mercoledì 23 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 19° Capitolo: "Villeggiature".


Mio padre possedeva una vecchia e pesante bicicletta con la quale andò a lavorare per parecchi anni. Ogni giorno la portava su e giù per le scale. La bicicletta era parcheggiata nell’ingresso di casa nostra, appoggiata su un cavalletto di legno. Eravamo così abituati a vederla che la consideravamo un mobile necessario. Un giorno mio padre vi caricò sopra tre figli (me, mia sorella e un fratello di tre anni) e partì per una passeggiata. Ma quattro persone su una bicicletta erano troppe anche per mio padre, che, con il suo gusto di ricreare e interpretare  scene d’ispirazione biblica, sentiva forse di avere lo spirito patriarcale di Noè.
La passeggiata finì quando, in Via di Villa Ricotti, a due passi da Piazza Bologna, mio fratello, seduto sulla canna della bicicletta, mise il piede fra i raggi della ruota anteriore.  
Nonostante la nostra vita spartana, dovuta al fatto che mio padre era l’unico che lavorasse, potevamo tuttavia andare, quasi ogni estate, in villeggiatura.
Avevamo la grande fortuna di essere assistiti dalla Banca: eravamo suoi figli e suoi beneficati. Le appartenevamo. In confronto alla massa degli altri lavoratori, avevamo dei grandi vantaggi  e privilegi sociali.
La Banca ci mandava, noi ragazzi, in colonia, ci faceva regali per l’Epifania, dispensava borse di studio agli studenti, accontentandosi - per premiarli - di modeste  promozioni con la media del sette.
Io ottenni due o tre borse di studio e Gigino ne vinse una addirittura all’esame di diploma. Ogni volta mio padre insisteva perché, alla cerimonia di consegna dei premi,  io o Gigino facessimo un passo avanti, uscendo dalla folla di ragazzi e genitori, per pronunciare, davanti al presidente, un alato discorso di ringraziamento. Ma né io né Gigino lo facemmo mai.
Finita la quinta elementare, andai in colonia al Terminillo, in provincia di Rieti. Non avevo mai visto paesaggi di montagna così splendidi, prati sconfinati, dove ogni nostro passo nell’erba alta faceva saltare sciami di cavallette; non avevo mai visto sassi così bianchi e suggestivi che sembravano ossa di animali preistorici, spazi e solitudini così grandi e la nebbia, che di giorno stazionava spesso nel cielo in larghi banchi immobili, creando un'atmosfera irreale di sospensione dal tempo, e nel tardo pomeriggio calava fitta dalla cima dei monti e soffocava tutto il paesaggio.
La nostra colonia, una palazzina rivestita all’esterno di tavole di legno, era in mezzo al bosco, nel punto più alto e isolato. A tre o quattrocento metri si trovava un albergo e poi, scendendo a valle lungo la strada provinciale, nel corso di pochi chilometri c’erano  alcuni altri alberghi, che erano, però, tutti chiusi, con le finestre dalle imposte di legno colorate di celeste o di rosso tutte serrate. La funivia e la seggiovia erano ferme. Non esisteva un paese abitato, né case private; c’era solo un negozietto che vendeva cartoline illustrate, coltelli a serramanico e piccoli ricordi della montagna. Sentivo con dispiacere che quei luoghi erano vivi e popolati solo d’inverno e, mentre facevo vita comune con gli altri ragazzi della colonia, mi sembrava che tutti noi fossimo degli esclusi, capitati lassù nel momento sbagliato. Addossato a una parete montuosa, all’ombra di un picco sporgente, trovammo nel mese di luglio un grande lastrone di ghiaccio.  Che meraviglia! Mi sembrò la reliquia di una bellezza che ci era negata.
Fu durante quella estate che Giuseppe Ferrara morì. Eravamo andati insieme in villeggiatura, la mia famiglia e la sua, a Rocca di Papa. Avevamo due alloggi contigui in un vicoletto, nella parte più alta del paese, non lontano dai Campi di Annibale. Erano case molto modeste, arredate alla buona con mobili rustici e con il gabinetto sul terrazzino. A quel tempo Rocca di Papa era un paese molto povero. Sulla grande piazza principale, in basso, dove arrivavano le corriere, stazionavano delle donne che si offrivano ai villeggianti come portabagagli. Fu una di queste contadine, carica come un mulo, che portò la maggior parte delle nostre scatole di cartone e dei nostri fagotti lungo la ripida salita che arrivava fino a casa, in cima al paese.
Nello stesso vicolo, davanti a noi, abitava una bella ragazza che si chiamava Isabella. Ogni giorno andava in campagna sul suo asino. I ragazzi camminavano scalzi per le stradine acciottolate di Rocca di Papa, proprio come i ragazzi che avevo conosciuto, qualche anno prima, a Chieti, quando ero ospite di zia Maria e zio Nando. Ma allora tutte le strade attorno alla casa dei miei zii erano sterrate, cosparse di piccoli sassi e di asperità, ed è con ammirazione che ripenso ai quei ragazzi dai piedi eroici . 
Giuseppe morì senza quasi che me ne accorgessi. Si era lamentato di un dolore alla pancia. Lo portarono a Roma e, dopo qualche giorno, arrivò la notizia che era morto.
A Rocca di Papa tornai con i miei in villeggiatura qualche anno dopo. Avevo  quindici anni. Facevo lunghe passeggiate con Gigino, che ne aveva ormai diciannove. Ai bordi di polverose strade di campagna raccoglievamo le more. Erano così grandi, scure e succose che Gigino si innamorò di questa pianta. Un giorno mi disse: “Mi piacerebbe scrivere un libro: Il rovo in Italia”. Non ho dimenticato quella frase, perché il proposito di mio fratello, anche se era del tutto estemporaneo, mi sembrò un segno del suo animo serio e gentile.
In quei giorni d’agosto morì Umberto Saba. Seppi subito la notizia dalla radio. Conoscevo Saba perché era compreso nella mia antologia scolastica di poeti italiani moderni.
Le notizie che riguardavano scrittori e artisti mi colpivano in modo particolare. Un mese prima era morto Curzio Malaparte. Forse cominciò allora la mia attenzione alle date di nascita e di morte non solo dei personaggi famosi, ma anche dei comuni mortali. Avevo facilità a ricordarle e calcolavo velocemente il tempo trascorso fra l’una e l’altra. Già ricordavo, e quasi me ne sentivo testimone, la morte di Stalin e quella di De Gasperi. Forse l’attenzione alle date, che dura ancora oggi, deriva dalla strana  curiosità di misurare la lunghezza di ogni vita. Nel tempo compreso fra quelle due date si può leggere l’intero destino di un uomo, ed io, quando mi trovo a prendere atto di quale sia stato ampio l’arco di una vita, provo un sentimento di stupore, di fatalismo o di consolazione. Inoltre queste semplici cifre riescono qualche volta ad aprire il passato come un ventaglio. E’ stato emozionante, per esempio, sapere che la moglie di Cechov, l’attrice Olga Knipper, è morta nel 1959, quando ero studente di liceo. Grazie a lei, ho sentito che qualcosa dell’antico mondo russo descritto dal suo grande compagno, a distanza di oltre mezzo secolo e dopo tanti avvenimenti sconvolgenti,  era arrivato in modo diretto fino a noi.
Durante quella seconda villeggiatura a Rocca di Papa, tornai una volta a Roma, da solo. Presi il trenino blu dei Castelli, che correva senza fretta attraverso la campagna romana e arrivava fino a Via Principe Amedeo, di fianco alla Stazione Termini. Era l’ora che precede il tramonto, e la campagna, infinita a perdita d’occhio, splendeva di luce rossa, punteggiata dalle macchie verdi dei folti d’alberi e dalle macchie scure delle coltivazioni. Quel paesaggio ispirava un sentimento di libertà e di bellezza. Le case e le strade, viste dal trenino in corsa, sembravano simpatiche e accoglienti; e le persone, amiche.  
        (continua al post successivo)


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