Ci sono cose che
scompaiono senza quasi farsi notare. E
talvolta sono cose essenziali.
(Roberto
Calasso, L’impronta dell’editore)
Nell’autunno del 1949, quando
avevo sette anni, la mia famiglia si trasferì dal centro di Roma nei dintorni
di piazza Bologna, in via Oreste Tommasini, al limite della campagna.
La mia vita scolastica e, direi, storica,
cominciò da lì, in quell’anno.
Abitavamo in un grande
complesso formato da tre edifici, appena finiti di costruire e ancora profumati
di vernice e di calce, che erano separati ma collegati, all’altezza del primo
piano, da tre lunghe terrazze che lasciavano delle grandi aperture di luce. Il
cortile interno, perciò, non era lugubre come quasi tutti i cortili della nuova
Roma del dopoguerra, ma vasto e luminoso.
Gli inquilini erano quasi tutti
ex contadini, carrettieri e manovali che le vicende della guerra avevano
condotto a Roma da ogni parte d’Italia e soprattutto dal sud. La Banca, che li aveva assunti
come uscieri e impiegati d’ordine e fino a quel momento aveva loro assicurato
degli alloggi di fortuna in vari palazzi del centro, gli offriva adesso
finalmente una sistemazione stabile.
Le case dove abitavano ora,
costruite appositamente per loro, erano, per quasi tutti quegli impiegati, le
uniche case vere e moderne che avessero mai avuto, ed essi, non appena vi si furono
installati, dimenticando la loro vita stentata e il miserabile passato, cominciarono a sentirsi dei signori, a pavoneggiarsi e fare la voce grossa con chi
era rimasto in una condizione inferiore. La loro prima vittima fu il portiere,
sor Giovanni, un siciliano che in passato aveva fatto il sarto. Non lontano
dalla nostra strada, a Campo Artiglio, a Pietralata, lungo la via Nomentana,
c’erano villaggi di baracche o di casette abusive in mattoni, dove abitava un
sottoproletariato di romani, meridionali, toscani e umbri delle zone più
povere.
Gli impiegati del palazzo impararono
presto a disprezzarli. Quando, qualche anno più tardi, cominciò ad apparire su
qualcuna di quelle casupole l’antenna della televisione, dicevano: “Fanno finta
di essere poveri… però hanno anche la televisione!”.
Gli impiegati erano tutti
abbastanza giovani, fra i trenta e i quarant’anni. Ogni famiglia aveva almeno
tre figli, parecchie anche cinque o sei. Sui prati attorno a casa era sempre
sparsa una turba di ragazzi vivace, chiassosa e multicolore, divisa per sesso e
per età: bambini e bambine, ragazzi e
ragazze.
Delle mamme, nessuna lavorava:
badavano alla casa e alla famiglia. I padri erano tutti dipendenti della Banca e
si conoscevano bene, ma chi intrecciò i legami che trasformarono sessanta
famiglie in una comunità, non dico compatta e armoniosa, ma almeno ciarliera e
comunicativa, furono le donne e i ragazzi.
Le donne non si scambiavano
visite, ma si fermavano sempre a chiacchierare quando s’incontravano per
strada, nelle botteghe o fra i banchi del mercato, o quando s’incrociavano per
le scale o sul pianerottolo di casa.
Solo Anna Clementoni, che
allora aveva poco più di vent’anni, ed era fidanzata con Pippo, manovratore di
escavatrici, quasi ogni pomeriggio, specialmente d’inverno, andava in visita da
qualche famiglia. Si portava dietro un lenzuolo a cui fare l’orlo o una
tovaglia da ricamare, capi del suo corredo da sposa, e rimaneva fin quasi
all’ora di cena a raccontare episodi lontani della sua infanzia a
Castelgandolfo, mescolati con i fatti recenti della vita condominiale.
Quando Anna veniva a casa
nostra, noi eravamo molto lusingati. Provavamo una certa gelosia che lei
andasse più spesso da altri che da noi. Decideva lei quale famiglia beneficare,
secondo l’umore e le simpatie del momento, e si invitava da sé, spesso senza
nemmeno preavvertire, presentandosi direttamente nel primo pomeriggio con il
suo lavoro di cucito in mano, consapevole di essere un’ospite desiderata.
Io e mio fratello Gigino,
quando Anna Clementoni veniva da noi, rinunciavamo a scendere in strada, perché
ci piaceva quel raccoglimento domestico accanto alla stufa. Tutti quei discorsi
su fatti e particolari quasi sempre insignificanti, ma raccontati con
appassionata enfasi e scrupolo per i dettagli, ci avvincevano come delle
favole. Anna era una pettegola per autentica vocazione: raccontava storie
condominiali di intrighi e infedeltà con partecipazione e talento d’attrice, facendo
anche le voci dei dialoghi, disinvolta e innocente come se stesse spiegando la
ricetta di un dolce. Ogni tanto qualche famiglia rompeva i rapporti con lei e
Anna si teneva alla larga per qualche mese o qualche anno, ma poi ogni lite si
ricomponeva, sia perché gli offesi non avevano abbastanza carattere per
rimanere offesi a lungo, sia perché, in un arco ampio di tempo, si finiva per
attribuire ad Anna una specie di irresponsabilità e di immunità, riconoscendo
che nelle sue visite a domicilio, in fondo, era equanime e imparziale, dal momento
che lei, a turno, con ciascuno parlava male di tutti gli altri.
Raccontava, senza provare alcun
imbarazzo, anche gli aneddoti di scuola che avevano reso leggendaria la sua
ignoranza, anzi ridendone lei stessa, tranquillamente, come potrebbe ridere di
sé un chirurgo, consapevole della propria bravura, nell’ammettere di non saper
stirare le camicie.
I palazzi della Banca erano
quasi circondati da ampi spazi vuoti che verso l’esterno si allungavano a perdita
d’occhio. La città non avanzava a macchia d’olio ma a raggiera, e noi ci
trovavamo sulla punta estrema di una striscia di edifici che ci univa
all’abitato. La nostra strada era fiancheggiata da case solo su un lato, mentre
sul lato opposto c’erano vasti terreni abbandonati. Gli spazi intorno a noi non
erano veri prati né campi coltivati, ma aride distese di terra di riporto
estratta dai cantieri della zona e sparsa sulla campagna preesistente, sparita
sotto una crosta di almeno tre metri. Le poche graziose villette del principio
del secolo, con il motto latino sulla facciata (“Parva domus, magna quies”;
“Post laborem domi laetitia”) e il giardinetto davanti chiuso da un muretto di
cinta, semisoffocate da quella coltre di terra, si trovavano ora, dimenticate,
come in fondo a un pozzo, dove apparivano senza vita, come resti di un mondo
ormai andato in rovina.
Su quelle distese di terra non
c’erano alberi né siepi né tappeti d’erba, ma solo miseri e spinosi cespugli,
sassi, calcinacci, scarti di materiale da costruzione e rottami d’ogni genere.
Una mattina trovammo nel campo al di là della strada una automobile abbandonata
e per noi ragazzini fu una avventurosa novità entrarci dentro e immaginare di
guidarla. Chi era mai stato dentro un’automobile?
In primavera le piogge
formavano degli stagni profondi trenta/quaranta centimetri che si popolavano di
ranocchi e diventavano per settimane il centro di tutti i nostri giochi.
Una domenica di Pasqua, con un
gran sole abbagliante, io e mio fratello Gigino eravamo usciti presto di casa
con lo scopo dichiarato di andare a messa. Dovevamo attraversare dei campi
dov’era un ampio stagno, già a quell’ora affollato di ragazzi.
Chi catturava girini, chi dava
la caccia alle rane, chi provava a far veleggiare un pezzo di legno trasformato
in barchetta; altri cercavano di colpire a sassate un barattolo o una bottiglia
galleggiante o si avventuravano nell’acqua con le calosce. I più piccoli
giocavano con il fango e prelevavano acqua con un barattolo per fare un
laghetto minuscolo proprio a un metro dalla riva.
Ci fermammo anche noi e non
riuscimmo più a distaccarci. Il pensiero della messa ci tormentava, ma
rimandavamo di mezz’ora in mezz’ora. Venne l’ora di pranzo e, perduta l’ultima
messa, tornammo a casa come Pinocchi pentiti. Forse raccontammo una bugia o
forse il grande pragmatismo di nostro padre ci esonerò dal giustificarci. Lui
era più attento ed esigente sulle regole del nostro comportamento in casa che
sui principi.
Quando gli stagni si
asciugavano, rimaneva su un fondo screpolato di fango un’accozzaglia di
barattoli arrugginiti, di pietre, di scarpe, di bastoni d’ombrello, di cocci di
bottiglia, di pezzi di bambole mutilate e resti di infiniti altri oggetti
domestici.
Quegli spettacoli desolanti non
mi facevano alcuna impressione penosa. Di quel paesaggio lunare niente allora
mi appariva squallido. Anzi conservo ancora il ricordo di una bella emozione:
giocando intorno a una pozzanghera, in un giorno limpido e freddo, all’ora del
tramonto, rimasi sorpreso che l’acqua, per il riflesso del cielo, fosse
diventata una profonda voragine rossa e blu.
In uno di quei campi si apriva
un ampio fossato, e su una parete di questa minuscola valletta c’era una
piccola grotta profonda un metro o poco più, appena sufficiente per offrire un
riparo. Per un po’ di tempo vi trovammo un giaciglio fatto con coperte militari.
Eravamo curiosi di sorprendere il misterioso personaggio che vi passava la
notte e favoleggiavamo intorno alla sua persona.
Oltre alle due o tre villette
col motto latino sulla facciata, rimaste infossate nelle pieghe del terreno,
cresciuto di livello per la terra di riporto, in quell’arida distesa di campi
abbandonati sopravvivevano tre piccole isole della campagna di un tempo.
Su una modesta collina c’era
una vecchissima costruzione, forse un ex convento, che noi chiamavamo il
Casale. Vi abitavano parecchie famiglie, arrivate a Roma con la guerra, che vi
avevano trovato, più che un alloggio, un riparo. Gli impiegati del mio palazzo
si tenevano alla larga da quella marmaglia e anche noi figli non
fraternizzavamo con i loro ragazzacci.
Lalletto, figlio di un
muratore, era nella mia classe in quinta elementare. Aveva gli occhietti
spiritosi e parlava sempre in modo concitato con una vocina stridula.
Adamo, un bel giovanotto
calabrese, composto e sentimentale come erano i giovanotti nei primi anni
Cinquanta, faceva l’idraulico e si fidanzò presto con mia cugina Emilia, che
viveva con noi.
Elena era una ragazza bella
bruna e prosperosa ed era fidanzata con il fratello di Adamo, Dante, che faceva
il barbiere. Dante era bello come Amedeo Nazzari. Aveva uno sguardo nero e
scintillante come un tuareg del deserto e una voce profonda che dava una
impressione di forza.
Peppone era un ragazzone
innocuo che Roberto, il prepotente capo della nostra banda di figli di bancari,
aveva eletto a suo antagonista e che, ogni volta che lo incontrava, sfidava e
umiliava per farsi bello di fronte ai suoi seguaci.
C’era l’imprevedibile e lunatico Otello,
dalla zucca pelata, che noi canzonavamo prudentemente a distanza: “Otello, coda
d’agnello, coda di gatto, Otello il matto”.
Ai piedi della
tozza collina su cui sorgeva il Casale, c’era un’ampia grotta che l’attraversava da una
parte all’altra. Dentro la grotta si apriva un basso cunicolo da percorrere
carponi, che si diceva portasse alle catacombe di Sant’Agnese, distanti uno o
due chilometri.
Facemmo parecchi tentativi di
esplorazione lì dentro, impugnando torce fatte con copertoni di bicicletta, che
mandavano un fumo e un puzzo insopportabili. Nessuno però ebbe il coraggio di
spingersi troppo lontano dall’imboccatura.
L’uscita superiore della grotta
principale era proprio a un passo dal Casale. Per questa comoda vicinanza, la
grotta veniva usata dagli abitanti per i loro bisogni corporali, e per noi
esploratori fu sempre difficile tornare alla luce del sole con le scarpe
pulite.
Non lontano dal Casale c’era il
Piccolo Paradiso, una serie di campi di bocce digradanti a terrazze verso un
prato folto di erba altissima, sovrastato dall’alta crosta di terra di riporto.
Un lungo viale ghiaioso ombreggiato da acacie risaliva dai campi di bocce
all’osteria che li gestiva, su una piazzetta in terra battuta. Lungo il viale
si aprivano, fra gli alberi e le siepi, delle ampie nicchie coperte da
pergolati, rivestite di campanule e di sambuchi, con rustici tavolini per
mangiare all’aperto.
Risalendo verso l’abitato
s’incontrava la Montagnola,
una collina più alta e più larga di quella del Casale, coperta di orti e con in
cima la casa di un carbonaio. La strada asfaltata le finiva addosso e per
proseguire bisognava arrampicarsi lungo un sentierino e ridiscendere dall’altra
parte su un altro tronco di strada asfaltata. Quella collina così antica aveva
ora l’aspetto goffo e provvisorio di un intruso, messa proprio a metà di una
strada che sembrava incalzarla da ogni parte perché si togliesse di mezzo.
Il carbonaio aveva una figlia
florida e muscolosa, con i capelli biondi divisi in due trecce. Indossava
sempre una tuta da meccanico e guidava una motocicletta.
Tutti quei resti di un mondo
antico sparirono nel giro di pochissimi anni. I campi di bocce e la piazzetta
con l’osteria, il Casale e la grotta con i suoi misteriosi collegamenti fecero
posto a fitti palazzoni. E la collina del carbonaio fu rasa al suolo per aprire
al traffico via Ignazio Giorgi e altre due strade che l’incrociano.
Sopravvisse più a lungo,
invece, tutta la campagna al di là della ferrovia, che fu per noi ragazzi un
territorio di avventure e per i grandi un luogo di scampagnate.
Le linee per Firenze e il centro-nord
passavano a 300 metri
dal nostro palazzo, che per parecchi anni rimase l’edificio più avanzato, oltre
il quale c’erano solo campi vuoti cosparsi di rottami e calcinacci.
Da ragazzini, mentre eravamo a
letto, ascoltavamo con piacere i rumori della ferrovia: non solo i fischi dei
treni, ma anche il suono di sirene sconosciute, che sembrava un richiamo da
altri mondi.
La ferrovia e tutto il mondo
“al di là” erano a un livello più basso rispetto alla crosta di terra su cui
abitavamo. Passavano lunghissimi treni merci con oltre cinquanta vagoni che noi
ci divertivamo a contare.
Andare al di là della ferrovia
era come superare le Colonne d’Ercole del mondo che conoscevamo. Già
attraversare i binari era una operazione da batticuore, perché il transito era
abusivo. Non c’era ancora il cavalcavia che c’è oggi e nemmeno un semplice
passaggio a livello. I binari erano tantissimi, lucidi e scintillanti come
scimitarre, e i treni correvano veloci. Si passava per un punto obbligato,
scendendo un corto viottolo scavato dall’uso lungo la scarpata coperta di canne
e, attraversati i binari, ci si trovava in un mondo cinque metri più in basso.
Era una zona vasta e poco abitata. Ai pochi antichi residenti si erano aggiunti
operai e contadini immigrati dalle regioni del centro e del sud, che abitavano
in borghetti di case abusive e lavoravano in città come muratori, facchini,
donne di servizio.
Superato un largo spazio di
campi vuoti, dove scorreva a cielo aperto una grande marrana di acque putride e
puzzolenti, che io guardavo con lo
stupore con cui si ammira uno spettacolo orrido, si arrivava ad una stradina di
campagna che veniva dalla Stazione Tiburtina e portava a Monte Sacro. La prima
casa che s’incontrava era un’osteria dove si poteva mangiare all’aperto sotto
un pergolato.
In quel giardino facemmo il
pranzo della prima comunione mia e di mia sorella e passammo il pomeriggio a
mangiare fave. La comare Pina, vitale e sboccata, respingeva le proposte audaci
del brizzolato sor Luigi, dicendo che a lei le fave piacevano fresche.
Dietro l’osteria salivano
colline di prati verdi che rimasero ancora per anni meta di allegre
scampagnate.
(continua al post successivo)
(continua al post successivo)

Ho cominciato la lettura! Bello, mi piace. Questo primo capitolo è molto suggestivo.
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