Da Pescara, la famiglia si
trasferì a Roma, dove mio padre sposò zia Francesca. Abitavamo in campagna, a
Primavalle, non lontano dalla città, in una villa (villa Squassi) le cui stanze
erano tutte occupate da giovani impiegati della Banca con le loro mogli e
bambini. Ma nei ricordi favolosi che conservo, la villa mi appare tutta nostra,
senza alcuna presenza di estranei, tranne la casiera, sora Lisa, e il suo cane
Alì.
Probabilmente non avevamo
nessun mobile. Forse trovammo solo i letti e qualche sedia, o forse li
comprammo di seconda mano. Il tavolo per mangiare (lo ricordo distintamente)
mio padre lo costruì con delle assi. Andava a lavorare a Roma in bicicletta e
nel tempo libero girava per la campagna, fino a 50 chilometri di
distanza, assieme a qualche collega, in cerca di farina, zucchero e olio. La
nostra fame doveva essere grande. Una volta zia Francesca aveva preparato una
sfoglia di pasta e, prima che la tagliasse a fettuccine, io me ne mangiai una
buona parte cruda.
Mio padre tostava l’orzo dentro
un recipiente di forma cilindrica con un manico, a un’estremità, a forma di
zeta, con cui faceva girare il cilindro nel suo telaio, sopra un gran fuoco
acceso fuori del cancello, sulla strada, fiancheggiata da verdi prati ondulati
che si estendevano a perdita d’occhio, dove noi andavamo a raccogliere la malva
per fare i decotti.
Quando, nei mercatini che oggi offrono
questo genere di reliquie del passato, mi capita di trovare uno di quei vecchi
utensili coperto da uno spesso strato di cara fuliggine, a vederlo così fuori
posto e ormai inutile, mi meraviglio che il mondo in cui esso era ancora un
oggetto importante, e che io ho fatto in tempo a conoscere, sia così
irrevocabilmente finito, benché fosse ancora vivo appena l’altro ieri.
Sul bordo di quei prati, le
sere di bel tempo, in una grande solitudine illuminata dalla luna, facevamo
delle passeggiate e cantavamo una fantastica filastrocca pescarese, che veniva chissà da quali remote profondità: “Luna luna, damme nu piatte de maccarune; si 'n ci mitte lu sughette, je te rombe la tianelle".
Avevo tre anni e andavo ad un
asilo di monache. Qualche volta capitò che mi facessi i bisogni addosso e che
le monache mi lasciassero sporco per tutta la giornata. Quando tornavo a casa,
il pomeriggio, mio padre mi metteva in piedi dentro un catino e mi scrostava
con pazienza.
Mia sorella nacque a Villa
Squassi nel febbraio del 1946. Era un primo pomeriggio assolato ed io dal
giardino cercavo di osservare, attraverso le stecche delle persiane chiuse, gli
avvenimenti misteriosi che si svolgevano dentro la stanza.
Conservo altri ricordi del
tutto slegati .
L’eco di un fatto di sangue: le
grida impressionanti di persone che correvano davanti al cancello della villa.
Nelle vicinanze dell’asilo doveva
esserci una grande stalla per cavalli o forse un mattatoio. Lì conobbi l’odore,
così acuto e caratteristico, dell’urina di cavallo. Ormai da molto tempo nelle
nostre campagne non si incontrano più cavalli, e l’odore della loro urina si
può sentire solo in città, passando accanto a qualche sopravvissuta carrozzella
in attesa di turisti. Così quella sensazione
lontanissima è rimasta viva e si rinnova ogni tanto.
Un piccolo segno concreto e
visibile di quell’epoca, credo l’unico rimasto, è una cicatrice che porto sul
dorso della mano destra. La lametta da barba con cui, nel giardino di Villa
Squassi, in una mattina di sole, tagliuzzavo un pezzo di legno si spezzò e mi
ferì. Zia Francesca mi calmò con una patata lessa.
Alla fine del 1946 la Banca ci trasferì in massa
in un suo settecentesco palazzo nel centro di Roma, in via san Nicolò da
Tolentino, a venti metri da Piazza Barberini. Al piano nobile del palazzo, in
grandi saloni dai soffitti affrescati, c’era la mensa della Banca. Gli
impiegati erano alloggiati con le loro famiglie all’ultimo piano, in camerette
dal soffitto basso, dove probabilmente in origine dormiva la servitù.
I ricordi delle cose viste
allora per la prima volta (la città, i viali alberati, la neve, il traffico, i
negozi) conservano ancora oggi il sapore della meraviglia.
Il palazzo della Banca era come
un castello semideserto; aveva un immenso portone, un atrio cupo, grandi
scaloni e cantine profonde dalle cui finestrelle, al livello del marciapiede,
veniva una piacevole e misteriosa frescura che aveva odore di muffa.
Accanto al palazzo c’era una
drogheria da cui usciva un profumo di naftalina e di caffè. Il bottegaio, un
uomo alto e snello con baffetti scanzonati alla Errol Flynn, stava sulla porta
con indosso un elegante grembiule nero. Io lo guardavo con ammirazione e
ricordo il suo viso perfettamente.
Risalendo la strada verso via
Bissolati, a poche decine di metri, c’era la latteria di sor Gigi. Le latterie
come quella di sor Gigi sono state le antenate dei moderni bar, ma erano locali
più casalinghi, più famigliari e allegri, infinitamente più poveri, frequentati
dagli abitanti di un’unica strada o addirittura di un solo tratto di strada, e
avevano quell’odore di latte gradevole e conosciuto, che può essere confortante
come il profumo dei dolci fatti in casa. Sor Gigi aveva un viso rosso e lungo
solcato da venuzze, e degli occhi grigi dallo sguardo bonario. Era un tipo di
romano di cui non esiste più traccia. La sua parlata romanesca era cordiale,
semplice, spiritosa e piena di proverbi. Gli artigiani, gli operai e i bottegai
di Roma parlavano così un tempo, prima che la crescita stratosferica del
pubblico e privato impiegatume trasformasse il bel romanesco di Gioachino Belli
e di Ettore Petrolini in una noiosa e arrogante cantilena di frasi fatte.
La fame continuava a farsi
sentire. Mangiavamo molte scatole di fagioli dolci distribuite dagli americani.
Una volta nostro padre ci portò dalla mensa dei panini all’olio con burro e
acciughe: erano incartati come gioielli. Ma introducendomi un pezzo di pane in
bocca, vi infilai anche il dito pollice e detti un morso così energico che mi
provocai una ferita. La ferità si infettò e l’infezione si estese all’intero
dito fino all’unghia, che si staccò. Piagnucolando, pregavo la Madonna di farmi guarire
il dito.
Zia Francesca si ammalò di
tubercolosi e fu ricoverata per un anno in un sanatorio vicino Modena. Mio
padre distribuì i figli fra i parenti: Gigino e mia sorella andarono a Pescara,
da zia Nerina; io fui messo su una corriera diretta a Chieti.
Era l’estate del 1947, avevo
cinque anni.
Dopo un lungo viaggio che mi
sembrò bello e avventuroso, scesi dalla corriera in Piazza San Giustino,
immensa e deserta nella grande luce bianca del primo pomeriggio. Qualcuno che
era venuto a prendermi mi portò a casa di zio Nando.
Questo zio aveva 31 anni, era
tornato dalla guerra in Sicilia e aveva ora un negozio di abbigliamento. La sua prima moglie, che si trovava insieme a mia madre al
momento dell’incursione aerea (martedì 31 agosto, ore 13,20), morì con lei. (Io
e mio fratello Gigino ci salvammo solo perché protetti da un tavolo, sotto il
quale ci avevano nascosto).
Ora zio Nando abitava con la
seconda moglie quasi in campagna, sulle pendici del grande colle su cui è
adagiata Chieti, all’ultimo piano di una vecchia casa. La strada era ancora in
terra battuta e i ragazzi della zona camminavano scalzi. Venendo dalla luce
abbagliante di Piazza San Giustino, trovai da zio Nando e zia Maria un’oasi di
ombra verde.
Rimasi a Chieti, a casa loro,
un intero anno, fino all’autunno del 1948. Zia Maria, che non aveva figli, mi
voleva bene e mi teneva sempre con sé. Fino ad allora non avevo mai avuto un
rapporto così stretto, intimo e affettuoso con una persona adulta. Lei mi
faceva partecipare a tutto quello che faceva ed era vicina a me in ogni
momento. Fu col suo aiuto che imparai ad allacciarmi le scarpe. Zio Nando invece era brusco,
di poche parole e quasi sempre assente.
Tutto per me era nuovo e stupefacente.
Spesso zia Maria mi portava al negozio dello zio. Lo trovavamo quasi sempre a giocare a carte nel negozio accanto, un magazzino di mobili fresco, profondo e
misterioso, profumato di alcool per lucidare. Si trovava in Corso Marrucino, dove
passavano pochissime automobili e che nella sonnolenza dei pomeriggi estivi
sembrava una cartolina dell’Ottocento. Quando il caldo si attenuava e il Corso
cominciava ad animarsi di signore a passeggio, arrivava per noi il momento del
gelato, ricco di sapori e di colori.
A volte, la domenica, andavamo
al mare, a Pescara o a Francavilla. Si viaggiava allora, almeno per brevi
percorsi, su camionette. La gente, in piedi durante il tragitto di poco più di
mezz’ora, era allegra e cantava la bella canzone da poco arrivata dall’America “Brasil, meu Brasil brasileiro”,
che con il suo ritmo di samba era un inno alla gioia, un atto di
ringraziamento, un sognante canto nazionale, un richiamo del paradiso
terrestre.
Nell’inverno 1947-48 vissi per
la prima volta in mezzo alla neve, di cui avevo visto fino ad allora solo una
leggera spruzzata all’inizio dell’anno, a Roma, in Piazza Barberini. Chieti era
ancora una cittadina immacolata. Fuori del centro storico, alle pendici del
colle, c’erano solo case sparse a uno o due piani con i tetti spioventi, come
nei disegni dei bambini. La mattina che mi alzai e trovai il paesaggio e le
casette coperte di bianco non sapevo che stavo guardando uno spettacolo antico
come il presepe. Per me era naturale considerarlo una normale scena di vita
quotidiana, anche quando di sera vedevo la strada e i tetti coperti di neve
diventare d’un cupo azzurro. Perciò non potevo allora godere di quello
spettacolo come ne godo ora ricordandolo,
ora che posso dire di non aver mai più visto un paesaggio con la neve
così perfetto.
La primavera fu molto dolce.
Per le feste di Pasqua mia zia aveva fatto una grande torta a forma di cavallo,
con gli occhi di grige perline di zucchero. Ero ammalato e rimasi a letto per
molti giorni; la zia ogni mattina mi dava una grossa fetta di torta. Dalla
finestra aperta entravano la luce tenera e i rumori allegri della primavera.
Quando, tornato a Roma,
cominciai la scuola elementare, tutte le immagini convenzionali della campagna,
della neve, della primavera, del mare, che trovavo sui libri di lettura mi
richiamavano alla mente, anzi corrispondevano con precisione alle impressioni
avute in quell’anno meraviglioso passato a Chieti: il focolare acceso e gli
zampognari, l’agnello pasquale e il mandorlo in fiore, il suono delle campane e
il volo delle rondini.
Una volta gli zii mi portarono
a una festa di matrimonio in un antico palazzo nobiliare di Corso Marrucino. Mi
trovai in un grande appartamento con alti soffitti, finestroni con lunghe tende
rosse e, alle pareti, file di rosse sedie imbottite dagli alti schienali. C’era
tanta gente seduta su quelle sedie e i camerieri passavano cerimoniosamente a distribuire
fette di torta gelato.
Quando, molti anni dopo, lessi
“Mastro don Gesualdo” e “I Viceré”, nella mia memoria non trovai altre scene
che quella, per poter immaginare in modo
abbastanza vivo i palazzi e l’esistenza provinciale di quei nobili meridionali
di cui si raccontava la storia. E a quella lontana immagine ritorna sempre la
fantasticheria che faccio ogni volta che mi trovo in una cittadina del sud e
guardo i resti di una antica vita agiata e padronale: vecchie strade, vecchie
case, vecchie ringhiere.
(continua al post successivo)
(continua al post successivo)

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