Mio padre possedeva una vecchia
e pesante bicicletta con la quale andò a lavorare per parecchi anni. Ogni
giorno la portava su e giù per le scale. La bicicletta era parcheggiata
nell’ingresso di casa nostra, appoggiata su un cavalletto di legno. Eravamo
così abituati a vederla che la consideravamo un mobile necessario. Un giorno
mio padre vi caricò sopra tre figli (me, mia sorella e un fratello di tre anni)
e partì per una passeggiata. Ma quattro persone su una bicicletta erano troppe
anche per mio padre, che, con il suo gusto di ricreare e interpretare scene d’ispirazione biblica, sentiva forse di
avere lo spirito patriarcale di Noè.
La passeggiata finì quando, in
Via di Villa Ricotti, a due passi da Piazza Bologna, mio fratello, seduto sulla
canna della bicicletta, mise il piede fra i raggi della ruota anteriore.
Nonostante la nostra vita
spartana, dovuta al fatto che mio padre era l’unico che lavorasse, potevamo
tuttavia andare, quasi ogni estate, in villeggiatura.
Avevamo la grande fortuna di
essere assistiti dalla Banca: eravamo suoi figli e suoi beneficati. Le
appartenevamo. In confronto alla massa degli altri lavoratori, avevamo dei
grandi vantaggi e privilegi sociali.
La Banca ci
mandava, noi ragazzi, in colonia, ci faceva regali per l’Epifania, dispensava
borse di studio agli studenti, accontentandosi - per premiarli - di
modeste promozioni con la media del
sette.
Io ottenni due o tre borse di
studio e Gigino ne vinse una addirittura all’esame di diploma. Ogni volta mio
padre insisteva perché, alla cerimonia di consegna dei premi, io o Gigino facessimo un passo avanti,
uscendo dalla folla di ragazzi e genitori, per pronunciare, davanti al
presidente, un alato discorso di ringraziamento. Ma né io né Gigino lo facemmo
mai.
Finita la quinta elementare,
andai in colonia al Terminillo, in provincia di Rieti. Non avevo mai visto
paesaggi di montagna così splendidi, prati sconfinati, dove ogni nostro passo
nell’erba alta faceva saltare sciami di cavallette; non avevo mai visto sassi
così bianchi e suggestivi che sembravano ossa di animali preistorici, spazi e
solitudini così grandi e la nebbia, che di giorno stazionava spesso nel cielo in larghi banchi immobili, creando un'atmosfera irreale di sospensione dal tempo, e nel tardo pomeriggio calava fitta dalla
cima dei monti e soffocava tutto il paesaggio.
La nostra colonia, una
palazzina rivestita all’esterno di tavole di legno, era in mezzo al bosco, nel
punto più alto e isolato. A tre o quattrocento metri si trovava un albergo e
poi, scendendo a valle lungo la strada provinciale, nel corso di pochi
chilometri c’erano alcuni altri
alberghi, che erano, però, tutti chiusi, con le finestre dalle imposte di legno
colorate di celeste o di rosso tutte serrate. La funivia e la seggiovia erano
ferme. Non esisteva un paese abitato, né case private; c’era solo un negozietto
che vendeva cartoline illustrate, coltelli a serramanico e piccoli ricordi
della montagna. Sentivo con dispiacere che quei luoghi erano vivi e popolati
solo d’inverno e, mentre facevo vita comune con gli altri ragazzi della
colonia, mi sembrava che tutti noi fossimo degli esclusi, capitati lassù nel
momento sbagliato. Addossato a una parete montuosa, all’ombra di un picco sporgente,
trovammo nel mese di luglio un grande lastrone di ghiaccio. Che meraviglia! Mi sembrò la reliquia di una bellezza
che ci era negata.
Fu durante quella estate che Giuseppe
Ferrara morì. Eravamo andati insieme in villeggiatura, la mia famiglia e la
sua, a Rocca di Papa. Avevamo due alloggi contigui in un vicoletto, nella parte
più alta del paese, non lontano dai Campi di Annibale. Erano case molto
modeste, arredate alla buona con mobili rustici e con il gabinetto sul
terrazzino. A quel tempo Rocca di Papa era un paese molto povero. Sulla grande
piazza principale, in basso, dove arrivavano le corriere, stazionavano delle
donne che si offrivano ai villeggianti come portabagagli. Fu una di queste
contadine, carica come un mulo, che portò la maggior parte delle nostre scatole
di cartone e dei nostri fagotti lungo la ripida salita che arrivava fino a
casa, in cima al paese.
Nello stesso vicolo, davanti a
noi, abitava una bella ragazza che si chiamava Isabella. Ogni giorno andava in
campagna sul suo asino. I ragazzi camminavano scalzi per le stradine
acciottolate di Rocca di Papa, proprio come i ragazzi che avevo conosciuto,
qualche anno prima, a Chieti, quando ero ospite di zia Maria e zio Nando. Ma
allora tutte le strade attorno alla casa dei miei zii erano sterrate, cosparse
di piccoli sassi e di asperità, ed è con ammirazione che ripenso ai quei
ragazzi dai piedi eroici .
Giuseppe morì senza quasi che
me ne accorgessi. Si era lamentato di un dolore alla pancia. Lo portarono a
Roma e, dopo qualche giorno, arrivò la notizia che era morto.
A Rocca di Papa tornai con i
miei in villeggiatura qualche anno dopo. Avevo
quindici anni. Facevo lunghe passeggiate con Gigino, che ne aveva ormai
diciannove. Ai bordi di polverose strade di campagna raccoglievamo le more.
Erano così grandi, scure e succose che Gigino si innamorò di questa pianta. Un
giorno mi disse: “Mi piacerebbe scrivere un libro: Il rovo in Italia”. Non ho
dimenticato quella frase, perché il proposito di mio fratello, anche se era del
tutto estemporaneo, mi sembrò un segno del suo animo serio e gentile.
In quei giorni d’agosto morì
Umberto Saba. Seppi subito la notizia dalla radio. Conoscevo Saba perché era
compreso nella mia antologia scolastica di poeti italiani moderni.
Le notizie che riguardavano
scrittori e artisti mi colpivano in modo particolare. Un mese prima era morto
Curzio Malaparte. Forse cominciò allora la mia attenzione alle date di nascita
e di morte non solo dei personaggi famosi, ma anche dei comuni mortali. Avevo
facilità a ricordarle e calcolavo velocemente il tempo trascorso fra l’una e
l’altra. Già ricordavo, e quasi me ne sentivo testimone, la morte di Stalin e
quella di De Gasperi. Forse l’attenzione alle date, che dura ancora oggi,
deriva dalla strana curiosità di
misurare la lunghezza di ogni vita. Nel tempo compreso fra quelle due date si
può leggere l’intero destino di un uomo, ed io, quando mi trovo a prendere atto
di quale sia stato ampio l’arco di una vita, provo un sentimento di stupore, di
fatalismo o di consolazione. Inoltre queste semplici cifre riescono qualche
volta ad aprire il passato come un ventaglio. E’ stato emozionante, per
esempio, sapere che la moglie di Cechov, l’attrice Olga Knipper, è morta nel
1959, quando ero studente di liceo. Grazie a lei, ho sentito che qualcosa
dell’antico mondo russo descritto dal suo grande compagno, a distanza di oltre
mezzo secolo e dopo tanti avvenimenti sconvolgenti, era arrivato in modo diretto fino a noi.
Durante quella seconda
villeggiatura a Rocca di Papa, tornai una volta a Roma, da solo. Presi il
trenino blu dei Castelli, che correva senza fretta attraverso la campagna
romana e arrivava fino a Via Principe Amedeo, di fianco alla Stazione Termini.
Era l’ora che precede il tramonto, e la campagna, infinita a perdita d’occhio,
splendeva di luce rossa, punteggiata dalle macchie verdi dei folti d’alberi e
dalle macchie scure delle coltivazioni. Quel paesaggio ispirava un sentimento di
libertà e di bellezza. Le case e le strade, viste dal trenino in corsa,
sembravano simpatiche e accoglienti; e le persone, amiche.
(continua al post successivo)

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