domenica 20 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 3° Capitolo : "Un difficile matrimonio d'anteguerra".

Avevo già superato i cinquant’anni quando sono venuto in possesso del carteggio fra i miei genitori. Per molto tempo ne avevo ignorato l’esistenza e non saprei ora neppure immaginare dove potesse essere stato conservato in quell’appartamento così spoglio di mobili che abitavamo alla fine degli anni Quaranta. Ad un certo momento, però, quel fascio di lettere fece la sua apparizione in uno dei nuovi enormi e misteriosi armadioni che piacevano tanto a mio padre, e lì rimase per decenni. Questi armadioni si riempirono immediatamente, appena comprati da un rigattiere, di una infinità di oggetti vari e strani. Mio padre aveva la sindrome del naufrago, e conservava e raccattava tutto, anche pezzetti di spago e mollette per stendere la biancheria. In mezzo a radiografie, certificati, pagelle scolastiche, saponette, mozziconi di matita, quaderni, pacchetti di caffè, scatole di fiammiferi, guanti e portafogli avuti in regalo e riposti ancora nuovi, pettini e pettinini, una macchinetta per tagliare i capelli e decine di altre cose disparate, spiccava un grande anello di filo di ferro dove erano infilate centinaia di chiavi. Erano chiavi di case, uffici e magazzini di altri luoghi e di altri tempi, di sportelli e cassetti appartenenti a mobili ormai scomparsi, di valige, scatole e lucchetti perduti nei tanti traslochi e perfino chiavi trovate per strada. Mio padre aveva una passione per le chiavi. Tutto in casa era chiuso a chiave; anche gli armadioni si aprivano solo su ordine o concessione di nostro padre. Anche quando rimase solo, a ottant’anni, continuò a tenere ogni cosa sotto chiave.

Avrei certo potuto leggere facilmente le lettere dei miei genitori anche quando ero ragazzo e vivevo ancora in famiglia. Ma allora non ero curioso ed ero forse anche frenato da un sentimento di discrezione. Vivevo nel presente, credevo di conoscere bene mio padre, e di mia madre mi bastava sapere le poche cose che mi erano state raccontate. Poi, uscito di casa e formata una mia famiglia, sono stato per molto tempo, rispetto a quel lontano passato, come in letargo.
Ma ora che tutti i protagonisti di quel tempo non ci sono più e solo io posso descrivere il passato e ridargli un po’ di vita, ho sentito che non potevo fare a meno di leggere, anzi di studiare, quelle antiche lettere.

Confesso che le ho lette commosso solo a metà. Già nella prima lettera, del settembre 1929 (quando non aveva nemmeno vent’anni), mio padre rivela uno stile retorico che, per tutta la sua lunga vita, non è più cambiato.
“Attratto dalle sue doti, e dalle maniere gentili e piacevoli che adornano la sua bella personcina, la mia mente ed il mio cuore, uniti e concordi, le domandano se possono amarla. Difatti, i suoi modi e le sue virtù l’hanno talmente attratti, che questa notte un sogno bello e radioso accompagnò il sonno ristoratore di ogni umana fatica.”
Nel sogno, descritto nei minimi particolari, mio padre, che stava appena scrivendo la sua dichiarazione, già si vedeva in una “bella chiesa adornata a festa”, sposato con una “vergine fanciulla tutta di bianco vestita, con in capo fiori d’arancio”.
“Finito il rito solenne ed austero, nell’uscire dal tempio, lo sposo nel rimirare la sua dolce compagna, tenta, con un supremo abbraccio stringerla al suo petto. Ma proprio in quel mentre mi sveglio di soprassalto, ansante, con le braccia in alto, in atto di abbracciare”.
Una immagine inventata per concludere un sogno finto.

Per tutti i quattro anni di fidanzamento le lettere di mio padre mantengono lo stesso tono alato:
“Sento nel mio intimo aleggiare una dolcezza infinita, una passione profonda, che mi conquidono, e rendono il mio cuore pronto al sacrificio e al dovere!”
Il sacrificio e il dovere: era lo loro epoca!

Lampi di erotismo sublimato:
“Rallegrati, una gioia pura e sincera aleggia sui nostri cuori, un’amore profondo tiene avvinte le nostre anime in stretta e sublime comunione. Per esso tutto il mio intimo freme per te, ed i più dolci e soavi palpiti sprigionano dal mio cuore il profumo fragrante ed il nettare della nostra passione, che con tenerezza infinita ai tuoi piedi depongo.”

Ma c’è anche qualche involontaria nota comica:
“Altamente apprezzo le tue belle espressioni e mi è caro grandemente sentire dalla tua bocca la dolce e sublime parola: ti amo! Come mi sento lieto e contento di corrispondere tale nobile sentimento! [...] Maria, quando nella prossima S. Pasqua verremo a trovarti, non far fare alla tua mamma spese eccessive; come già ti ho detto i miei nonni mangiano molto poco, e quindi sarebbe uno sprechìo direi quasi inutile.”

Mia madre fu certo trascinata dall’enfasi sentimentale e patriottica di quelle lettere; conservò tuttavia una concretezza, una grazia e una sincerità simpatiche e commoventi.
La sua risposta alla dichiarazione di mio padre mi sembra scritta con garbo e leggerezza:
“Gent.mo Vincenzo,
prima di accogliere la tua proposta ho lungamente riflettuto e finalmente ho deciso a risponderti. Il cuore che non parla, ma che sente e palpita animato dalla passione non potè restare a lungo incerto, debbo dirtelo? Non ho potuto negarti quanto mi hai con tanta amabilità domandato.”

A parte le espressioni stereotipate della fraseologia amorosa convenzionale, con cui si concludeva ogni lettera dei due fidanzati, i pensieri di mia madre erano sempre vivaci e personali.

“...da parte mia ti prometto di essere tale come mi hai conosciuta, anzi col tempo saprai conosciermi meglio, allora potrai dire sì, quello che oggi potrebbe essere lusinghe un giorno vedrai che è realtà, certo con l’aiuto di Dio perchè senza di lui io non sono che niente.”

Qui voglio vedere un pizzico di ironia involontaria:
“Ho ricevuto la tua cara lettera e leggendo le belle parole che dici io rimango in estasi ad un amore si grande, si bello, si puro.”

“Ripeto ancora ciò che avrò detto tante volte perchè non ho più parole, anzi non so esprimere tutto quello che il cuore vorrebbe dirti, sono così ignorante! Tu invece sai dire tante belle cose.”

Una volta mio padre mancò un appuntamento:
“Vincenzo non ti esagero, tornai a casa con le lagrime agli occhi, quando a me e tanto difficile il piangere.”

Una delicatezza da grande romanzo psicologico:
“Stamattina ho letto la tua lettera con la cartolina in un attimo, ma poi mi son messa a rileggerla più attentamente e adagio quasi per paura di finire troppo presto.”

Un grande sentimento di sé:
[I miei] “ti stimano e ti vogliono bene perchè sanno che io non avrei mai amato una persona che moralmente non sia degna di me.”

Mio padre le aveva mandato qualche foto, tra cui una di quando era bambino:
“più di tutto il mio animo ha provato un immensa tenerezza per quel piccolo Vincenzo. Per me saranno tutte care e non esagero se dico come reliquie. Com’è bello avere i ricordi d’infanzia e vero? E che peccato che mamma non abbia mai pensato a questo a suo tempo.”

Un sincero sentimento religioso:
“Io dico, non è mai troppo tutto ciò che si fa a scopo di bene. Comprendo che non tutti gli uomini anno gli stessi sentimenti buoni, e riconoscono qual’è i propri doveri ma noi non vogliamo essere eguali a costoro, la nostra coscenza non dovrà mai rimproverarci niente.”

Una capacità di sentire con grande finezza e intensità (mio padre le aveva mandato una foto di sua madre defunta):
“a guardarla, unito alla bellezza non doveva mancare la bontà.”

“Mi dici Vincenzo di scriverti assai io vorrei accontentarti ma proprio non so cosa dire, tu sai che io sono tanto poco istruita e perciò non so scrivere delle lunghe pagine, un’altra ragione poi è questa, che non so dire parole che non valgono nulla o magari parole che escono dalla bocca e non dal cuore.”

Dopo il matrimonio non ci sono più lettere fino al settembre 1942, quando mio padre trentatreenne fu richiamato alle armi, prima ad Ascoli Piceno, poi a Massafra, in provincia di Taranto.

Due settimane prima di partire, egli sostiene un esame, forse interno alla Banca in cui lavorava, per decidere il suo inquadramento professionale. Di quell’esame ho trovato fra le lettere lo svolgimento del compito d’italiano, che è, dopo più di dieci anni, ancora perfettamente in linea col tono “sublime” delle lettere alla fidanzata.
Il titolo era “Apro la mia finestra e guardo fuori: che cosa vedo?”.
Mio padre scrisse che egli davanti alla sua finestra vedeva: “una caserma di baldi soldati!”.
“Questi giovani, speranze della patria, danno al mio animo un senso di profonda fierezza, e nel tempo stesso mi fanno pensare ai sacrifici immensi, che con spirito sereno vanno incontro, nella difesa del suolo patrio”.
E continuava così fino alla perorazione finale:
“Speriamo che l’incendio che divampa nel mondo, nel suo fuoco divoratore bruci tutto ciò chè è impuro nei cuori umani, lasciandoci soltanto sentimenti di maggiore giustizia e solidarietà sociale”.
L’esaminatore, pago dell’ispirazione patriottica, non vide o non volle correggere alcuni errori di sintassi e di ortografia e dette un voto alto, con questo sciocco commento: “Scritto corretto e chiaro – Bravo – Perseverate.”

Durante il suo servizio militare, che durò poco meno di un anno, mio padre tenne un sintetico diario.
Appena arrivato ad Ascoli Piceno, il 26 settembre 1942, passa la prima notte alla Caserma Umberto, “sulle dure tavole, senza coperte né paglia. Mi veniva quasi a piangere al pensare alle nequizie umane causa prima dell’immenso braciere che arde nel mondo, che tanti e tanti padri e tanti figli consuma nel suo fuoco divoratore!”
Ma in poche settimane si adatta alla nuova vita. Il 30 ottobre fa una marcia in montagna.
“La faticosa marcia fatta per strade mulattiere, per sentieri montani accessibili soltanto a capre l’ho felicemente superata. Sul monte Chiamatore abbiamo fatto i tiri e lezioni alle armi e poco distante abbiamo consumato il rancio. Ho mangiato con molto appetito, consumando una gavetta piena ricolma di riso. La riuscita di tale marcia l’ho dovuta a una borraccia piena di vino cotto che cammin facendo dovevo ogni tanto sorseggiare.”



Primo dicembre:
“inizio del corso di Segnalatori di bandiere a lampo di colori, corso assai piacevole e divertente, che mi ha dato motivo di accostare nuovi camerati e fare così nuove amicizie.”

4 dicembre.
“Marcia di 34 Km. Abbiamo raggiunto il paesetto di Appignano, sito in località bella e salubre, ed in esso abbiamo consumato il rancio. Ho trascorso la giornata in allegria cantando a squarciagola e divertendomi un mondo.”

Qualche giorno dopo.
“Passeggiata a Marino. Esercitazione di lancio di bombe a mano, dopo di che un capitano ci fece un acceso discorso patriottico per infonderci entusiasmo e desiderio di vittoria a costo di qualsiasi sacrificio.”

20 dicembre.
“Partenza del primo contingente del battaglione. Una cerimonia molto commovente e solenne ha preceduto la partenza. Il saluto del colonnello alla truppa schierata in perfetto equipaggiamento nel cortile della Caserma Umberto, la musica con i suoi inni patriottici, i visi muti e gli occhi velati dei camerati, l’effusiosa ed affettuosa cameratesca cordialità degli ufficiali, mi commossero fino a piangere. Poche volte in vita mia ho sentito in me tanto dispiacere, tanta tenerezza!”

Alla fine di dicembre mio padre è trasferito a Massafra.
“Dopo un fortunoso viaggio di oltre 28 ore in tradotta, ammassati come... bestie, stanchi e spossati siamo arrivati a destino. Scesi dalla Stazione e per una mulattiera fangosa e puzzolente ci siamo incamminati verso il paese: era circa le 22. Arrivati in piazza, località più importante, per rintracciare i Comandi Militari abbiamo dovuto fare una sosta di oltre un’ora. Stanchi, assonnati, affamati, non si riusciva a trovare la nostra sistemazione! Mi sentivo l’animo triste ed accasciato, e maledivo in cuor mio i responsabili di tanti nostri guai e patimenti. Infine fummo condotti in un fabbricato mezzo diroccato, ex convento, e dopo aver consumato un frugalissimo pasto ci potemmo gettare nelle braccia di Morfeo, nel soffice letto consistente: telo da tenda e nudo pavimento”.

In una lettera alla moglie, del 31 dicembre, mio padre si lamentava.
“Oltre ad essere maggiormente lontano da casa, ho trovato un ambiente molto diverso di Ascoli; qui i bei pranzetti che prima facevo debbo purtroppo dimenticarli poichè Massafra è un paesone ma vi manca la vita cittadina con trattorie ed alberghi e ristoranti”.

Già il 30 dicembre mio padre annota sul diario che svolge mansioni di scritturale al Comando della 2^ Compagnia, “in considerazione delle mie capacità”.

Alla fine di gennaio 1943, mio padre scrive:
“I giorni mi trascorrono veloci. Il lieve lavoro che svolgo nel Comando della Compagnia mi è di molto ausilio a non pensare alla famiglia lontana, con quel dolore e tristezza dei primi giorni. Ho avuto la grande fortuna di incontrare superiori ottimi, degni della massima stima e rispetto. Fra gli altri nutro una spiccata simpatia per il Comandante, il quale ha conquistato tutta la mia ammirazione per la sua nobiltà di cuore e magnanimità d’animo. Sentimenti questi riconosciutigli da tutti i fanti alle sue dipendenze e dagli stessi altamente apprezzati”.




20 febbraio 1943.
“Di buon mattino siamo partiti a mezzo di autotreni alla volta della pineta di Chiatona. Quivi simulando attacchi nemici ci siamo dati all’inseguimento dell’immaginario nemico, percorrendo per circa sei chilometri la boscaglia tra siepi e sterpi, avvallamenti e colline, riuscendo così veramente a simulare una battaglia che ci è servito di valido addestramento. Mi ha molto soddisfatto, e come immediato risultato ho avuto un aumento d’appetito”.

10 marzo 1943.
“Ultimo giorno di carnevale. Carnevale di guerra che alla migliore maniera ho cercato di trascorrere. Da molti giorni passo le serate in lieta brigata nei locali dei sergenti e con essi mi diverto un mondo giocando e conversando allegramente”.

24.marzo.1943.
“Il sig. Capitano mi ha invitato a partecipare ad una esercitazione tattica che io ho senz’altro accettato aggregandomi al plotone ciclisti. E’ stata una magnifica passeggiata che mi ha divertito un mondo”.

Con una annotazione riassuntiva di due mesi di attività, il 20 maggio 1943 mio padre scriveva:
“Nessun fatto di particolare importanza si è succeduto in questo periodo di tempo. La vita militare mi è trascorsa e mi prosegue a trascorrere piana e tranquilla”.

Di tutto questo ultimo anno non è rimasto alcuno scritto di mia madre, tranne quattro cartoline postali dell’agosto 1943, l’ultima delle quali del 30, il giorno prima della fatale incursione aerea.
Di mio padre, invece, sono rimaste, per questo periodo, una quarantina di lettere. La vita di mia madre, sola con due bambini, con poche risorse economiche e con tutti i pericoli dello stato di guerra, doveva essere difficile e dolorosa. Mio padre (si capisce dalle sue lettere) era esigente ed assillante.
Tuttavia, in una lettera da Massafra del 3 marzo 1943, egli scrive il pensiero più profondo e sincero di tutto il carteggio.

“Sento vivo in me la vostra mancanza poichè forse ero troppo assorbito dalle cure per voi, ero troppo a voi legato oltrechè dagli affetti più intimi, dai tanti e tanti bisogni materiali di cui dovevo continuamente elargirvi. Quegli atti d’impazienza che molte volte mi sfuggivano, vorrei riviverle, poichè adesso comprendo che avevo torto di tali incandescenze. Vorrei riviverle per essere vicino a voi, vorrei riviverle per dimostrarti ancora una volta quanto siano grandi il mio affetto ed il mio amore”.

Ma mio padre era organicamente un egocentrico. Nonostante che la vita militare fosse per lui, per sua stessa ammissione, piana, tranquilla e quasi divertente, ha il coraggio, annunciando una sua visita in licenza, di fare questa raccomandazione, l’11 marzo 1943:
“Come per il passato verrò all’improvviso. Ti raccomando fammi trovare tutto il mondo famigliare pieno di giocondità, fa che il mio soggiorno tra la famiglia mi sia di dolce conforto e di meritato riposo”.

E ancora, il 22 marzo:
“Verrà con me anche un sottufficiale che è qui per me un carissimo amico, voglio quindi, che ti possa ritrovare tutta rassettata sia nella persona che nella casa”.
Mia madre aveva una natura appassionata e purtroppo avrà risposto senza sarcasmo ad una raccomandazione così meschina.

Intanto mio padre continuava la sua villeggiatura a Massafra.
“Io sto facendo la cura di uova: me ne bevo due o tre al giorno” (4 aprile 1943).

Il 30 aprile mio padre ha un altro lampo di sincerità.
“Ti ho fatto un sacco di chiacchiere, delle parole ripetute centinaia di volte, e che forse ti seccheranno, mi devi scusare: ormai conosci il mio carattere e devi comprendermi”.

Ma il suo egocentrismo riprende subito il sopravvento, 19 maggio 1943.
“Come vedi ogni mio pensiero, ogni mia preoccupazione sei tu ed i bambini, certo questi sentimenti sono comuni a tutti i buoni mariti e padri, ma io forse me ne sento fiero dei miei sentimenti e non li eguaglio a nessuno. Sta a te a saperli apprezzare nella giusta misura e spronarmi col tuo affetto e con la tua amorosa parola a perseverare nel meglio.”

Mia madre lo aveva evidentemente criticato perché, nonostante le scarse risorse economiche, lui aveva sottoscritto dei Buoni del Tesoro. Mio padre dapprima risponde: hai ragione, spediscimi allora meno soldi per me. Poi, col tipico bel gesto eroico e sprezzante con cui si vorrebbe schiacciare l’avversario, aggiunge:
“Male che ti vada non mi manderai niente, va bene? Credo allora che nessun squilibrio ti porterà il passo che ho fatto, ed anzi se hai buon senso e buon cuore ne dovresti apprezzare il gesto maggiormente stamani notando con questo atto quanto amore e spirito di sacrificio sento per la mia adorata famigliola” (10 luglio 1943).

Nel suo diario di Massafra, il 10 luglio mio padre scrive:
“Un fatto nuovo nelle vicende della guerra ha riempito il mio cuore di profonda pena: lo sbarco degli anglo-americani nella nostra Sicilia. Un vivido senso di odio è esploso dal più profondo dell’animo contro questi maledetti che si accingono a calpestare il sacro suolo della nostra Patria. Voglia il buon Dio darci tanta forza e tanto coraggio da contrastare e ricacciare in mare questi novelli barbari. Attendo fiducioso gli eventi, sicuro che il Signore farà degli italiani un granitico blocco di individui virili e sereni, coscenti e prodi, consapevoli di quanto la patria da essi attende”.

E a mia madre il 14 luglio scrive:
“Come già hai appreso tristi eventi si preparano alla nostra patria, speriamo che il Signore mi tenga sempre la sua possente mano sul capo e mi faccia ritornare sano e salvo tra i miei cari [...] L’Italia, questa nostra Italia, madre comune di tutti noi, sicura della sua giusta causa non può, non deve perdere la guerra, poichè altrimenti è la rovina di tutti e in special modo anche nostro”.

Nemmeno le cannonate risveglieranno la coscienza politica di mio padre, formatasi prima in collegio, ascoltando con incondizionato rispetto le allocuzioni e le vuote solennità dei direttori, poi assorbendo la trita e velleitaria sottocultura della piccola borghesia fascista e dannunziana. Dopo la guerra egli si consegnerà, cambiando appena qualche parola del suo vocabolario e conservando la stessa enfasi e lo stesso pressappochismo, al mito della Russia di Stalin.

Nella lettera a mia madre del 16 luglio, rammaricandosi di ricevere poche lettere dalla moglie, ha un lampo di umana debolezza:
“La mia mente è sconvolta da mille preoccupanti pensieri e ti sarei infinitamente grato se non verresti meno a questa carità verso tuo marito”; ma subito dopo, poiché mia madre non era andata a far visita a dei parenti di lui, riprende l’abituale tono saccente: “Quanto poco saper fare hai in certi casi!”
La fine della lettera è una apoteosi di narcisismo. Riprende il discorso sui Buoni del Tesoro.
“Se il danaro che eventualmente verrai a percepire per l’avvenire non ti sarà sufficente, non mi spedirai più nulla. Vedi di quanto spirito di sacrificio sono pieno per il benessere dei miei cari? Lo apprezzi tu questo mio modo di fare, oppure mi giudichi alla stessa stregua dei nostri parenti, come uomo insofferente, tedioso ed avaro? Solo Iddio può giudicare i miei atti che sono stati sempre ispirati dal cuore e dal bene. Ho avuto in ogni tempo e luogo, persone che l’essenza del mio carattere e della mia bontà non l’hanno saputo nè apprezzare nè comprendere, non voglio, non posso credere che anche tu sii tra queste”.

Il 6 agosto 1943 mio padre scriveva:
“Non credere, non sospettare che io sia ostile verso di te; che non ti ami come i giorni del nostro primo incontro [...] Tu mi accusi che io non so comprenderti, mentre io invece accuso te di tale incomprensione”.

Tre giorni dopo mio padre scriveva nel suo diario di vita militare:
“Dalla fureria sono passato al ripostiglio. In otto mesi ho saputo tanto bene conquistarmi l’affetto e la stima dei miei superiori, che questi hanno creduto opportuno affidarmi quest’altra mansione di fiducia”.


Il 16 agosto, a mia madre:
“Non passa giorno che sulle ali del pensiero non scavalchi monti e valli per raggiungere voi che amo tanto”. Benché le circostanze famigliari e generali siano difficili e drammatiche, mio padre non sa uscire dalla retorica.

Mia madre invece è concreta, sincera e umana. Rispondendo alle lamentele di mio padre, il 21 agosto scrive:
“Se tu mi potresti vedere e controllare compatiresti il mio comportamento che agli occhi tuoi lontani può sembrare riprovevole. [...] Non chiamarmi esagerata ma tu non sai quanto io soffro”.

Il 25 agosto scrive:
“Gigino [...] ti ricorda con affetto nel parlare sempre di te e ogni giorno mi domanda quando finisce la guerra  acciocche torni il suo papà. Da parte mia ti ringrazio della posta quotidiana che mi fai avere, non puoi credere quanta gioia sento nel ricevere un tuo scritto da parte mia dovrei fare altrettanto eppure delle volte vengo meno ad un mio primo dovere ma ti giuro che attraverso delle giornate tanto occupate con questi bambini che non mi lasciano un minuto di tempo specialmente Fabrizio che li tengo sempre attaccato a me come una sanguisuga ma con tutto ciò il mio primo pensiero tutto il mio affetto è rivolto a te. [...] Mio caro Vincenzo se ti riesce comprare qualche paio di scarpette per Fabrizio perchè di quelli della piazza di cartone ne occorrono un paio la settimana quindi è una bella spesa”.

Il 27 agosto scrive:
“Sono molto agitata per tutti questi quotidiani eventi ed anche per mio fratello Nanduccio che da tanto tempo prima della resa della Sicilia non si è saputo più nulla, forse sarà prigioniero? Chi sa! Il Signore l’aiuti e lo protegga. Ieri con l’incursione su Sulmona è morto parecchi di Pescara e tra questi Bruno Basciano il nipote di Zazzetta non puoi credere quanto mi ha accasciata questa notizia [...] Ti ho detto che mi trovo a casa di tua sorella Nerina ci sto più tranquilla. Ma poi chi sa che cosa vuole il Signore di noi! E’ meglio dire sia fatta la sua volontà”.

E nell’ultima cartolina, il 30 agosto, il giorno prima del massiccio bombardamento, fra varie cose famigliari, mia madre scrive:
“Qua a Pescara gente che sfollano a migliaia”.

Mio padre il 26 agosto aveva scritto a Massafra l’ultima paginetta del suo diario:
“Ho assistito per la prima volta ad un bombardamento aereo. E’ cosa terrificante che riempie l’animo di profonda pena. Dormivo da circa due ore quando un formidabile scoppio mi ha svegliato di soprassalto: credendo fossero dei tiri di esercitazione mi stavo riaddormentando; senonchè successive detonazioni fragorose mi fecero aver sentore della realtà. Era circa le 2,30 di notte: completamente nudo mi son riversato fuori, e uno spettacolo terrificante si offrì al mio sguardo. Centinaia di razzi illuminavano a giorno la città di Taranto dalla quale appena circa 20 Km ci separa, e varie decine di aereoplani si susseguono nel lancio di bombe di ogni calibro! I danni sono stati rilevantissimi. Centinaia le famiglie rimaste senza tetto; numerose le vittime ed i feriti.
Ecco il risultato della civiltà e della libertà! Ecco il risultato di tante nequizie umane! Si combatte, si muore, non per gli ideali sacri della fede e della patria, ma per distruggerci dalle più profonde radici, incoscemente; disprezzando e bistrattando quanto Iddio con la sua infinita bontà ci ha elargito. Si assiste al paradosso che il genio umano, la scienza, anzichè essere al servizio del progresso e del bene, sono strumenti di distruzione e di morte.
Qui in Massafra vi sono oltre 20.000 sfollati di Taranto. All’indomani, giorno successivo al bombardamento, ho assistito a delle scene ancora più tristi e pietose: centinaia e centinaia di donne e bambini scalzi, quasi ignudi, in uno stato macilento e misero si riversano su Massafra in cerca di asilo e di un po’ di tranquillità. Ho assistito a delle scene che mi ha veramente sconvolto animo e cuore!”

Mio padre seppe della morte della moglie solo una settimana dopo il bombardamento su Pescara. Aveva continuato a scriverle ancora per qualche giorno. L’ultima lettera rimasta è del 6 settembre.
“Grazie Iddio godo buonissima salute e forse mai ho raggiunto tanta floridezza: mi son pesato oggi nel pomeriggio ed ho raggiunto il bel peso di Kg 71; un aumento di 14 Kg rispetto al settembre dell’anno scorso [...] Dall’incursione in poi non ho ricevuto nessuna notizia: pensa tu come posso essere tranquillo [...] Voglia il cielo che tu soltanto con una paura abbia risolto ogni cosa e che te la sei cavata sana e salva”.
                         (continua al post successivo)

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