Per tutto il tempo delle scuole
elementari i campi intorno al nostro palazzo rimasero intatti. I ragazzi, nei
loro giochi, si muovevano sempre in banda, divisi per sesso e per età. Io fui
per qualche anno, finché non entrai a far parte del gruppo superiore, il più
grande dei ragazzini piccoli.
Trottavamo su cavalli
immaginari per le montagnole e gli avvallamenti di quei campi, lanciando grida
di guerra contro nemici invisibili, e costruivamo nei punti strategici, dove
era più facile difendersi, dei fortini fatti di pietre e massi di tufo, che
trovavamo sparsi all’intorno.
C’era, alla portata di tutti,
una grande varietà di giochi, che si avvicendavano secondo le stagioni. Oltre
agli eterni giochi classici, come nascondino, guardie e ladri, lo schiaffo del
soldato, “acchiapparella”, “buzzico rampichino: chi sta per terra acchiappa”,
“olio, sale e pepe”, morra cinese e tanti altri, giocavamo a palline, con le
figurine, con le cerbottane, a nizza, con le esplosioni di carburo, con le
pistole ad acqua, coi tappi metallici delle bibite, a calcio, a carte, ecc.
Alcuni giochi, che richiedevano
la partecipazione di molti ragazzi, avevano un regolamento complesso ed erano
esteticamente belli. Dai cantieri che cominciavano a sorgere nella zona
prendevamo frammenti di lastre di marmo e li lavoravamo con pazienza,
levigandoli, fino a farne delle piastre perfettamente tonde. Con quelle piastre
giocavamo come alle bocce, sulla terra battuta. A parte l’antagonismo creato
dal gioco, c’era rivalità fra i ragazzi anche per la bellezza delle piastre,
che dovevano essere molto levigate e arrotondate e fatte con il marmo di
maggior pregio e resistenza. I ragazzi giocavano con lealtà. Avevano solo
dodici, tredici, al massimo quindici anni e lanciavano quelle piastre con una
concentrazione e una serietà che trovo ora commoventi.
Nel gioco “Uno: monta la luna”
bisognava saltare sulla schiena di un ragazzo, piegato in avanti, con le mani
appoggiate sulle ginocchia, e scavalcarlo, pronunciando delle frasi e facendo
dei gesti rituali. Ci voleva una grande
abilità e lo spettacolo era molto teatrale.
Un gioco ancora più teatrale erano le sassaiole. I sassi, che
per i ragazzi di città erano cose sconosciute,
per noi erano oggetti comunissimi che avevamo sempre a portata di mano,
utili per tanti giochi di destrezza e di .... offesa. Spesso facevamo delle gare per misurarci
sulla distanza a cui saremmo riusciti a lanciare un sasso o sulla precisione
con cui avremmo saputo colpire un bersaglio.
Le sassaiole, invece, erano
delle vere battaglie fra abitanti di rioni diversi. Noi eravamo ragazzi
tranquilli e non avevamo alcuna brama di conquistare altre zone e di punire le
tribù che vi abitavano. Ma ogni tanto si affacciavano sui nostri campi ragazzi
dalle facce feroci come quelle degli apache. Venivano da oltre la ferrovia e ci
odiavano, perché dovevano considerarci dei signorini figli di papà. Non fu mai
possibile alcun contatto, nemmeno per parlamentare. Arrivavano all’improvviso e
subito ingaggiavano battaglia. Io partecipai a due sassaiole: la prima volta
presi una sassata in fronte, la seconda fui colpito sulla testa, di lato.
Quando giocavamo nelle belle
giornate di sole, alla ringhiera di un balcone del primo piano era sempre
appoggiata una ragazza, con il mento sulle mani congiunte, che aveva forse
appena un paio d’anni più di me. Rimaneva per ore ad osservare i nostri giochi,
senza dire mai niente, senza mai chiamare nessuno di noi e senza che nessuno, dalla strada, le
rivolgesse mai la parola. Io immaginavo che guardasse soprattutto me e sotto il
suo sguardo cercavo di compiere qualche bel gesto.
Si chiamava Concetta Tripepi,
abitava nella mia stessa scala e apparteneva, come Massimo D’Intino, ad una
famiglia molto riservata. La madre era addirittura figlia di un ex senatore del
Regno, ma purtroppo, nonostante questa nobile ascendenza, quando lei parlava
uscivano dalla sua bocca solo rospi e serpenti, come per l’incantesimo di una
strega. Parlava un dialetto incomprensibile con una vocetta stridula. Con
quella ragazzina, per tutto il tempo che abitammo nello stesso palazzo, non scambiai
mai una parola, a parte brevi e impacciati saluti. Quando il padre,
ragioniere, in banca fu promosso funzionario, la famiglia lasciò in fretta il
palazzo e il rione. I miei genitori, allora, che per la mancanza dell’ascensore
cominciavano a sentire il peso delle scale, si trasferirono nel loro
appartamento e trovarono che i Tripepi, come in una favola, con stucchi specchi
decorazioni e maniglie di ceramica alle porte avevano trasformato una modesta
casa per impiegati in un appartamento che voleva apparire aristocratico.
Ma la famiglia più aristocratica e impenetrabile del condominio erano gli Ocone. Nessuno vide mai la loro casa; le loro finestre, sui cui vetri erano come incollate delle spesse e inamovibili tendine bianche, non si aprivano mai. Il padre era un meridionale laureato che vestiva con ricercatezza e, le rare volte che si fermava a conversare, diceva garbate scempiaggini. I due figli, un maschio e una femmina, erano già grandi e studiavano medicina. Attraversavano il cortile e la strada con aria assorta e indaffarata, come se vivessero in un mondo diverso dal nostro.
Ma la famiglia più aristocratica e impenetrabile del condominio erano gli Ocone. Nessuno vide mai la loro casa; le loro finestre, sui cui vetri erano come incollate delle spesse e inamovibili tendine bianche, non si aprivano mai. Il padre era un meridionale laureato che vestiva con ricercatezza e, le rare volte che si fermava a conversare, diceva garbate scempiaggini. I due figli, un maschio e una femmina, erano già grandi e studiavano medicina. Attraversavano il cortile e la strada con aria assorta e indaffarata, come se vivessero in un mondo diverso dal nostro.
Finché rimasero intatti, i
nostri campi venivano attraversati a volte da greggi di pecore che noi non
capivamo né da dove venissero né dove andassero.
E poi passavano l’arrotino, lo
“stracciarolo”, l’impagliatore di sedie e l’ombrellaio, che riparava anche i
piatti di coccio; d’inverno passavano gli zampognari e la domenica, per
renderci il giorno di festa malinconico e crepuscolare, l’organetto di
Barberia.
Qualche volta arrivava una
specie di gladiatore che dava spettacolo sul marciapiede. Era un uomo di mezza
età con lunghi capelli da artista, grigi e ispidi. Si metteva a torso nudo, si
faceva avvolgere con una lunga catena da una ragazzetta che l’accompagnava e
con la forza del suo torace in espansione spezzava il gancio che la chiudeva.
Un altro numero del suo spettacolo consisteva nel farsi sparare sul petto con
una carabina a piumini. Questo gladiatore l’ho rivisto in seguito in un film di
Federico Fellini.
Ogni domenica la famiglia
Zàuli, che abitava nel nostro palazzo, a mezzogiorno aveva già pranzato e, se
non era cattivo tempo, usciva per andare a passeggio: moglie, marito e due
bambine. Uscivano proprio nel momento in cui la strada e i campi rimanevano
deserti, perché tutti tornavano a casa per mangiare. Dalla nostra finestra di
cucina, all’ultimo piano, guardavo quella famigliola vagare a zig-zag nel
vuoto.
Moltissimi anni dopo la signora
Zàuli mi raccontò che era il marito, “pace
all’anima sua”, che infliggeva a tutta la famiglia quei pranzi domenicali
così mattutini e quelle passeggiate disperate.
Lei era una lìgure vivace ed estroversa; lui, invece, un
romagnolo taciturno, solitario, gran fumatore dalla voce roca, che aveva
l’unico passatempo di andare al bar a giocare a carte.
Quando le figlie furono grandi
e andarono ad abitare da sole, la signora Zàuli passava la maggior parte
dell’anno nel suo paese, in Liguria, e Italo, il marito, restava a Roma da
solo. D’estate, più di una volta, si aggregò a mio padre e a zia Francesca, che
andavano a Chianciano per fare la cura delle acque. Io, che da Firenze andavo a
visitare i miei genitori nella loro pensione, incontravo anche il signor Zàuli
ed ero impressionato dalla sua solitudine.
Ma allora, all’inizio dei
lontani anni Cinquanta, i coniugi Zàuli erano ancora giovani e, come anche la
maggior parte degli abitanti del condominio, erano (o forse sembravano o forse
credevano di essere) ancora desiderosi di socievolezza e di allegria.
Nei primi tempi, le famiglie di
questi impiegati, i più vecchi dei quali erano appena quarantenni, si riunivano
ogni tanto per fare festa. Una di queste festicciole, una notte di fine d’anno,
si tenne a casa nostra. Parteciparono gli Zàuli, i Ferrara, i Leone e gli Arti
con tutti i loro figli. I ragazzi, da soli, erano almeno una quindicina e
avevano come campo d’azione per i loro giochi e le loro baruffe l’appartamento
rimasto vuoto dei Ferrara, che abitavano a fianco a noi, sullo stesso
pianerottolo. Gli adulti ballavano e ridevano goffamente nel nostro “camerone”,
dove su un alto comò addossato alla parete, fra due porte-finestre che davano
sul balcone, era montato il nostro presepe con i pupazzetti in cartoncino colorato,
che si reggevano in piedi, come un portaritratti su una mensola, grazie ad un
esile sostegno – anch’esso di cartone – incollato sul verso. Il presepe era
tutto verde per l’abbondante “vellutello” che io e Gigino avevamo raccolto sui
prati, unica cosa, assieme ai sassolini per disegnare i sentieri, della quale
potevamo scegliere la qualità migliore e disporre senza risparmio.
Il ragionier Leone era un
calabrese basso e mingherlino, con dei baffettini corti e sottili;
chiacchierava di continuo, dandosi delle arie da impiegato di concetto, e
cercava di fare a tutti i costi lo spiritoso con una quantità di smorfie e di
strizzatine d’occhi. Non parlava né italiano né dialetto, ma con la sua vocetta
liquida deformava le parole italiane e le pronunciava, specialmente i verbi, in
modo incompleto, sfumando le desinenze. Mio padre, che seguiva sempre una sua
accorta politica delle alleanze, lo aveva pregato di farmi da padrino alla
cresima (senza che fra me e lui ci fosse alcuna familiarità) e lui, per
l’occasione, mi aveva regalato un braccialetto d’oro sul quale era
generosamente scritto: “Fabbrizio”, con due b.
In quella serata di San
Silvestro, il ragionier Leone, con un bicchiere di spumante in mano, ridendo,
si avvicinò ai pupazzetti di carta del presepe e disse:
“Toh, che stran persep! Non
sacc’ se l’ave mai vidut.”
Il comò era alto e arrivava
fino al mento del ragioniere. Allora lui, o per dispetto o per allegria,
cominciò a soffiare in tutte le direzioni e fece volare i pupazzetti di carta.
“Ann nuov, vite nuov! Vite
nuov!”
Qualche pupazzetto finì sul
pavimento, calpestato dalle coppie che ballavano.
“Non s’è rott nint, non s’è
rott nint.”
Poi, rivolto a mio padre,
aggiunse: “Eh, cuompaar, tu sì che se’ stat inteliggent a fa’ il persep d’ carton.”
(continua al post successivo)

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