Gino Santurbano e Gina
Rapposelli, marito e moglie, abitavano con due figli ad un piano altissimo
(l’ottavo o il decimo) di un enorme falansterio in Viale Eritrea, quasi allo
sbocco in Piazza Santa Emerenziana. C’era fra noi, oltre alla comune origine
abruzzese, anche un vago legame di parentela, perché lei, Gina, era sorella
maggiore di Gigliola. Gigliola era moglie di zio Giovanni, fratello di mia
madre.
Per molti anni i Santurbano
rappresentarono, da soli, gran parte della società che noi frequentavamo. In
primavera e in autunno facevamo loro una visita pomeridiana in pompa magna.
Eravamo sempre noi a spostarci.
Santurbano aveva avuto da giovane un incidente di motocicletta e camminava con
difficoltà.
Andavamo a piedi, perché non
c’era un autobus diretto e la distanza non era troppo grande. Attraversavamo Via Nomentana all’altezza della
chiesa di Santa Agnese e scendevamo in Piazza Annibaliano. Mio padre e zia
Francesca si accomodavano nella camera da pranzo, seria e scura, e cominciavano
le conversazioni. Da una parte del tavolo, l’una di fronte all’altra, sedevano
le signore; dall’altro lato, sedevano fronteggiandosi mio padre e il padrone di
casa.
Santurbano e la moglie
sembravano usciti da una antica foto color seppia. Se fossero stati più
giovani, avrebbero avuto l’aspetto di quegli innamorati che sulle cartoline
illustrate di prima della guerra si sorridevano, stringendosi a un albero sulla
cui corteccia era inciso un cuore trafitto da una freccia.
Il loro viso e la loro mimica
avevano ancora l’espressività esagerata degli attori del cinema muto, di cui
certo si erano nutriti da ragazzi. Lei era una bella donna che sorrideva molto
e sbatteva molto i grandi e begli occhi grigi. Aveva una voce sottile e
argentina, che l’accento dialettale del suo paese d’Abruzzo (Città S. Angelo)
rendeva famigliare e più musicale.
Lui era alto e robusto. Aveva
un bel viso massiccio, come un eroe dei fumetti d’anteguerra, Dick Fulmine, e
un naso forte e potente. I capelli color nocciola erano pettinati sempre alla
perfezione, con un rispetto scrupolosissimo della riga, che correva, sul lato
destro della testa, diritta chiara e immutabile, come se fosse stata tracciata
con un aratro.
Santurbano aveva frequentato il
liceo classico e ricordava ancora bene i verbi greci e latini. Quando ero alle
medie e poi al ginnasio, ogni volta che mi vedeva, cominciava a farmi, con il
suo tono da burbero benefico, una litania di domande:
“Vediamo che cosa ti insegnano
a scuola. Dimmi il paradigma di crescěre”.
“E qual è la differenza fra
cecĭdi e cecīdi?”.
“E le etimologie, si studiano
ancora le etimologie? Conosci l’etimologia di otorinolaringoiatra? E di
nostalgia?”.
“επραξάμην: che tempo è? Fammi
l’analisi grammaticale”.
Prima che ciascuno prendesse
posto dalla parte del tavolo che gli era assegnata, Santurbano, secondo
l’usanza meridionale, chiedeva ai miei con aria golosa: “Beh, c’avet’ magnàt’ a
mezziòrn?”, e, senza ascoltare la risposta, continuava: “A nù Gina cià cucenat’
du’ sagne col sugo d’agnello. Nu piatt’ da leccarsi i baffi, Vingè! Era rimasta
nu poch’ di farina buona che ci avevano portata da Chieti, macinata al mulino
Scatozza. Lu mulin’ Scatozz’, tu l’ sé addò stà, eh Vingè?”.
La conversazione fra zia
Francesca e Gina Santurbano era difficile e saltellante come il tentativo di
ricucire uno strappo in una stoffa troppo sfilacciata.
Zia Francesca era timida e
sapeva solo ascoltare e ogni tanto aggiungere qualche frase di consenso o di
meraviglia alle cose che raccontava Gina; oppure coglieva un’occasione per descrivere con
poche parole qualche piccolo episodio della nostra vita famigliare. Se Gina le
faceva vedere le pagelle o i compiti dei figli con i bei voti degli insegnanti,
anche zia Francesca non poteva fare a meno di parlare dei nostri successi
scolastici, più o meno esagerati. Quei lunghi pomeriggi di conversazione, in
cui bisognava ascoltare e stare attenti e, seppure solo ogni tanto, rispondere
qualcosa di appropriato, dovevano essere un discreto supplizio per la povera
zia Francesca.
Invece mio padre era
perfettamente a suo agio e galleggiava come un sughero inaffondabile sul
torrente oratorio di Santurbano.
Lui era un cattolico devoto e
un convinto anticomunista. Lavorava in un ente parastatale e leggeva, come gran
parte dell’impiegatume romano di allora, il quotidiano Il Tempo. Mio padre
aveva due o tre idee granitiche: la classe lavoratrice non deve più essere
sfruttata; l’Unione Sovietica, grazie al comunismo, ha fatto passi da gigante
verso il progresso; l’America sostiene la borghesia e il capitalismo.
Santurbano partiva a testa bassa come un toro infuriato, ma mio padre non si
lasciava mai smontare. Non perché avesse studiato questi problemi e sapesse
rispondere con argomenti nuovi ed elaborati, ma solo perché, qualsiasi cosa
dicesse l’avversario, lui gli opponeva il fondamentale problema: “Sì, ma la
classe lavoratrice è stata troppo sfruttata. Io stesso ricordo di aver visto da
ragazzino, al porto di Pescara, le povere contadine che caricavano pesanti ceste
di carbone. Quando dovevano orinare, orinavano in piedi, semplicemente
allargando le gambe”. E poi snocciolava qualche cifra sulla crescente
produzione di acciaio o di elettricità dell’Unione Sovietica e sul suo
meraviglioso sistema scolastico. Ma c’era un motivo più sostanziale per cui mio
padre rimaneva tranquillo di fronte alle sfuriate di Santurbano: lui non si
identificava con il problema, non si immedesimava negli sfruttati, e quella
discussione non era una dichiarazione appassionata delle proprie convinzioni,
ma piuttosto un passatempo e un divertimento.
Una sera Santurbano ci portò in
visita, me e mio padre, da un dotto prelato che abitava vicino a casa sua, in
una traversa di Viale Eritrea. Il prelato era grande e grosso, ma aveva le
maniere soavi dei preti. Santurbano, rivolto verso di noi, ripeteva con più
forza le ultime frasi dei ragionamenti del prete, come per dire: “Non c’è
niente da fare. Convincetevi: è proprio così. Non si può obiettare niente.
Bisogna crederci”. Il prete spiegò la presenza del male nel mondo con questa
immagine meschina: “Gli uomini di fronte a Dio sono come dei bimbetti davanti
al loro amato papà, che li adora. Se un figliolino sta male, il papà gli fa una
iniezione per farlo star meglio. Ma il bimbo non può capire il significato e lo
scopo di quel gesto; lui avverte un dolore e pensa che il papà sia cattivo e
non gli voglia più bene. Ma noi sappiamo che le cose stanno diversamente, non è
vero, amici cari?”.
Ad un certo momento, verso le
dieci e mezza di sera, il prelato ci congedò bruscamente, perché, disse, aveva
ancora da lavorare.
I figli dei Santurbano erano
Concettina e Mimmo. Lei era un po’ più grande di Gigino e lui un po’ più grande
di me. Concettina sembrava una graziosa fragile e delicata bambola, con una
vocina sottile sottile. Mimmo era uno spilungone che sapeva imitare le voci di
Stanlio e Ollio.
Giocavamo correndo fra la
cucina e la loro camera, che aveva un balcone altissimo su Viale Eritrea, dal
quale potevo guardare con meraviglia, in basso, un fitto formicolio di gente e
di vita. L’enorme palazzone in cui abitavano era stato costruito prima della
guerra, e le stanze erano grandi e ben isolate. Il loro appartamento era
arredato con mobili che già allora ricreavano l’atmosfera di un passato
lontano. Sul tavolo della cucina era appoggiato per noi, a seconda della
stagione, un vassoio di ciliegie o un grande piatto colmo di castagne lessate e
già sbucciate.
Mimmo faceva la collezione di
figurine dei calciatori. Ne aveva un grande mazzo legato con un elastico. Io non
avevo soldi per comprarle. Frequentavo allora la quinta elementare o forse già
la prima media. Chiesi a Mimmo se me le regalava, ma naturalmente rifiutò, e io, mentre la sera
stavamo per lasciare la loro casa e avevamo già indossato i nostri cappotti, nel
trambusto dei saluti, andai in camera
sua e mi misi in tasca l’intero mazzo di figurine. Con mia meraviglia,
non ho mai provato vergogna per quel gesto. Mimmo non mi affrontò mai per
accusarmi del furto e io potei immaginare che lo avesse commesso un’altra
persona, oppure proprio io, ma in una vita precedente.
La famiglia Egeo era l’altra
metà delle nostre relazioni sociali. I
miei avevano conosciuto gli Egeo quando vennero a trovarmi a Fiuggi, dove ero
in colonia. Mio padre, che aveva gusto e interesse per le relazioni e le
conoscenze nuove, manteneva vivi i rapporti telefonando o scrivendo almeno due
volte l’anno, per le grandi feste. Al comandante di compagnia che aveva avuto
nel 1943, quando era militare a Massafra, e che diventò poi parlamentare della
Democrazia Cristiana, mio padre scrisse biglietti di auguri per trenta Natali di
seguito.
Egeo (noi lo chiamavamo così,
usando il suo cognome come nome di battesimo, che non abbiamo mai conosciuto)
era un “romano de Roma”, con l’aspetto di un ometto indifeso e una faccia
bonaria dagli occhi acquosi. Era arguto e simpatico nelle piccole cose. Nelle
altre era passivo e si lasciava guidare dalla moglie, che era una donna
spigolosa, scolpita nel legno, con due occhi imperiosi come quelli di Titina De
Filippo. La loro casa, in un massiccio palazzo di fine Ottocento, fra la Stazione Termini
e Piazza Vittorio, era grande e scura.
Anche Egeo era impiegato in
qualche ente parastatale. Si dilettava di pittura. Dipingeva pallide pesche
appoggiate su una tovaglia, mele e altra frutta. Legato al realismo vegetale,
non sapeva disegnare altro. I miei gli comprarono, per una somma
insignificante, un quadro che rappresentava dei vasi di aspidistra, di cui Egeo
aveva piena la tetra casa. Il quadro rimase appeso, unico quadro, nel nostro
salotto per una quarantina d’anni, finché l’appartamento non fu svuotato e
venduto, dopo la morte di mio padre.
(continua al post successivo)

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