lunedì 21 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 9° Capitolo: "Difendiamo i portieri!".


La prima volta che  vidi la nostra nuova casa in periferia, assieme a mio padre e a mio fratello Gigino, fu un pomeriggio della fine di settembre 1949.
Arrivammo in via Nomentana con una camionetta (i filobus non erano stati ancora rimessi in funzione) e scendemmo alla fermata prima della Chiesa di Santa Agnese, e poi mi parve di scivolare dolcemente, beatamente,  nel sole di viale XXI Aprile, fino alle alte palme davanti all’immenso Palazzo Federici, dove allora c’era un grande cinema che sin dal primo incontro mi sembrò pieno di incanti.
Viale XXI Aprile, senza traffico, senza segnaletica, senza cartelloni pubblicitari, senza supermercati, senza cassonetti per le immondizie, era a quel tempo una linea geometrica pura che aveva il nitore, l’evidenza e la forza delle belle vedute di città realizzate dai grandi incisori del Seicento e del Settecento.
A metà del viale, proprio nel punto dove c’era un chioschetto con le tendine colorate che vendeva granatine e diffondeva all’intorno un’atmosfera di eterna vacanza, di gioco e di felicità,  svoltammo in via Famiano Nardini, in direzione della ferrovia e dopo poche centinaia di metri trovammo il nostro palazzo, quasi completamente circondato da prati e terreni incolti. Alcune famiglie già vi si erano trasferite e sor Giovanni, il portiere, faceva gli onori di casa agli impiegati, prossimi inquilini, che venivano finalmente a vedere i loro appartamenti. Quando ridiscendemmo dal nostro quinto piano, il sole era tramontato e il cortile, dove mio padre cominciò una lunga chiacchierata col portiere, era già coperto dalla luce violacea della notte incombente.
Sor Giovanni doveva avere allora almeno quarantacinque anni. Era un bassotto rotondetto e anche la sua testa calva era rotonda come una sfera. Negli anni che ho abitato nel palazzo lo conobbi per  un tipo chiacchierone e un po’ impiccione. Non fu mai uno di quei portieri neutri e spettrali che stanno intere mezze giornate immobili e silenziosi, quasi senza vita, nella penombra delle loro guardiole, come mummie di santi in una nicchia. Lui era invece un tipo pomposetto che camminava a testa alta, guardando tutti dal basso in alto con un certo fiero cipiglio, come un soldato a una parata militare. Voleva essere trattato dagli impiegati del palazzo da pari a pari. Ma quegli impiegati, anche se erano quasi analfabeti e nel lavoro non sapevano fare nient’altro che portare il caffè al loro direttore o un foglio di carta in giro per gli uffici, entrando in Banca erano diventati ormai membri di una casta da cui il portiere era escluso, benché conoscesse il difficile mestiere di sarto e fosse personalmente superiore a loro. Povero sor Giovanni, quanti bocconi amari dovette ingoiare! Ogni tanto si azzuffava, a parole, con qualche inquilino particolarmente paranoico. Mio padre allora, che per il suo “saper fare” si era subito distinto nella comunità condominiale come una specie di preside, lo redarguiva bonariamente dandogli delle lezioni di vita: ‘mota quietare, quieta non movere’. Ma, non conoscendo il latino, volgarizzava così: adattarsi, adeguarsi, assecondare con sornioneria e, magari, quando era possibile farlo senza correre rischi, fare il contrario di quello che gli inquilini più litigiosi pretendevano. Forse sor Giovanni non aveva bisogno di queste lezioncine; forse, senza essere né simpatico né interessante, poteva lui insegnare qualcosa. Era un grandissimo lavoratore, a disposizione dalle sette del mattino alle dieci di sera (questo era allora l’orario dei portieri) e sudava sette camicie a tenere pulite ben cinque scale e lucidare ogni settimana col Sidol tutti i corrimano di ottone. In fatto di pulizia, quella merdaglia di impiegati era esigentissima!
Con me sor Giovanni fu sempre cortese. Facevo la quinta ginnasiale quando mi chiese di aiutare la figlia Roberta a preparare l’esame di riparazione di lingua francese. Andavo la mattina nel loro appartamento seminterrato e studiavamo in un buio salottino. Durante qualche pausa della lezione azionavo un carillon che suonava tristemente la musica lamentosa di “Fontana di Trevi”. Roberta era una ragazzona senza alcuna attrattiva e le lezioni si svolsero fino al giorno dell’esame senza turbamenti. Sor Giovanni mi compensò con cinquemila lire. La somma era così favolosa per me che, appena l’ebbi in tasca, girovagai in un delirio di onnipotenza per un intero pomeriggio. In via Alessandria, fra Porta Pia e Piazza Fiume, entrai in un piccolo negozio di libri usati e per poche centinaia di lire comprai “Anatomia della felicità” di Martin Gumpert. Ne ricordo ancora così bene il contenuto, che quel negozietto di via Alessandria, il piacere di comprare un bel libro e quel pomeriggio autunnale non mi sembrano affatto “più lontani ormai dell’India e della Cina”, ma ancora vivi e recuperabili.
Sor Giovanni diventò per me un personaggio di grande importanza quando cominciai, verso i sedici/diciassette anni, a corrispondere con delle ragazze straniere. Lui non infilava le lettere in arrivo nella cassetta postale di famiglia, di cui solo mio padre teneva la chiave, ma le appoggiava sul bordo del tavolo della sua guardiola, ritte contro la parete, in modo che io passando davanti potessi vederle al volo. E se io non mi fermavo a prenderle, perché le lettere erano scivolate e si erano appiattite sulla superficie del tavolo, diventando invisibili, sor Giovanni, vedendomi passare, mi chiamava a gran voce. Quella di sor Giovanni era forse una generosità impicciona, ma io gliene ero grato.
                          (continua al post successivo)

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