domenica 20 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 1° Capitolo: "Periferia romana".



Ci sono cose che scompaiono senza quasi farsi notare. E talvolta sono cose essenziali.
          (Roberto Calasso, L’impronta dell’editore)
                                                


Nell’autunno del 1949, quando avevo sette anni, la mia famiglia si trasferì dal centro di Roma nei dintorni di piazza Bologna, in via Oreste Tommasini, al limite della campagna.
La mia vita scolastica e, direi, storica, cominciò da lì, in quell’anno.
Abitavamo in un grande complesso formato da tre edifici, appena finiti di costruire e ancora profumati di vernice e di calce, che erano separati ma collegati, all’altezza del primo piano, da tre lunghe terrazze che lasciavano delle grandi aperture di luce. Il cortile interno, perciò, non era lugubre come quasi tutti i cortili della nuova Roma del dopoguerra, ma vasto e luminoso.

Gli inquilini erano quasi tutti ex contadini, carrettieri e manovali che le vicende della guerra avevano condotto a Roma da ogni parte d’Italia e soprattutto dal sud. La Banca, che li aveva assunti come uscieri e impiegati d’ordine e fino a quel momento aveva loro assicurato degli alloggi di fortuna in vari palazzi del centro, gli offriva adesso finalmente una sistemazione stabile.
Le case dove abitavano ora, costruite appositamente per loro, erano, per quasi tutti quegli impiegati, le uniche case vere e moderne che avessero mai avuto, ed essi, non appena vi si furono installati, dimenticando la loro vita stentata e il miserabile passato,  cominciarono a sentirsi dei signori,  a pavoneggiarsi e fare la voce grossa con chi era rimasto in una condizione inferiore. La loro prima vittima fu il portiere, sor Giovanni, un siciliano che in passato aveva fatto il sarto. Non lontano dalla nostra strada, a Campo Artiglio, a Pietralata, lungo la via Nomentana, c’erano villaggi di baracche o di casette abusive in mattoni, dove abitava un sottoproletariato di romani, meridionali, toscani e umbri delle zone più povere.
Gli impiegati del palazzo impararono presto a disprezzarli. Quando, qualche anno più tardi, cominciò ad apparire su qualcuna di quelle casupole l’antenna della televisione, dicevano: “Fanno finta di essere poveri… però hanno anche la televisione!”.
Gli impiegati erano tutti abbastanza giovani, fra i trenta e i quarant’anni. Ogni famiglia aveva almeno tre figli, parecchie anche cinque o sei. Sui prati attorno a casa era sempre sparsa una turba di ragazzi vivace, chiassosa e multicolore, divisa per sesso e per età:  bambini e bambine, ragazzi e ragazze. 
Delle mamme, nessuna lavorava: badavano alla casa e alla famiglia. I padri erano tutti dipendenti della Banca e si conoscevano bene, ma chi intrecciò i legami che trasformarono sessanta famiglie in una comunità, non dico compatta e armoniosa, ma almeno ciarliera e comunicativa, furono le donne e i ragazzi.
Le donne non si scambiavano visite, ma si fermavano sempre a chiacchierare quando s’incontravano per strada, nelle botteghe o fra i banchi del mercato, o quando s’incrociavano per le scale o sul pianerottolo di casa.
Solo Anna Clementoni, che allora aveva poco più di vent’anni, ed era fidanzata con Pippo, manovratore di escavatrici, quasi ogni pomeriggio, specialmente d’inverno, andava in visita da qualche famiglia. Si portava dietro un lenzuolo a cui fare l’orlo o una tovaglia da ricamare, capi del suo corredo da sposa, e rimaneva fin quasi all’ora di cena a raccontare episodi lontani della sua infanzia a Castelgandolfo, mescolati con i fatti recenti della vita condominiale.
Quando Anna veniva a casa nostra, noi eravamo molto lusingati. Provavamo una certa gelosia che lei andasse più spesso da altri che da noi. Decideva lei quale famiglia beneficare, secondo l’umore e le simpatie del momento, e si invitava da sé, spesso senza nemmeno preavvertire, presentandosi direttamente nel primo pomeriggio con il suo lavoro di cucito in mano, consapevole di essere un’ospite desiderata.
Io e mio fratello Gigino, quando Anna Clementoni veniva da noi, rinunciavamo a scendere in strada, perché ci piaceva quel raccoglimento domestico accanto alla stufa. Tutti quei discorsi su fatti e particolari quasi sempre insignificanti, ma raccontati con appassionata enfasi e scrupolo per i dettagli, ci avvincevano come delle favole. Anna era una pettegola per autentica vocazione: raccontava storie condominiali di intrighi e infedeltà con  partecipazione e talento d’attrice, facendo anche le voci dei dialoghi, disinvolta e innocente come se stesse spiegando la ricetta di un dolce. Ogni tanto qualche famiglia rompeva i rapporti con lei e Anna si teneva alla larga per qualche mese o qualche anno, ma poi ogni lite si ricomponeva, sia perché gli offesi non avevano abbastanza carattere per rimanere offesi a lungo, sia perché, in un arco ampio di tempo, si finiva per attribuire ad Anna una specie di irresponsabilità e di immunità, riconoscendo che nelle sue visite a domicilio, in fondo, era equanime e imparziale, dal momento che lei, a turno, con ciascuno parlava male di tutti gli altri. 
Raccontava, senza provare alcun imbarazzo, anche gli aneddoti di scuola che avevano reso leggendaria la sua ignoranza, anzi ridendone lei stessa, tranquillamente, come potrebbe ridere di sé un chirurgo, consapevole della propria bravura, nell’ammettere di non saper stirare le camicie.

I palazzi della Banca erano quasi circondati da ampi spazi vuoti che verso l’esterno si allungavano a perdita d’occhio. La città non avanzava a macchia d’olio ma a raggiera, e noi ci trovavamo sulla punta estrema di una striscia di edifici che ci univa all’abitato. La nostra strada era fiancheggiata da case solo su un lato, mentre sul lato opposto c’erano vasti terreni abbandonati. Gli spazi intorno a noi non erano veri prati né campi coltivati, ma aride distese di terra di riporto estratta dai cantieri della zona e sparsa sulla campagna preesistente, sparita sotto una crosta di almeno tre metri. Le poche graziose villette del principio del secolo, con il motto latino sulla facciata (“Parva domus, magna quies”; “Post laborem domi laetitia”) e il giardinetto davanti chiuso da un muretto di cinta, semisoffocate da quella coltre di terra, si trovavano ora, dimenticate, come in fondo a un pozzo, dove apparivano senza vita, come resti di un mondo ormai andato in rovina.
Su quelle distese di terra non c’erano alberi né siepi né tappeti d’erba, ma solo miseri e spinosi cespugli, sassi, calcinacci, scarti di materiale da costruzione e rottami d’ogni genere. Una mattina trovammo nel campo al di là della strada una automobile abbandonata e per noi ragazzini fu una avventurosa novità entrarci dentro e immaginare di guidarla. Chi era mai stato dentro un’automobile?

In primavera le piogge formavano degli stagni profondi trenta/quaranta centimetri che si popolavano di ranocchi e diventavano per settimane il centro di tutti i nostri giochi.
Una domenica di Pasqua, con un gran sole abbagliante, io e mio fratello Gigino eravamo usciti presto di casa con lo scopo dichiarato di andare a messa. Dovevamo attraversare dei campi dov’era un ampio stagno, già a quell’ora affollato di ragazzi.
Chi catturava girini, chi dava la caccia alle rane, chi provava a far veleggiare un pezzo di legno trasformato in barchetta; altri cercavano di colpire a sassate un barattolo o una bottiglia galleggiante o si avventuravano nell’acqua con le calosce. I più piccoli giocavano con il fango e prelevavano acqua con un barattolo per fare un laghetto minuscolo proprio a un metro dalla riva.
Ci fermammo anche noi e non riuscimmo più a distaccarci. Il pensiero della messa ci tormentava, ma rimandavamo di mezz’ora in mezz’ora. Venne l’ora di pranzo e, perduta l’ultima messa, tornammo a casa come Pinocchi pentiti. Forse raccontammo una bugia o forse il grande pragmatismo di nostro padre ci esonerò dal giustificarci. Lui era più attento ed esigente sulle regole del nostro comportamento in casa che sui principi.
Quando gli stagni si asciugavano, rimaneva su un fondo screpolato di fango un’accozzaglia di barattoli arrugginiti, di pietre, di scarpe, di bastoni d’ombrello, di cocci di bottiglia, di pezzi di bambole mutilate e resti di infiniti altri oggetti domestici.
Quegli spettacoli desolanti non mi facevano alcuna impressione penosa. Di quel paesaggio lunare niente allora mi appariva squallido. Anzi conservo ancora il ricordo di una bella emozione: giocando intorno a una pozzanghera, in un giorno limpido e freddo, all’ora del tramonto, rimasi sorpreso che l’acqua, per il riflesso del cielo, fosse diventata una profonda voragine rossa e blu.
In uno di quei campi si apriva un ampio fossato, e su una parete di questa minuscola valletta c’era una piccola grotta profonda un metro o poco più, appena sufficiente per offrire un riparo. Per un po’ di tempo vi trovammo un giaciglio fatto con coperte militari. Eravamo curiosi di sorprendere il misterioso personaggio che vi passava la notte e favoleggiavamo intorno alla sua persona.

Oltre alle due o tre villette col motto latino sulla facciata, rimaste infossate nelle pieghe del terreno, cresciuto di livello per la terra di riporto, in quell’arida distesa di campi abbandonati sopravvivevano tre piccole isole della campagna di un tempo.
Su una modesta collina c’era una vecchissima costruzione, forse un ex convento, che noi chiamavamo il Casale. Vi abitavano parecchie famiglie, arrivate a Roma con la guerra, che vi avevano trovato, più che un alloggio, un riparo. Gli impiegati del mio palazzo si tenevano alla larga da quella marmaglia e anche noi figli non fraternizzavamo con i loro ragazzacci.
Lalletto, figlio di un muratore, era nella mia classe in quinta elementare. Aveva gli occhietti spiritosi e parlava sempre in modo concitato con una vocina stridula.
Adamo, un bel giovanotto calabrese, composto e sentimentale come erano i giovanotti nei primi anni Cinquanta, faceva l’idraulico e si fidanzò presto con mia cugina Emilia, che viveva con noi.
Elena era una ragazza bella bruna e prosperosa ed era fidanzata con il fratello di Adamo, Dante, che faceva il barbiere. Dante era bello come Amedeo Nazzari. Aveva uno sguardo nero e scintillante come un tuareg del deserto e una voce profonda che dava una impressione di forza.
Peppone era un ragazzone innocuo che Roberto, il prepotente capo della nostra banda di figli di bancari, aveva eletto a suo antagonista e che, ogni volta che lo incontrava, sfidava e umiliava per farsi bello di fronte ai suoi seguaci.
C’era l’imprevedibile e lunatico Otello, dalla zucca pelata, che noi canzonavamo prudentemente a distanza: “Otello, coda d’agnello, coda di gatto, Otello il matto”.
Ai piedi della tozza collina su cui sorgeva il Casale, c’era un’ampia grotta che l’attraversava da una parte all’altra. Dentro la grotta si apriva un basso cunicolo da percorrere carponi, che si diceva portasse alle catacombe di Sant’Agnese, distanti uno o due chilometri.
Facemmo parecchi tentativi di esplorazione lì dentro, impugnando torce fatte con copertoni di bicicletta, che mandavano un fumo e un puzzo insopportabili. Nessuno però ebbe il coraggio di spingersi troppo lontano dall’imboccatura.
L’uscita superiore della grotta principale era proprio a un passo dal Casale. Per questa comoda vicinanza, la grotta veniva usata dagli abitanti per i loro bisogni corporali, e per noi esploratori fu sempre difficile tornare alla luce del sole con le scarpe pulite.

Non lontano dal Casale c’era il Piccolo Paradiso, una serie di campi di bocce digradanti a terrazze verso un prato folto di erba altissima, sovrastato dall’alta crosta di terra di riporto. Un lungo viale ghiaioso ombreggiato da acacie risaliva dai campi di bocce all’osteria che li gestiva, su una piazzetta in terra battuta. Lungo il viale si aprivano, fra gli alberi e le siepi, delle ampie nicchie coperte da pergolati, rivestite di campanule e di sambuchi, con rustici tavolini per mangiare all’aperto.

Risalendo verso l’abitato s’incontrava la Montagnola, una collina più alta e più larga di quella del Casale, coperta di orti e con in cima la casa di un carbonaio. La strada asfaltata le finiva addosso e per proseguire bisognava arrampicarsi lungo un sentierino e ridiscendere dall’altra parte su un altro tronco di strada asfaltata. Quella collina così antica aveva ora l’aspetto goffo e provvisorio di un intruso, messa proprio a metà di una strada che sembrava incalzarla da ogni parte perché si togliesse di mezzo.
Il carbonaio aveva una figlia florida e muscolosa, con i capelli biondi divisi in due trecce. Indossava sempre una tuta da meccanico e guidava una motocicletta.
Tutti quei resti di un mondo antico sparirono nel giro di pochissimi anni. I campi di bocce e la piazzetta con l’osteria, il Casale e la grotta con i suoi misteriosi collegamenti fecero posto a fitti palazzoni. E la collina del carbonaio fu rasa al suolo per aprire al traffico via Ignazio Giorgi e altre due strade che l’incrociano.

Sopravvisse più a lungo, invece, tutta la campagna al di là della ferrovia, che fu per noi ragazzi un territorio di avventure e per i grandi un luogo di scampagnate.
Le linee per Firenze e il centro-nord passavano a 300 metri dal nostro palazzo, che per parecchi anni rimase l’edificio più avanzato, oltre il quale c’erano solo campi vuoti cosparsi di rottami e calcinacci.
Da ragazzini, mentre eravamo a letto, ascoltavamo con piacere i rumori della ferrovia: non solo i fischi dei treni, ma anche il suono di sirene sconosciute, che sembrava un richiamo da altri mondi.
La ferrovia e tutto il mondo “al di là” erano a un livello più basso rispetto alla crosta di terra su cui abitavamo. Passavano lunghissimi treni merci con oltre cinquanta vagoni che noi ci divertivamo a contare.
Andare al di là della ferrovia era come superare le Colonne d’Ercole del mondo che conoscevamo. Già attraversare i binari era una operazione da batticuore, perché il transito era abusivo. Non c’era ancora il cavalcavia che c’è oggi e nemmeno un semplice passaggio a livello. I binari erano tantissimi, lucidi e scintillanti come scimitarre, e i treni correvano veloci. Si passava per un punto obbligato, scendendo un corto viottolo scavato dall’uso lungo la scarpata coperta di canne e, attraversati i binari, ci si trovava in un mondo cinque metri più in basso. Era una zona vasta e poco abitata. Ai pochi antichi residenti si erano aggiunti operai e contadini immigrati dalle regioni del centro e del sud, che abitavano in borghetti di case abusive e lavoravano in città come muratori, facchini, donne di servizio.
Superato un largo spazio di campi vuoti, dove scorreva a cielo aperto una grande marrana di acque putride e puzzolenti, che io  guardavo con lo stupore con cui si ammira uno spettacolo orrido, si arrivava ad una stradina di campagna che veniva dalla Stazione Tiburtina e portava a Monte Sacro. La prima casa che s’incontrava era un’osteria dove si poteva mangiare all’aperto sotto un pergolato.
In quel giardino facemmo il pranzo della prima comunione mia e di mia sorella e passammo il pomeriggio a mangiare fave. La comare Pina, vitale e sboccata, respingeva le proposte audaci del brizzolato sor Luigi, dicendo che a lei le fave piacevano fresche.

Dietro l’osteria salivano colline di prati verdi che rimasero ancora per anni meta di allegre scampagnate.
                            (continua al post successivo)
                           

1 commento:

  1. Ho cominciato la lettura! Bello, mi piace. Questo primo capitolo è molto suggestivo.

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