giovedì 24 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 20° Capitolo: "Amici di famiglia".



Gino Santurbano e Gina Rapposelli, marito e moglie, abitavano con due figli ad un piano altissimo (l’ottavo o il decimo) di un enorme falansterio in Viale Eritrea, quasi allo sbocco in Piazza Santa Emerenziana. C’era fra noi, oltre alla comune origine abruzzese, anche un vago legame di parentela, perché lei, Gina, era sorella maggiore di Gigliola. Gigliola era moglie di zio Giovanni, fratello di mia madre. 
Per molti anni i Santurbano rappresentarono, da soli, gran parte della società che noi frequentavamo. In primavera e in autunno facevamo loro una visita pomeridiana in pompa magna.
Eravamo sempre noi a spostarci. Santurbano aveva avuto da giovane un incidente di motocicletta e camminava con difficoltà.
Andavamo a piedi, perché non c’era un autobus diretto e la distanza non era troppo grande.  Attraversavamo Via Nomentana all’altezza della chiesa di Santa Agnese e scendevamo in Piazza Annibaliano. Mio padre e zia Francesca si accomodavano nella camera da pranzo, seria e scura, e cominciavano le conversazioni. Da una parte del tavolo, l’una di fronte all’altra, sedevano le signore; dall’altro lato, sedevano fronteggiandosi mio padre e il padrone di casa.
Santurbano e la moglie sembravano usciti da una antica foto color seppia. Se fossero stati più giovani, avrebbero avuto l’aspetto di quegli innamorati che sulle cartoline illustrate di prima della guerra si sorridevano, stringendosi a un albero sulla cui corteccia era inciso un cuore trafitto da una freccia.
Il loro viso e la loro mimica avevano ancora l’espressività esagerata degli attori del cinema muto, di cui certo si erano nutriti da ragazzi. Lei era una bella donna che sorrideva molto e sbatteva molto i grandi e begli occhi grigi. Aveva una voce sottile e argentina, che l’accento dialettale del suo paese d’Abruzzo (Città S. Angelo) rendeva famigliare e più musicale.
Lui era alto e robusto. Aveva un bel viso massiccio, come un eroe dei fumetti d’anteguerra, Dick Fulmine, e un naso forte e potente. I capelli color nocciola erano pettinati sempre alla perfezione, con un rispetto scrupolosissimo della riga, che correva, sul lato destro della testa, diritta chiara e immutabile, come se fosse stata tracciata con un aratro. 
Santurbano aveva frequentato il liceo classico e ricordava ancora bene i verbi greci e latini. Quando ero alle medie e poi al ginnasio, ogni volta che mi vedeva, cominciava a farmi, con il suo tono da burbero benefico, una litania di domande:
“Vediamo che cosa ti insegnano a scuola. Dimmi il paradigma di crescěre”.
“E qual è la differenza fra cecĭdi e cecīdi?”.
“E le etimologie, si studiano ancora le etimologie? Conosci l’etimologia di otorinolaringoiatra? E di nostalgia?”.
“επραξάμην: che tempo è? Fammi l’analisi grammaticale”.
Prima che ciascuno prendesse posto dalla parte del tavolo che gli era assegnata, Santurbano, secondo l’usanza meridionale, chiedeva ai miei con aria golosa: “Beh, c’avet’ magnàt’ a mezziòrn?”, e, senza ascoltare la risposta, continuava: “A nù Gina cià cucenat’ du’ sagne col sugo d’agnello. Nu piatt’ da leccarsi i baffi, Vingè! Era rimasta nu poch’ di farina buona che ci avevano portata da Chieti, macinata al mulino Scatozza. Lu mulin’ Scatozz’, tu l’ sé addò stà, eh Vingè?”.
La conversazione fra zia Francesca e Gina Santurbano era difficile e saltellante come il tentativo di ricucire uno strappo in una stoffa troppo sfilacciata.
Zia Francesca era timida e sapeva solo ascoltare e ogni tanto aggiungere qualche frase di consenso o di meraviglia alle cose che raccontava Gina; oppure  coglieva un’occasione per descrivere con poche parole qualche piccolo episodio della nostra vita famigliare. Se Gina le faceva vedere le pagelle o i compiti dei figli con i bei voti degli insegnanti, anche zia Francesca non poteva fare a meno di parlare dei nostri successi scolastici, più o meno esagerati. Quei lunghi pomeriggi di conversazione, in cui bisognava ascoltare e stare attenti e, seppure solo ogni tanto, rispondere qualcosa di appropriato, dovevano essere un discreto supplizio per la povera zia Francesca.
Invece mio padre era perfettamente a suo agio e galleggiava come un sughero inaffondabile sul torrente oratorio di Santurbano. 
Lui era un cattolico devoto e un convinto anticomunista. Lavorava in un ente parastatale e leggeva, come gran parte dell’impiegatume romano di allora, il quotidiano Il Tempo. Mio padre aveva due o tre idee granitiche: la classe lavoratrice non deve più essere sfruttata; l’Unione Sovietica, grazie al comunismo, ha fatto passi da gigante verso il progresso; l’America sostiene la borghesia e il capitalismo. Santurbano partiva a testa bassa come un toro infuriato, ma mio padre non si lasciava mai smontare. Non perché avesse studiato questi problemi e sapesse rispondere con argomenti nuovi ed elaborati, ma solo perché, qualsiasi cosa dicesse l’avversario, lui gli opponeva il fondamentale problema: “Sì, ma la classe lavoratrice è stata troppo sfruttata. Io stesso ricordo di aver visto da ragazzino, al porto di Pescara, le povere contadine che caricavano pesanti ceste di carbone. Quando dovevano orinare, orinavano in piedi, semplicemente allargando le gambe”. E poi snocciolava qualche cifra sulla crescente produzione di acciaio o di elettricità dell’Unione Sovietica e sul suo meraviglioso sistema scolastico. Ma c’era un motivo più sostanziale per cui mio padre rimaneva tranquillo di fronte alle sfuriate di Santurbano: lui non si identificava con il problema, non si immedesimava negli sfruttati, e quella discussione non era una dichiarazione appassionata delle proprie convinzioni, ma piuttosto un passatempo e un divertimento.
Una sera Santurbano ci portò in visita, me e mio padre, da un dotto prelato che abitava vicino a casa sua, in una traversa di Viale Eritrea. Il prelato era grande e grosso, ma aveva le maniere soavi dei preti. Santurbano, rivolto verso di noi, ripeteva con più forza le ultime frasi dei ragionamenti del prete, come per dire: “Non c’è niente da fare. Convincetevi: è proprio così. Non si può obiettare niente. Bisogna crederci”. Il prete spiegò la presenza del male nel mondo con questa immagine meschina: “Gli uomini di fronte a Dio sono come dei bimbetti davanti al loro amato papà, che li adora. Se un figliolino sta male, il papà gli fa una iniezione per farlo star meglio. Ma il bimbo non può capire il significato e lo scopo di quel gesto; lui avverte un dolore e pensa che il papà sia cattivo e non gli voglia più bene. Ma noi sappiamo che le cose stanno diversamente, non è vero, amici cari?”.
Ad un certo momento, verso le dieci e mezza di sera, il prelato ci congedò bruscamente, perché, disse, aveva ancora da lavorare.   
I figli dei Santurbano erano Concettina e Mimmo. Lei era un po’ più grande di Gigino e lui un po’ più grande di me. Concettina sembrava una graziosa fragile e delicata bambola, con una vocina sottile sottile. Mimmo era uno spilungone che sapeva imitare le voci di Stanlio e Ollio.
Giocavamo correndo fra la cucina e la loro camera, che aveva un balcone altissimo su Viale Eritrea, dal quale potevo guardare con meraviglia, in basso, un fitto formicolio di gente e di vita. L’enorme palazzone in cui abitavano era stato costruito prima della guerra, e le stanze erano grandi e ben isolate. Il loro appartamento era arredato con mobili che già allora ricreavano l’atmosfera di un passato lontano. Sul tavolo della cucina era appoggiato per noi, a seconda della stagione, un vassoio di ciliegie o un grande piatto colmo di castagne lessate e già sbucciate.
Mimmo faceva la collezione di figurine dei calciatori. Ne aveva un grande mazzo legato con un elastico. Io non avevo soldi per comprarle. Frequentavo allora la quinta elementare o forse già la prima media. Chiesi a Mimmo se me le regalava, ma  naturalmente rifiutò, e io, mentre la sera stavamo per lasciare la loro casa e avevamo già indossato i nostri cappotti, nel trambusto dei saluti, andai in camera  sua e mi misi in tasca l’intero mazzo di figurine. Con mia meraviglia, non ho mai provato vergogna per quel gesto. Mimmo non mi affrontò mai per accusarmi del furto e io potei immaginare che lo avesse commesso un’altra persona, oppure proprio io, ma in una vita precedente.

La famiglia Egeo era l’altra metà delle nostre relazioni sociali.  I miei avevano conosciuto gli Egeo quando vennero a trovarmi a Fiuggi, dove ero in colonia. Mio padre, che aveva gusto e interesse per le relazioni e le conoscenze nuove, manteneva vivi i rapporti telefonando o scrivendo almeno due volte l’anno, per le grandi feste. Al comandante di compagnia che aveva avuto nel 1943, quando era militare a Massafra, e che diventò poi parlamentare della Democrazia Cristiana, mio padre scrisse biglietti di auguri per trenta Natali di seguito.
Egeo (noi lo chiamavamo così, usando il suo cognome come nome di battesimo, che non abbiamo mai conosciuto) era un “romano de Roma”, con l’aspetto di un ometto indifeso e una faccia bonaria dagli occhi acquosi. Era arguto e simpatico nelle piccole cose. Nelle altre era passivo e si lasciava guidare dalla moglie, che era una donna spigolosa, scolpita nel legno, con due occhi imperiosi come quelli di Titina De Filippo. La loro casa, in un massiccio palazzo di fine Ottocento, fra la Stazione Termini e Piazza Vittorio, era grande e scura.

Anche Egeo era impiegato in qualche ente parastatale. Si dilettava di pittura. Dipingeva pallide pesche appoggiate su una tovaglia, mele e altra frutta. Legato al realismo vegetale, non sapeva disegnare altro. I miei gli comprarono, per una somma insignificante, un quadro che rappresentava dei vasi di aspidistra, di cui Egeo aveva piena la tetra casa. Il quadro rimase appeso, unico quadro, nel nostro salotto per una quarantina d’anni, finché l’appartamento non fu svuotato e venduto, dopo la morte di mio padre. 
          (continua al post successivo) 

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