzi, quasi ignudi, in uno stato macilento e misero si
riversano su Massafra in cerca di asilo e di un po’ di tranquillità. Ho
assistito a delle scene che mi ha veramente sconvolto animo e cuore!”
Mio padre seppe della morte
della moglie solo una settimana dopo il bombardamento su Pescara. Aveva
continuato a scriverle ancora per qualche giorno. L’ultima lettera rimasta è
del 6 settembre.
“Grazie Iddio godo buonissima
salute e forse mai ho raggiunto tanta floridezza: mi son pesato oggi nel
pomeriggio ed ho raggiunto il bel peso di Kg 71; un aumento di 14 Kg rispetto al settembre
dell’anno scorso [...] Dall’incursione in poi non ho ricevuto nessuna notizia:
pensa tu come posso essere tranquillo [...] Voglia il cielo che tu soltanto con
una paura abbia risolto ogni cosa e che te la sei cavata sana e salva”.
(continua al post
successivo)
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