La prima volta che vidi la nostra nuova casa in periferia,
assieme a mio padre e a mio fratello Gigino, fu un pomeriggio della fine di
settembre 1949.
Arrivammo in via Nomentana con
una camionetta (i filobus non erano stati ancora rimessi in funzione) e
scendemmo alla fermata prima della Chiesa di Santa Agnese, e poi mi parve di
scivolare dolcemente, beatamente, nel
sole di viale XXI Aprile, fino alle alte palme davanti all’immenso Palazzo
Federici, dove allora c’era un grande cinema che sin dal primo incontro mi
sembrò pieno di incanti.
Viale XXI Aprile, senza
traffico, senza segnaletica, senza cartelloni pubblicitari, senza supermercati,
senza cassonetti per le immondizie, era a quel tempo una linea geometrica pura
che aveva il nitore, l’evidenza e la forza delle belle vedute di città
realizzate dai grandi incisori del Seicento e del Settecento.
A metà del viale, proprio nel
punto dove c’era un chioschetto con le tendine colorate che vendeva granatine e
diffondeva all’intorno un’atmosfera di eterna vacanza, di gioco e di
felicità, svoltammo in via Famiano
Nardini, in direzione della ferrovia e dopo poche centinaia di metri trovammo
il nostro palazzo, quasi completamente circondato da prati e terreni incolti.
Alcune famiglie già vi si erano trasferite e sor Giovanni, il portiere, faceva
gli onori di casa agli impiegati, prossimi inquilini, che venivano finalmente a
vedere i loro appartamenti. Quando ridiscendemmo dal nostro quinto piano, il
sole era tramontato e il cortile, dove mio padre cominciò una lunga
chiacchierata col portiere, era già coperto dalla luce violacea della notte
incombente.
Sor Giovanni doveva avere
allora almeno quarantacinque anni. Era un bassotto rotondetto e anche la sua
testa calva era rotonda come una sfera. Negli anni che ho abitato nel palazzo
lo conobbi per un tipo chiacchierone e
un po’ impiccione. Non fu mai uno di quei portieri neutri e spettrali che
stanno intere mezze giornate immobili e silenziosi, quasi senza vita, nella
penombra delle loro guardiole, come mummie di santi in una nicchia. Lui era
invece un tipo pomposetto che camminava a testa alta, guardando tutti dal basso
in alto con un certo fiero cipiglio, come un soldato a una parata militare.
Voleva essere trattato dagli impiegati del palazzo da pari a pari. Ma quegli
impiegati, anche se erano quasi analfabeti e nel lavoro non sapevano fare
nient’altro che portare il caffè al loro direttore o un foglio di carta in giro
per gli uffici, entrando in Banca erano diventati ormai membri di una casta da
cui il portiere era escluso, benché conoscesse il difficile mestiere di sarto e
fosse personalmente superiore a loro. Povero sor Giovanni, quanti bocconi amari
dovette ingoiare! Ogni tanto si azzuffava, a parole, con qualche inquilino
particolarmente paranoico. Mio padre allora, che per il suo “saper fare” si era
subito distinto nella comunità condominiale come una specie di preside, lo
redarguiva bonariamente dandogli delle lezioni di vita: ‘mota quietare, quieta
non movere’. Ma, non conoscendo il latino, volgarizzava così: adattarsi,
adeguarsi, assecondare con sornioneria e, magari, quando era possibile farlo
senza correre rischi, fare il contrario di quello che gli inquilini più
litigiosi pretendevano. Forse sor Giovanni non aveva bisogno di queste
lezioncine; forse, senza essere né simpatico né interessante, poteva lui
insegnare qualcosa. Era un grandissimo lavoratore, a disposizione dalle sette
del mattino alle dieci di sera (questo era allora l’orario dei portieri) e
sudava sette camicie a tenere pulite ben cinque scale e lucidare ogni settimana
col Sidol tutti i corrimano di ottone. In fatto di pulizia, quella merdaglia di
impiegati era esigentissima!
Con me sor Giovanni fu sempre
cortese. Facevo la quinta ginnasiale quando mi chiese di aiutare la figlia
Roberta a preparare l’esame di riparazione di lingua francese. Andavo la
mattina nel loro appartamento seminterrato e studiavamo in un buio salottino.
Durante qualche pausa della lezione azionavo un carillon che suonava
tristemente la musica lamentosa di “Fontana di Trevi”. Roberta era una
ragazzona senza alcuna attrattiva e le lezioni si svolsero fino al giorno
dell’esame senza turbamenti. Sor Giovanni mi compensò con cinquemila lire. La
somma era così favolosa per me che, appena l’ebbi in tasca, girovagai in un
delirio di onnipotenza per un intero pomeriggio. In via Alessandria, fra Porta
Pia e Piazza Fiume, entrai in un piccolo negozio di libri usati e per poche
centinaia di lire comprai “Anatomia della felicità” di Martin Gumpert. Ne
ricordo ancora così bene il contenuto, che quel
negozietto di via Alessandria, il piacere di comprare un bel libro e quel
pomeriggio autunnale non mi sembrano affatto “più
lontani ormai dell’India e della Cina”, ma ancora vivi e recuperabili.
Sor Giovanni diventò per me un
personaggio di grande importanza quando cominciai, verso i sedici/diciassette
anni, a corrispondere con delle ragazze straniere. Lui non infilava le lettere
in arrivo nella cassetta postale di famiglia, di cui solo mio padre teneva la
chiave, ma le appoggiava sul bordo del tavolo della sua guardiola, ritte contro
la parete, in modo che io passando davanti potessi vederle al volo. E se io non
mi fermavo a prenderle, perché le lettere erano scivolate e si erano appiattite
sulla superficie del tavolo, diventando invisibili, sor Giovanni, vedendomi
passare, mi chiamava a gran voce. Quella di sor Giovanni era forse una
generosità impicciona, ma io gliene ero grato.
(continua al post successivo)

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