Prima di spegnersi
completamente e per sempre, la stella della mia attività commerciale brillò
ancora per un paio di stagioni. Dovevo avere undici o dodici anni, quando mi
venne in mente di raccogliere i piccoli oggetti inutili sparsi per casa e di
metterli in palio fra i ragazzini del palazzo con una lotteria, al modesto
prezzo di dieci lire a biglietto. Riempii una cassetta rettangolare con biglie
di vetro, giornalini a fumetti, la figura in metallo del pappagallo Cocorito
(da appuntarsi al petto con una spilla), due o tre pugnali malesi, ispirati dai
romanzi di Salgari, che avevo fabbricato con
tavolette di tenero legno e dotato di adeguato fodero costruito con
cartone speciale, e altre dimenticate carabattole. Detti a ciascun oggetto un
numero e lo trascrissi sui biglietti da estrarre. Non c’erano biglietti
bianchi: si vinceva sempre qualcosa. Con quella cassetta al collo, come un
venditore di gelati nei vecchi cinema di una volta, mi misi a girovagare per la
nostra strada e sui prati circostanti, seguendo la direzione in cui sciamavano
i ragazzi.
Questi spendevano volentieri le
dieci lire del biglietto, spinti dalla novità dell’iniziativa e dall’eccitazione
che una vincita al gioco (qualunque cosa si vinca) può dare. Dopo qualche
giorno, avevo incassato 480 lire, che io giudicai un gruzzolo sufficiente per
ritirarmi dagli affari. Andai subito a comprare un paio di torroni al bar di
Piazza Armellini. Quando mio padre seppe che avevo chiuso la campagna di
vendita e che avevo immediatamente investito in torroni il ricavato, ci rimase
male, mi rimproverò di essere stato uno spendaccione e mi ammonì che i ragazzi
piccoli, per il loro bene, non debbono disporre di troppo denaro. Ma lui aveva
da poco incamerato anche il biglietto da mille lire che la comare Pina mi aveva regalato per la mia prima comunione,
e il suo rimprovero non mi fece né caldo né freddo.
La mia carriera di ragazzo
pragmatico e affarista terminò l’anno successivo, alla fine della scuola.
Incoraggiato dall’esperienza precedente, decisi di organizzare una nuova
lotteria. Ma siccome in casa nostra non c’era più nessun oggetto da mettere in
palio, pensai di associare all’impresa Massimo D’Intino, nella cui casa c’erano
invece tanti giocattoli. Lui aveva parecchi fratelli e, soprattutto, un padre
che, avendo in Banca una posizione migliore del mio, guadagnava di più.
La famiglia D’Intino era una
delle due o tre famiglie beneducate e riservate del condominio. Da casa loro
non si sentivano mai (come capitava per la maggior parte delle famiglie) né
urli né sguaiataggini né fracasso di giochi rumorosi. I ragazzi D’Intino erano
composti, non dicevano parolacce e non scendevano mai a giocare con noi altri
ragazzi di strada. Uscivano quasi sempre accompagnati dalla serva Rosaria, una
donnetta minuta, sciancata, con la pelle da contadina scura e ruvida come il
cuoio. Rosaria era fedele e lavoratrice
come una serva da romanzo russo e annullava completamente la propria vita nella
vita della famiglia che l’ospitava.
Massimo D’Intino aveva un paio
d’anni più di me ed era un ragazzo piuttosto timido e schivo, ma accettò la mia
proposta, perché voleva sottrarsi un poco al controllo rigido della famiglia e
divertirsi un poco in libertà e forse anche perché la fama che io avevo nel
palazzo di ragazzo bravo a scuola non allarmava i suoi genitori.
Adesso i premi della lotteria
non potevano più stare nella stessa cassetta della volta precedente, così
leggera che potevo portarla in giro da solo con disinvoltura e senza dare
troppo nell’occhio. Questa volta io e Massimo riempimmo una enorme scatola di
cartone, la piazzammo non lontano dal cancello del palazzo, dove tutti dovevano
passare, e ci mettemmo ai lati dello scatolone come due commessi in attesa di
clienti.
Ma i ragazzi più grandi non
sopportavano che noi facessimo tranquillamente i nostri affari; non
sopportavano soprattutto che quei giocattoli se ne andassero in modo del tutto
casuale, per sole dieci lire, nelle mani di ragazzini magari troppo piccoli,
magari indegni di quei bei giochi. Questi due o tre ragazzi prepotenti, guidati
da Roberto, sentivano che i migliori premi erano fatti per loro, destinati a
loro; non volevano spendere troppe volte dieci lire per tentare la sorte, ma
non volevano rinunciarvi. Ci ronzavano intorno come avvoltoi, cercando uno
spunto, un pretesto. Alla fine Roberto
lo trovò. Mise gli occhi sul premio più bello, non ancora sorteggiato da
nessuno (una macchina fotografica a soffietto, che non funzionava da una decina
d’anni), e lanciò la sua accusa: “Sono sicuro che per quella macchina non avete
messo il biglietto”.
Roberto era un ragazzo di
sedici anni, grande e ben sviluppato, forte e abile nei giochi di strada. Si
sarebbe potuto dire bello come un eroe dell’Intrepido (il giornalino che tutti
leggevamo), se non fosse stato per un’impronta di volgarità che portava sul
viso. Era come se i suoi lineamenti, che si potevano immaginare in origine
regolari e gentili, si fossero gonfiati. La bocca, le palpebre, la fronte, le
guance, tutto era, nonostante la giovane età, già sgradevolmente massiccio. La
famiglia proveniva da un paesino dell’alto Lazio. La madre era inaspettatamente
bella; aveva un bel viso calmo di contadina, con una lunga treccia di capelli
avvolta dietro la testa. Il padre invece aveva la faccia antipatica di un cane
bulldog, sempre in guardia e pronto a mordere. Roberto si vantava di essere
fascista del Movimento sociale e attaccava minuscoli manifesti, poco più grandi
di un francobollo, ai marmi di travertino che rivestivano, al piano della
strada, i muri del nostro palazzo. Tra noi ragazzi non si parlava di politica.
Ma mio padre aveva comiciato a portare a casa l’Unità, il giornale dei
comunisti, e comprava il Calendario del Popolo. Si andavano delineando degli
schieramenti contrapposti. Non parlavamo di politica, ma quell’ostentazione di
simpatie fasciste era già sufficiente a creare un sentimento di distanza.
Quando Roberto, spalleggiato da
Salvatore Fiorito, l’ex ragazzino delle cartine di caramelle, mi accusò (Massimo
D’Intino non era presente) di barare al gioco, perché, secondo loro, non avevo
messo un biglietto per ogni oggetto esposto, protestai che invece l’avevo
messo.
“E allora fammelo vedere”,
disse il Lupo.
Io, desideroso, più che di
qualsiasi altra cosa, di dimostrare la mia lealtà, senza pensare alla trappola
nella quale stavo per cadere e di cui mi resi conto troppo tardi, trovai dopo
una piccola ricerca il biglietto della macchina fotografica e lo passai aperto
a Roberto. Il Gatto e la Volpe allora si complimentarono con me per la mia
correttezza; riavvolsero il biglietto e gli fecero un piccolo strappo in modo
da poterlo riconoscere. Poi fecero un giro intorno allo scatolone, mi tornarono
davanti come se passassero di lì per caso e mi porsero le dieci lire per una
unica estrazione. Roberto osservò bene i biglietti nel loro bussolotto, li
toccò, li palpeggiò e alla fine tirò su quello giusto. Come ridacchiavano
soddisfatti il Gatto e la Volpe, andandosene con la macchina fotografica!
Finché intorno al nostro
palazzo rimasero i prati e i terreni incolti, ogni estate organizzavamo tornei
di corse con le lattine. Tracciavamo nella terra battuta piste lunghissime che
imitavano le caratteristiche e le difficoltà del Giro d’Italia: rettilinei
pianeggianti, curve a gomito, scalate di montagne, tratti di pavé. Erano giochi
sociali complessi ai quali partecipavamo con grande serietà.
Uno degli ultimi tornei,
nell’estate di cui ho appena raccontato o in quella precedente, fu organizzato
da Roberto. Poiché si era deciso di dare un premio ai primi tre classificati,
era stata fissata una quota d’iscrizione di 25 lire. Roberto raccolse i
versamenti dei partecipanti, che erano almeno una dozzina, e prima che il
torneo cominciasse partì per la villeggiatura, portandosi dietro la cassa.
Salvatore Fiorito e Roberto Sbardella,
come molti altri figli d’arte del palazzo, appena ebbero l’età, “entrarono in
Banca”.
“Entrare in Banca” era allora
un’espressione che veniva pronunciata con mistica venerazione. Significava
entrare a far parte di un mondo arcano e privilegiato.
La Banca era
una istituzione benefica per i suoi dipendenti e assumeva i loro figli anche
quando non sapevano fare niente. Però era esigente e severa: pretendeva fedeltà
e dedizione assolute. Salvatore Fiorito e Roberto Sbardella, impiegati di banca
ultraortodossi, avevano queste qualità.
(continua al post successivo)

Nessun commento:
Posta un commento