A distanza di tanti anni, credo
di poter dire che già allora avevo slanci sentimentali che potevano far
immaginare che fossi destinato a diventare un nobile ragazzo pieno di cavalleresco
disinteresse. Ma prima che questa mia natura si consolidasse, verso i quindici
anni, passò ancora parecchio tempo; e prima
che io diventassi consapevole di essere un uomo che inseguiva più i
valori astratti che i vantaggi concreti, incurante di essere capito, perché appagato
dagli ‘ideali’, passò un’altra ventina d’anni.
Intanto, però, quando non avevo
ancora terminato la scuola elementare, lo spirito bottegaio che dominava nel
nostro condominio e in tutta la nostra comunità mi aveva tentato e conquistato,
spingendomi a realizzare piccoli guadagni grazie ad una intraprendenza
commerciale senza scrupoli, che si era rivelata improvvisamente per la prima
volta durante una vacanza in colonia a Fiuggi.
Di quella vacanza a Fiuggi (dovevo avere ormai dieci
anni) ricordo quasi tutto. Invece, di quella precedente a Pieve Fosciana, di
qualche anno prima, a parte la svendita della pistola ad acqua, ricordo solo
alcune scene isolate. Fra queste, l’inno religioso di tutte le colonie
d’Italia, che le monache ci avevano insegnato a cantare, “Dell’aurora tu sorgi più bella / coi tuoi raggi a far lieta la terra /
... / Bella tu sei qual sole, / bianca più della luna, / e le stelle le più
belle / non son belle al par di te”. Le monache, però, non si lasciavano
distrarre dall’esultanza di quegli inni e, con ingegnose e crudeli punizioni,
ci avevano insegnato una disciplina molto severa. Mio padre fu meravigliato e
compiaciuto, al mio ritorno a casa, che io avessi preso l’abitudine, quando
andavo a letto, di ripiegare i miei indumenti sulla sedia con scrupolosa esattezza.
Un ragazzo romano della mia
camerata, uno di quei ragazzini svegli già capaci a otto/nove anni di colpire
con uno sputo compatto un bersaglio a due metri di distanza, primeggiava fra
gli altri bambini della colonia, oltre che per questa sua ammirevole abilità,
perché quando irrigidiva il braccio, i muscoli si indurivano prendendo la forma
perfetta di una palla da tennis.
Per andare a Fiuggi mio padre
mi accompagnò una mattina al piazzale delle corriere e, mentre aspettava che le
signorine vigilatrici cominciassero a fare l’appello dei ragazzini in partenza,
mi dette come viatico un biglietto da cento lire.
Nella colonia di Fiuggi non
c’erano né monache né punizioni, ma vigevano egualmente delle regole di ferro.
Per esempio, quando nel pomeriggio riposavamo in camerata, dovevamo stare
sdraiati sul letto tutti sullo stesso fianco, in modo che ciascun ragazzo
vedesse solo la schiena del vicino.
Durante le passeggiate, che
facevamo inquadrati, se trovavamo una fontanella, era assolutamente proibito
bere. Camminare assetati sotto un sole bollente era un vero supplizio. Ma io a
Fiuggi avevo un amico, un ragazzo che abitava nel mio palazzo ed era in vacanza
con i suoi genitori, che erano nativi di Fiuggi e avevano lì una casa. Questo
ragazzo, Giancarlo, ci accompagnava nelle nostre passeggiate portando una
bottiglia d’acqua che passava a me. Io offrivo la bottiglia ai miei compagni di
squadra per dieci lire la bevuta (bevute brevi, s’intende). Quando la bottiglia
era vuota, Giancarlo, che non era legato
alla disciplina della nostra squadra, la riempiva alla prima fontanella.
Ripensando a questo episodio,
non sono stupito del mio comportamento (conosco ormai i momenti meschini della
mia vita), ma mi meraviglio piuttosto della remissività degli altri ragazzi,
che non solo non mi linciarono, ma nemmeno mi criticarono per la mia avidità.
Vedo nella loro remissività un segno che la disciplina e l’abitudine ad
obbedire erano davvero forti e opprimenti e avevano oscurato anche in loro la
generosità e il cameratismo. E’ per questo che, quando in una situazione
difficile spunta fuori un furbastro che vende a caro prezzo il conforto di un
attimo, la pecoraggine generale, indotta
da una disciplina stupida, non solo non si indigna, ma quasi ringrazia.
Cominciai così, vendendo
l’acqua, una attività commerciale che in tre settimane mi fece decuplicare le
cento lire del mio capitale. Trovai tutto straordinariamente facile. Compravo
giornalini a fumetti e li rivendevo per il doppio o per il triplo. Inoltre, come a Pieve Fosciana avevano gran
corso le cartine di caramelle, a Fiuggi erano molto richieste le lattine, cioè
i tappi a corona, delle bottigliette di birra e di altre bibite. Le lattine più
richieste erano quelle delle bevande più rare e che avevano una scritta o un
disegno originale e nuovo (le lattine della Birra Peroni, per esempio, così
comuni, non valevano niente. Oggi invece le guardo con simpatia, perché a
distanza di sessant’anni sono sempre uguali). Con questi tappi metallici si
giocava alle corse, facendoli schizzare in avanti con una schicchera (cioè con
un colpo secco dell’indice o del medio, che, compressi contro il pollice,
scattavano come una molla) su
piste disegnate col gesso sul marciapiede o scavate nella terra battuta.
Io abbellivo queste lattine e
ne aumentavo il valore appesantendole con qualche strato di sughero (tolto
dalle lattine meno belle), perché corressero più lontano, e inserendo
all’interno la faccia di un ciclista famoso, ritagliata dalle figurine, protetta
da un velo di carta trasparente oppure da un pezzetto di radiografia, fornitami
da Giancarlo, che io raschiavo per renderla più chiara. Dopo una lavorazione
così complessa, mettevo ogni lattina sul mercato per quindici lire.
Tornai a casa ricco come un pascià
e quando mi vantai con mio padre del mio spirito d’iniziativa, lui, benché
avesse un sommo rispetto per chi sapeva far fruttare il proprio capitale, si
fece consegnare tutta la somma.
A Fiuggi conobbi due fratelli
romani, Franco e Roberto, che dormivano nella mia camerata. Franco
aveva un anno meno di me e il fratello era ancora più piccolo. Roberto era un
tipo scontroso, Franco uno smilzo ragazzetto biondo e molle. Ricordo bene
anche i loro genitori, in visita alla colonia. Il padre era un aitante
impiegato di banca con modi e atteggiamenti da sportivo e uomo di mondo;
la madre, una bella donna procace, amante della conversazione salottiera.
Non ebbi nessuna vera amicizia
con Franco e l’avrei certamente dimenticato. Ma una decina di anni dopo lo
ritrovai alla Facoltà di lettere e ci riconoscemmo facilmente. Era diventato
uno spilungone, ma mi dava ancora l'impressione di essere un tipo scialbo e svagato. Passeggiavamo per i viali attorno all’Università; io parlavo
con un suo amico e lui camminava avanti, da solo. Il suo amico aveva gli occhi
scintillanti di vivacità e di arguzia e la barba così scura che, sebbene fosse
rasata, gli colorava le guance di blu. Parlava con una nettezza e una sincerità
divertenti e attraenti. Presto andai a vivere in un’altra città. Non ho più
rivisto l’amico; e Franco lo rividi una sola volta, poco tempo dopo. Ero a
Roma per far visita ai miei genitori e lo incontrai in una libreria di Piazzale
Flaminio, dove faceva il commesso.
Alla fine degli anni Sessanta
cominciai a leggere ogni tanto il suo nome sui giornali e
all’inizio dei Settanta apparve il suo primo romanzo. Da allora ho seguito da
lontano, con crescente meraviglia, la sua ascesa nel mondo della narrativa e della
critica. Ho cercato di leggere qualche suo
libro, ma vi ho dovuto rinunciare per la noia. Mi ha colpito, in qualche sua
intervista trovata in internet, lo sforzo costante di atteggiarsi, grazie a dei paradossi facili
facili, a dandy scanzonato ed estremista. Flaccidezze letterarie, chiamava questi atteggiamenti Luigi Russo.
(continua al post successivo)

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