In famiglia la figura centrale
era nostro padre. Era sempre presente e
autorevole, sempre impegnato in qualche lavoretto domestico. Sembrava che
avesse una risposta e una soluzione per ogni nostro problema, che niente
potesse metterlo in imbarazzo. Zia
Francesca invece era una donna fragile e
malata di nervi. Non poteva uscire sola e non poteva restare sola in
casa, e questo la rendeva dipendente da tutti e sofferente.
Mio padre aveva accolto in casa,
da Chieti, la nipote Emilia, quando aveva solo quattordici anni, perché le facesse
compagnia e le fosse d’aiuto. Il padre di Emilia, fratello di zia Francesca, aveva perduto per balordaggine un
buon lavoro alla Banca d’Italia e aveva affidato i suoi due figli
all’assistenza dei parenti.
Mio padre non mandò a scuola la
ragazza e lei rimase per otto anni in casa nostra, finché non si sposò, in una
condizione penosa e subordinata, come in un romanzo di Dickens.
Durante l’anno scolastico, per
noi il sabato pomeriggio, vigilia della festa, era il momento più pacifico e
famigliare, più raccolto, intimo e spensierato della settimana. Nostro padre dormiva un’oretta su uno dei
nostri letti, mentre noi figli (eravamo già quattro) rimanevamo nella stessa stanza, che noi chiamavamo il
“camerone”, a giocare, fare i compiti e ascoltare la radio. Mio padre, nonostante
il rumore intorno, riusciva a dormire tranquillamente, non solo grazie a un
sistema nervoso solido e stabile, ma soprattutto perché quel rumore lo cullava
e lo accarezzava. A mio padre piaceva sentirsi circondato dai figli. Li
vezzeggiava pochissimo, non li lodava mai, tuttavia aveva un suo modo vivace di
conversare con loro, e la sua stessa severità e austerità riuscivano a renderlo
amato, rispettato, desiderato. L’immagine di se stesso in mezzo ai figli doveva
richiamargli alla mente una scena ricorrente delle favole popolari: il povero
contadino o il povero sarto che, in una letizia evangelica, lavorano circondati
da tanti bambini e fanno loro delle raccomandazioni, danno dei consigli e degli
ammonimenti. Mio padre amava moltissimo dare ammonimenti e commentare anche una
vicenda piccolissima con un proverbio. Però solo le vicende piccolissime si
lasciavano commentare dai proverbi. Le situazioni grandi e complesse
richiedevano una cultura e una ampiezza di mente che mio padre non aveva. Allora lui le semplificava,
riducendole a una dimensione meschina.
Avendo passato sei anni
dell’adolescenza in un collegio cattolico, aveva modellato la vita domestica
sulle norme del suo regolamento e si compiaceva di scene famigliari che, come
le storie della Bibbia, avessero un sapore di severità patriarcale, appena
temperata, qualche volta, dallo spirito del presepe.
Quando mio padre tirava fuori
l’attrezzatura da calzolaio e si metteva a riparare le nostre scarpe, con i
figli intorno che guardavano con ammirazione, lui si sentiva al centro di una
scena evangelica. I tacchi e le suole di gomma che inchiodava, martellando su
una incudine tenuta sulle ginocchia, venivano poi rifilate a mano col trincetto
in un modo rozzo e approssimativo. Erano scarpe goffe, pesanti e di poco
prezzo. Con quelle suole di gomma mal ritagliate e molto alte, perché dovevano
durare nel tempo, avremmo forse dovuto vergognarci ad uscire di casa e andare a
scuola. Gli altri ragazzi non vestivano come noi. Portavano scarpe e indumenti
più sportivi, più moderni e di migliore qualità. Ma noi non ci vergognavamo, o
meglio non protestavamo. Probabilmente perché eravamo ingenui, poco pratici e
forse anche un po’ fuori del mondo, ma soprattutto perché quello che faceva
nostro padre ci sembrava tutto giusto e prezioso, e avremmo temuto di compiere
un gesto di ingratitudine, se ce ne fossimo lamentati.
Una volta che lui aveva
costruito un rudimentale accendi-gas utilizzando il manico di una vecchia
racchetta da tennis trovata per strada, l’ammirazione di noi figli salì al
cielo ed esclamammo: “ Il lavoro di papà è sacro!”.
Tutti gli altri ragazzi
portavano d’estate dei sandali blu col cinturino alla caviglia e due occhietti
sul dorso del piede ed io, pur continuando a portare senza problemi i miei
goffi sandaloni, un po’ d’invidia per quelle scarpette deliziose ce l’avevo. E
anche le canottiere bianchissime, sportive e ben disegnate, con cui i ragazzi
del palazzo scendevano in strada a giocare e che io vedevo indosso anche a
tutti i muratori che lavoravano sulle impalcature dei cantieri e che a
quell’epoca mi apparivano come gli eroi della città, come corsari
all’arrembaggio, mi facevano un po’ vergognare
delle nostre informi magliette color prugna con le mezze maniche, che
sembravano fatte per gli orfanelli dell’Istituto Don Guanella.
Mio padre aveva il gusto di
mortificare il corpo ed ogni aspirazione alla bellezza, che lui giudicava del
tutto inutile.
In casa lui indossava sempre un
grembiulone nero o grigio legato alla vita con una cintura e anche a noi figli
aveva imposto di portare in casa un grembiule. Senza grembiule, non potevamo
sederci a tavola. Finito di mangiare, poi, ciascuno doveva lavare le proprie
posate, avvolgerle nel proprio tovagliolo e infilarle in un anello di metallo
su cui era inciso l’iniziale del proprio nome.
Quando Gigino aveva 16 /17 anni
mio padre gli fece fare dal portiere un vestito (giacca e due pantaloni) con
una pesante stoffa che aveva il color verde vivo di una mela Granny Smith. Con
quell’abito indosso, Gigino assomigliava ad un personaggio fantastico del film
Il Mago di Oz. Andò a scuola con questo
vestito, senza protestare, per un paio d’anni, finché non prese il diploma.
Qualche anno dopo, io terminai
il liceo e la mia classe volle festeggiare la fine dell’anno scolastico con una
cena al ristorante La Tomba
di Nerone, sulla via Cassia. Poiché non avevo un vestito, indossai il vestito
verde di Gigino. Il vestito era invernale e noi eravamo alla fine di luglio.
Ma questi crucci, di cui
rimanemmo a lungo poco consapevoli, affiorarono solo quando eravamo già quasi
dei giovanotti. All’inizio degli anni Cinquanta lo spirito della Sacra Famiglia era in noi fortissimo. Avevamo per
nostro padre una tale stima, un così grande affetto e sentivamo con lui un legame
così stretto, che ci piaceva, a me e a Gigino, persino la sua firma, con la V di Vincenzo inserita dentro la D del cognome. Gigino aveva
adottato lo stesso modo di firmare, mettendo al posto della V la L di Luigi.
Anche nostro padre era
vicinissimo a noi e non ci perdeva mai d’occhio. Ci rimpinzava di olio di
fegato di merluzzo e ci tagliava perfino i capelli. L’estate noi ragazzi
stavamo tutto il giorno fuori, per strada e sui
prati intorno a casa. Dopo due o tre giorni di giochi all’aperto, avevamo
la testa piena di terra. Nostro padre,
che per ogni problema aveva pronta una soluzione radicale, comprò una macchinetta da barbiere
e ci tagliò i capelli a zero. In questo modo era facile per lui raschiare la
terra dalle nostre teste, dopo averle
cosparse d’olio, pettinandoci con un pettinino dai denti fittissimi. Io e
Gigino sembravamo più che mai due poveri orfanelli.
Era bello, d’estate, scendere
di casa molto presto, subito dopo aver fatto colazione con latte orzo e pane, e
sentire il silenzioso raccoglimento del mattino estivo. L’aria era ancora
delicatamente frizzante e c’era l’atmosfera ovattata, gentile e
confidenziale di una bella giornata che
stava appena iniziando ma già annunciava lo spirito energico e allegro del
viavai cittadino. Uno alla volta cominciavano ad arrivare gli altri ragazzini
del palazzo, la cui faccia, appena lavata, conservava ancora la traccia del
sonno recente, e il bel ciuffo di capelli sulla fronte era molle d’acqua e
manteneva le rigature del pettine.
Solo dopo qualche anno fu
consentito ai nostri capelli di ricrescere. Ricrebbero, però, ispidi e duri.
Continuamente nostro padre diceva a ciascuno di noi: “Fammi il santo piacere:
vatti a dare una bella pettinata”. Noi andavamo in bagno per pettinarci e
dovevamo accostare la testa allo specchio, perché il pettine era fissato alla
parete con una corta catenella. Se poi volevamo anche lavarci le mani, dovevamo
usare un ammasso ripugnante di sapone che aveva i colori dell’arcobaleno.
Quando, per l’uso, una saponetta diventava più sottile di un’ostia, mio padre la
univa ad altre diafane ostie di saponette, che lui aveva conservato e che avevano
ciascuna un colore diverso.
La domenica mattina,
specialmente d’inverno, era un altro momento molto piacevole di vita
famigliare. Si faceva colazione sulla pietra di marmo del tavolo di cucina,
dove venivano messe in fila sette scodelle di metallo di dimensioni graduate
piene di pezzetti di pane. Dopo la colazione, mio padre, avvolto nel suo
grembiulone nero, cominciava a preparare gli involtini di carne per il ragù e
intanto parlava e parlava. Raccontava episodi lontani della sua infanzia, dei
suoi genitori, della vita di collegio e di quella militare e arrivava fino al
parentado, al suo lavoro in banca, ai superiori e ai colleghi del palazzo. Gli
argomenti di attualità e i giudizi su persone che conoscevamo anche noi erano
quelli più taglienti e vivaci, anche se non per questo più penetranti. Invece
la vita del passato mio padre la raccontava come una successione di poche
scene, sempre le stesse, descritte in una maniera oleografica e castigatissima
(lui chiamava “capelli” anche i peli delle gambe). Descriveva solo i fatti
materiali e mai i sentimenti, le sfumature, le aspettative, i timori. Aveva una
buona intelligenza pratica, ma non sapeva osservare. Una volta gli chiesi: “Papà,
ma com’era Chieti quando tu eri bambino?”. “Proprio com’è adesso”, mi rispose,
meravigliato che potessi fargli una domanda simile. Tuttavia anche i ricordi
oleografici erano interessanti e ascoltavamo con piacere pure le infinite
repliche, se non altro come segno della buona disposizione e del buon umore di
nostro padre.
Nei rapporti con gli altri (e
per certi argomenti, anche con i famigliari) era sempre molto diplomatico e
sornione, ma in queste chiacchierate domenicali si lasciava andare, non solo
per uno sfogo di sincerità, ma anche per vantare il proprio “saper fare” di
fronte ai modi burini della maggioranza. “Marandone durante la guerra è stato
prigioniero in India e si è ammalato di enfiteusi
ai polmoni. Quel matto non sa fare nemmeno la O col bicchiere. Che vuoi, è un calabrese!”
Del collega Bisaccia, che a volte con la sua vetturetta raccoglieva due
o tre impiegati per portarli in ufficio, all’altro capo di Roma, e che si
faceva ogni volta pagare la benzina, mio padre diceva: “E’ così avaro che lo
chiamano Abramuccio”. E poi ammoniva noi figli in tono biblico: “Ricordatevi,
figli miei: la generosità è la virtù più bella”.
Si rammaricava: “Ah, se avessi
avuto i genitori e avessi potuto studiare!”. Sulle sue capacità non aveva
torto. Per più di trent’anni fu l’amministratore del condominio, riuscendo a
navigare senza sforzo in mezzo a ostilità, antipatie e rancori, a smontare
immancabilmente ogni accusa e ogni critica e a essere rieletto in modo
plebiscitario ad ogni scadenza di mandato. Un vero capolavoro di “savoir
faire”. Il ‘saper fare’ era tutto l’orizzonte della sua cultura, e siccome in
questo campo aveva avuto dei riconoscimenti, era soddisfatto di sé e credeva
che desiderar di sapere altre cose fosse una inutile perdita di tempo.
Le mattinate domenicali
trascorrevano, dunque, in modo piacevole, sia che la cucina fosse piena di un
bel sole invernale sia che il cielo fosse grigio e piovoso. Ogni tanto potevamo
anche, fuori d’ogni buona regola, mangiare qualcosa a metà mattinata, inzuppare il pane nel ragù
o addirittura cuocere due ovette strapazzate con cui riempivamo dei panini, che
mangiavamo tutti insieme. Quanto ad appetito, c’era una consonanza perfetta con
nostro padre e, nel campo gastronomico, anche una bella complicità nel non
rispettare il galateo.
Ma queste trasgressioni erano
occasionali e consentite solo se rimanevano in un ambito molto circoscritto.
Per la cucina nostro padre aveva scritto un rigido menù che prevedeva primi
piatti, pietanze e contorni per ogni giorno della settimana, sia a pranzo che a
cena, e l’aveva attaccato dietro lo sportello della credenza.
In casa non avevamo il forno.
Cucinavamo su un fornello a gas con solo tre fuochi. Se zia Francesca aveva
preparato una teglia con un rollé di carne e patate da cucinare arrosto con il
rosmarino, io la portavo, coperta con un tovagliolo, al vapoforno vicino; e
dopo qualche ora andavo a riprenderla. (Questi servizi toccavano sempre a me,
perché Gigino era troppo grande e gli altri fratelli troppo piccoli). In strada
incontravo altri ragazzi e mamme che portavano, con andatura impettita, tegami
profumati.
Mentre in cucina c’era tanto
fervore di chiacchiere, zia Francesca rassettava le camere e, se si sentiva
bene, non era raro sentirla cantare qualche canzone sconosciuta, che riaffiorava
chissà da quale remota stagione della sua vita. Ogni tanto si affacciava sulla
porta della cucina e diceva in dialetto: “A Vingè, l’ sé che te stenghe a
disc’?” (Vincenzo, sai che cosa ti voglio dire). Non si trattava quasi mai di
proposte o suggerimenti pratici, del tipo: “perché non mettiamo una mensola nel
bagno?”, oppure: “oggi pomeriggio vorrei andare a passeggio”. Zia Francesca
sognava e rimuginava continuamente e, mentre rifaceva i letti, forse pensava
ancora a una cognata a cui quindici anni prima aveva prestato una spilla d’oro;
o forse si rammaricava che il fratello maggiore in gioventù non avesse sposato
una donna migliore e più affettuosa. Zia Francesca si affacciava ora sulla
porta della cucina per esprimere al marito questi dubbi e questi rimpianti e
avere un po’ di conforto. Era un tentativo commovente di rompere la propria
solitudine. Ma mio padre non si commuoveva. Con poche parole sbrigative la
riportava alla grigia realtà quotidiana e la esortava a stare con i piedi per
terra.
(continua al post successivo)

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