lunedì 21 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 12° Capitolo: "Il Gatto e la Volpe".


Prima di spegnersi completamente e per sempre, la stella della mia attività commerciale brillò ancora per un paio di stagioni. Dovevo avere undici o dodici anni, quando mi venne in mente di raccogliere i piccoli oggetti inutili sparsi per casa e di metterli in palio fra i ragazzini del palazzo con una lotteria, al modesto prezzo di dieci lire a biglietto. Riempii una cassetta rettangolare con biglie di vetro, giornalini a fumetti, la figura in metallo del pappagallo Cocorito (da appuntarsi al petto con una spilla), due o tre pugnali malesi, ispirati dai romanzi di Salgari, che avevo fabbricato con   tavolette di tenero legno e dotato di adeguato fodero costruito con cartone speciale, e altre dimenticate carabattole. Detti a ciascun oggetto un numero e lo trascrissi sui biglietti da estrarre. Non c’erano biglietti bianchi: si vinceva sempre qualcosa. Con quella cassetta al collo, come un venditore di gelati nei vecchi cinema di una volta, mi misi a girovagare per la nostra strada e sui prati circostanti, seguendo la direzione in cui sciamavano i ragazzi.
Questi spendevano volentieri le dieci lire del biglietto, spinti dalla novità dell’iniziativa e dall’eccitazione che una vincita al gioco (qualunque cosa si vinca) può dare. Dopo qualche giorno, avevo incassato 480 lire, che io giudicai un gruzzolo sufficiente per ritirarmi dagli affari. Andai subito a comprare un paio di torroni al bar di Piazza Armellini. Quando mio padre seppe che avevo chiuso la campagna di vendita e che avevo immediatamente investito in torroni il ricavato, ci rimase male, mi rimproverò di essere stato uno spendaccione e mi ammonì che i ragazzi piccoli, per il loro bene, non debbono disporre di troppo denaro. Ma lui aveva da poco incamerato anche il biglietto da mille lire che la comare Pina  mi aveva regalato per la mia prima comunione, e il suo rimprovero non mi fece né caldo né freddo.

La mia carriera di ragazzo pragmatico e affarista terminò l’anno successivo, alla fine della scuola. Incoraggiato dall’esperienza precedente, decisi di organizzare una nuova lotteria. Ma siccome in casa nostra non c’era più nessun oggetto da mettere in palio, pensai di associare all’impresa Massimo D’Intino, nella cui casa c’erano invece tanti giocattoli. Lui aveva parecchi fratelli e, soprattutto, un padre che, avendo in Banca una posizione migliore del mio, guadagnava di più.
La famiglia D’Intino era una delle due o tre famiglie beneducate e riservate del condominio. Da casa loro non si sentivano mai (come capitava per la maggior parte delle famiglie) né urli né sguaiataggini né fracasso di giochi rumorosi. I ragazzi D’Intino erano composti, non dicevano parolacce e non scendevano mai a giocare con noi altri ragazzi di strada. Uscivano quasi sempre accompagnati dalla serva Rosaria, una donnetta minuta, sciancata, con la pelle da contadina scura e ruvida come il cuoio.  Rosaria era fedele e lavoratrice come una serva da romanzo russo e annullava completamente la propria vita nella vita della famiglia che l’ospitava.
Massimo D’Intino aveva un paio d’anni più di me ed era un ragazzo piuttosto timido e schivo, ma accettò la mia proposta, perché voleva sottrarsi un poco al controllo rigido della famiglia e divertirsi un poco in libertà e forse anche perché la fama che io avevo nel palazzo di ragazzo bravo a scuola non allarmava i suoi genitori.
Adesso i premi della lotteria non potevano più stare nella stessa cassetta della volta precedente, così leggera che potevo portarla in giro da solo con disinvoltura e senza dare troppo nell’occhio. Questa volta io e Massimo riempimmo una enorme scatola di cartone, la piazzammo non lontano dal cancello del palazzo, dove tutti dovevano passare, e ci mettemmo ai lati dello scatolone come due commessi in attesa di clienti.
Ma i ragazzi più grandi non sopportavano che noi facessimo tranquillamente i nostri affari; non sopportavano soprattutto che quei giocattoli se ne andassero in modo del tutto casuale, per sole dieci lire, nelle mani di ragazzini magari troppo piccoli, magari indegni di quei bei giochi. Questi due o tre ragazzi prepotenti, guidati da Roberto, sentivano che i migliori premi erano fatti per loro, destinati a loro; non volevano spendere troppe volte dieci lire per tentare la sorte, ma non volevano rinunciarvi. Ci ronzavano intorno come avvoltoi, cercando uno spunto, un pretesto.  Alla fine Roberto lo trovò. Mise gli occhi sul premio più bello, non ancora sorteggiato da nessuno (una macchina fotografica a soffietto, che non funzionava da una decina d’anni), e lanciò la sua accusa: “Sono sicuro che per quella macchina non avete messo il biglietto”.
Roberto era un ragazzo di sedici anni, grande e ben sviluppato, forte e abile nei giochi di strada. Si sarebbe potuto dire bello come un eroe dell’Intrepido (il giornalino che tutti leggevamo), se non fosse stato per un’impronta di volgarità che portava sul viso. Era come se i suoi lineamenti, che si potevano immaginare in origine regolari e gentili, si fossero gonfiati. La bocca, le palpebre, la fronte, le guance, tutto era, nonostante la giovane età, già sgradevolmente massiccio. La famiglia proveniva da un paesino dell’alto Lazio. La madre era inaspettatamente bella; aveva un bel viso calmo di contadina, con una lunga treccia di capelli avvolta dietro la testa. Il padre invece aveva la faccia antipatica di un cane bulldog, sempre in guardia e pronto a mordere. Roberto si vantava di essere fascista del Movimento sociale e attaccava minuscoli manifesti, poco più grandi di un francobollo, ai marmi di travertino che rivestivano, al piano della strada, i muri del nostro palazzo. Tra noi ragazzi non si parlava di politica. Ma mio padre aveva comiciato a portare a casa l’Unità, il giornale dei comunisti, e comprava il Calendario del Popolo. Si andavano delineando degli schieramenti contrapposti. Non parlavamo di politica, ma quell’ostentazione di simpatie fasciste era già sufficiente a creare un sentimento di distanza. 
Quando Roberto, spalleggiato da Salvatore Fiorito, l’ex ragazzino delle cartine di caramelle, mi accusò (Massimo D’Intino non era presente) di barare al gioco, perché, secondo loro, non avevo messo un biglietto per ogni oggetto esposto, protestai che invece l’avevo messo.
“E allora fammelo vedere”, disse il Lupo.
Io, desideroso, più che di qualsiasi altra cosa, di dimostrare la mia lealtà, senza pensare alla trappola nella quale stavo per cadere e di cui mi resi conto troppo tardi, trovai dopo una piccola ricerca il biglietto della macchina fotografica e lo passai aperto a Roberto. Il Gatto e la Volpe allora si complimentarono con me per la mia correttezza; riavvolsero il biglietto e gli fecero un piccolo strappo in modo da poterlo riconoscere. Poi fecero un giro intorno allo scatolone, mi tornarono davanti come se passassero di lì per caso e mi porsero le dieci lire per una unica estrazione. Roberto osservò bene i biglietti nel loro bussolotto, li toccò, li palpeggiò e alla fine tirò su quello giusto. Come ridacchiavano soddisfatti il Gatto e la Volpe, andandosene con la macchina fotografica!

Finché intorno al nostro palazzo rimasero i prati e i terreni incolti, ogni estate organizzavamo tornei di corse con le lattine. Tracciavamo nella terra battuta piste lunghissime che imitavano le caratteristiche e le difficoltà del Giro d’Italia: rettilinei pianeggianti, curve a gomito, scalate di montagne, tratti di pavé. Erano giochi sociali complessi ai quali partecipavamo con grande serietà.
Uno degli ultimi tornei, nell’estate di cui ho appena raccontato o in quella precedente, fu organizzato da Roberto. Poiché si era deciso di dare un premio ai primi tre classificati, era stata fissata una quota d’iscrizione di 25 lire. Roberto raccolse i versamenti dei partecipanti, che erano almeno una dozzina, e prima che il torneo cominciasse partì per la villeggiatura, portandosi dietro la cassa.

Salvatore Fiorito e Roberto Sbardella, come molti altri figli d’arte del palazzo, appena ebbero l’età, “entrarono in Banca”.
“Entrare in Banca” era allora un’espressione che veniva pronunciata con mistica venerazione. Significava entrare a far parte di un mondo arcano e privilegiato.
La Banca era una istituzione benefica per i suoi dipendenti e assumeva i loro figli anche quando non sapevano fare niente. Però era esigente e severa: pretendeva fedeltà e dedizione assolute. Salvatore Fiorito e Roberto Sbardella, impiegati di banca ultraortodossi, avevano queste qualità. 
                      (continua al post successivo)

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