La domenica, già prima di
pranzo, io e i miei fratelli intonavamo una litania che nostro padre, enigmatico
come un mandarino cinese, rendeva necessaria, anche se non di sicuro effetto:
“Papà, ci mandi al cinema... papà, ci mandi al cinema... papà, ci mandi al
cinema”. Mio padre non era irritato da questa lagna, anzi la sopportava con
benevolenza, ma non si sbilanciava mai né a promettere né a rifiutare. E noi,
fino all’ultimo momento, non potevamo mai capire se le nostre suppliche
sarebbero servite a convincerlo. Lui continuava a fare le cosette in cui era
affaccendato oppure, dopo mangiato, si sdraiava sul letto e anche mentre
sonnecchiava continuava a schermirsi: “Vedremo, vedremo, vedremo”. Le nostre
litanie avevano successo nel trenta/quaranta per cento dei casi. Tutte le altre
volte mio padre resisteva, senza mai dire un no netto e definitivo, fino al
punto che noi, scoraggiati finalmente dalla sua flemma, rinunciavamo al nostro progetto
cinematografico e ci dedicavamo con rassegnazione a qualche attività casalinga.
Non era solo il costo dei biglietti che sconsigliava nostro padre dal mandarci
al cinema, ma anche la convinzione che il concedere poco e con il contagocce
rafforzasse la sua autorità, a cui teneva moltissimo (aveva perfino preteso che
Gigino e Emilia, i più grandicelli della famiglia, gli dessero del voi) e fosse
un principio fondamentale di una educazione sana, per far crescere i figli
sobri docili e ubbidienti.
Andavamo al cinema Livorno, una
sala parrocchiale che in origine era stata pensata come un refettorio.
Apparteneva alla nostra chiesa, Santa Francesca Cabrini, e si trovava al piano
seminterrato della scuola annessa, gestita dai padri maristi. Era aperto appena
tre giorni alla settimana. Alla cassa, il pomeriggio della domenica, a
fronteggiare le orde di ragazzi, c’erano i coniugi Proietti, due parrocchiani
volenterosi che abitavano nel palazzo accanto al nostro. Avevano in casa decine
di romanzi di Emilio Salgari, che il figlio Remo ci prestava regolarmente, uno
dopo l’altro, a me e a Gigino.
La mamma troneggiava dietro una
cassa costruita alla buona. Aveva i capelli grigi lunghi e lisci di una
penitente e delle gambone enormi e gonfie. Con i ragazzi era chiacchierona e
materna. Il padre, invece, alto e magro, aveva una simpatica faccia
canzonatoria e la parlata romanesca. Stava accanto alla cassa e vendeva
cartocci di bruscolini e sacchetti di noccioline americane, mentre disciplinava
con energia l’ingresso dei ragazzi in sala. Erano frequenti anche i suoi
interventi, fra un tempo e l’altro del film, per sedare qualche tafferuglio e
per spruzzare in aria, al di sopra delle teste degli spettatori, un profumo che
rendesse l’aria un po’ meno irrespirabile. Nel complesso sembrava di essere ad
una grande festa scolastica. Dopo l’apertura della cassa, in pochi minuti il
cinema si riempiva completamente e appena si spegnevano le luci si faceva un
silenzio assoluto.
Il cinema era
allora la grande attrazione e la
grande evasione di tutti i ragazzi. Non esistevano per
noi film brutti, ci piacevano tutti e li vedevamo almeno due volte.
Era triste tornare a casa dopo
lo spettacolo e staccarci dal mondo fantastico del film. Tanti racconti americani
degli anni Cinquanta si svolgevano in belle case con salotti accoglienti e
rassicuranti, ampi e morbidi divani e grandi lampade negli angoli che
diffondevano una luce calda e affettuosa. Questi ambienti rappresentavano
allora per noi un ideale di vita famigliare.
A casa c’era ancora qualche
compito di scuola da fare in fretta e poi cenavamo sul freddo tavolo di marmo,
senza tovaglia. Portavo ancora i pantaloni corti e le sedie della cucina erano
gelide. Mio padre ci ammanniva, accanto a una buona frittata cucinata da zia
Francesca, un contorno di fette d’arancia con zucchero e una goccia d’olio.
Poiché avevamo, come unico
riscaldamento, solo una stufa di terracotta nel corridoio, che verso l’ora di
cena smetteva di funzionare, prima di infilarci nel letto stendevamo i nostri
cappotti sulle coperte troppo leggere.
Dopo che si fu fidanzata con
Adamo, Emilia cominciò ad avere un po’ di libertà. Mio padre, con la sua
passione di fissare un regolamento per ogni attività, consentì che Emilia
uscisse col fidanzato solo la domenica pomeriggio e permise ad Adamo di venire
a casa nostra il giovedì sera.
D’estate Adamo si presentava a
casa nostra con le mani piene di gelati Àlgida, i favolosi cremini, che per noi
erano del tutto sconosciuti. Volevamo bene ad Adamo. Aveva la pelle scura e gli
occhi lucidi e brillanti, come un arabo. Era forse un operaio limitato, però
era mite, gentile, timido e corretto.
A quel tempo agli amanti poveri
come loro, che uscivano solo di giorno e non avevano il permesso di passeggiare
sotto la luna nei vialetti oscuri dei giardini romani, la domenica non rimaneva
che andare al cinema, che era, del resto, il passatempo della maggior parte dei
fidanzati.
Di ritorno a casa, Emilia, se
dopo cena aveva tempo, si sedeva su uno sgabello nel piccolo corridoio fra il
mio letto e quello di Gigino e, mentre lavorava a maglia, ci raccontava il film
che aveva appena visto. Noi cugini, in fondo, conoscevamo poco Emilia. Era una
ragazza snella con dei lunghi capelli biondi, silenziosa, mite e introversa.
Non sapevamo quasi niente di lei e lei non ci faceva partecipe dei suoi
pensieri. Fu una sorpresa scoprire, quando lei aveva già una ventina d’anni,
che, nonostante la sua lunga convivenza con noi, aveva delle tenaci simpatie
fasciste. In realtà ci saremmo dovuti commuovere nel constatare la fedeltà del
suo cuore sensibile al proprio padre, benché balordo e snaturato, e alle idee,
o anche ai pregiudizi, della sua antica famiglia. E ci saremmo dovuti sentire
in colpa per averla tenuta a distanza, come una serva, e condannata ad una
crudele solitudine.
Emilia raccontava i film con
partecipazione, senza trascurare né i personaggi minori né le scene marginali.
Si immedesimava a tal punto, che le veniva spontaneo, a lei ragazza timida,
imitare anche le voci. Raccontava tutto, perché tutto le era piaciuto, e
riusciva a collegare ogni fatterello secondario alla storia principale in modo
chiaro e vivace. Ogni tanto, per riprendere il filo di una vicenda collaterale,
come nei romanzi popolari diceva: “Ora dobbiamo fare un passo indietro”. Una
serata non bastava per raccontare un intero film.
A volte, d’estate, Adamo ci
prestava, a me e a Gigino, un tesserino, in dotazione alle guardie di finanza,
con cui si poteva andare al cinema gratis. Apparteneva ad Ernesto, fratello di
Raffaele, che era il marito di Assunta, sorella di Adamo. (Ecco come sono le
famiglie italiane: appena escono da una condizione di bisogno e dispongono di
qualcosa di superfluo, subito si trasformano in consorterie. In anni
successivi, in un periodo in cui vigeva una tessera tranviaria senza foto del
titolare, mio padre prestava la propria tessera a tutto il parentado. Io, già
adulto, gli chiedevo: “Spiegami un po’: ma allora chi è che dovrebbe pagare il
biglietto di tasca propria?”. A quell’epoca però, mentre avevamo quella
miracolosa tessera cinematografica in tasca, questi scrupoli nemmeno ci
sfioravano).
Io e Gigino uscivamo
trionfalmente di casa verso le due del pomeriggio. Il sole sfolgorava sulle
strade deserte. Il lucido selciato di sampietrini della nostra via lanciava
bagliori di fuoco e l’asfalto del marciapiede era molle e cedevole sotto le
nostre scarpe. Con una camminata piena di slancio (eravamo così magri e
vigorosi!) arrivavamo fino al cinema-varietà Ambra-Jovinelli, vicino alla Stazione
Termini e ne uscivamo solo verso l’ora del tramonto. Anche il ritorno a casa
era felice, nella sera addolcita dal lieve venticello romano. Con gli spiccioli
risparmiati del tram compravamo un gelato o una fetta di cocomero in Piazza
Indipendenza. Era ancora bello, allora, passeggiare per la città. Roma era
ancora popolare e aristocratica nello stesso tempo. Nelle strade attorno a
Piazza Indipendenza intere famiglie cenavano, con le vivande portate da casa,
ai tavolini delle osterie, sui marciapiedi. Poi, superato Castro Pretorio, ci
immergevamo nelle stradine tranquille che da Piazza della Croce Rossa
scendevano verso Villa Massimo e Viale XXI Aprile. I palazzotti e i villini
signorili del primo Novecento erano circondati da palme, cespugli d’alloro e
cascate di glicine e avevano portoni austeri e tetri, illuminati dalla fioca luce di un affascinante oltretomba.
Eravamo innamorati del cinema
non solo perché era il divertimento più economico, ma soprattutto perché i
personaggi, le musiche, i paesaggi, le cavalcate, i duelli ci facevano sognare.
Anche solo il movimento e il susseguirsi veloce delle scene erano emozionanti.
Il cinema, quando non avevamo ancora scoperto la lettura dei grandi romanzi,
era l’unico rimedio contro la monotonia della vita quotidiana.
In seconda o terza elementare,
una volta che ricevetti dalla maestra Camilli il fiocco di capoclasse, mio
padre mi premiò lasciandomi andare tutto solo al cinema XXI Aprile.
Proiettavano “Pancho Villa il bandito”. Alle nove di sera ero ancora lì a vedere la terza o quarta replica. Ad un
tratto, nel buio della sala, sentii la voce di mio padre che, preoccupato, era
venuto a cercarmi. “Siediti, papà, - gli dissi – guarda quant’è bello”.
Il “XXI Aprile” era il più bel
cinema di tutto il quartiere Italia-Nomentano. Quando fu trasformato in un
supermercato, quanti ricordi andarono perduti! Proprio lì, verso i dieci anni,
mentre guardavo “Il Capitano di Castiglia”, stretto in piedi fra una folla silenziosa
e rapita, durante il combattimento finale fra Tyrone Power e il suo
antagonista, rosicchiai l’orlo del mio basco per tutta la sua circonferenza,
fino a renderlo inservibile.
Un periodo felice furono alcune
settimane d’estate che io e Gigino, quando forse frequentavo ancora le scuole
elementari, passammo soli con nostro padre. Tutto il resto della famiglia era
andato a Chieti, a casa della nonna. A
Roma rimanemmo noi tre, liberi e squattrinati. Mio padre, che amministrava una
modestissima società di mutuo soccorso fra colleghi sparsi fra varie filiali
romane, chiese per telefono a Gaetano
Principato se poteva pagare un suo debito di 1100 lire e nel pomeriggio mi
spedì a ritirare il denaro in via Lucrino, dove don Gaetano abitava con la
bella moglie iugoslava. Inoltre, considerata la situazione di emergenza, ruppe il salvadanaio che aveva costruito
qualche tempo prima, scavando con scalpello e martello una profonda nicchia nel
muro maestro di casa. Con quei risparmi potemmo permetterci di andare tutti
insieme al cinema due o tre sere a settimana. Facevamo delle belle camminate
notturne per andare a vedere “Ombre rosse”, al Trieste, cinema pidocchietto in
piazza Annibaliano; “La collana insanguinata”, al cinema parrocchiale
Sant’Ippolito, in viale delle Province; “Sinbad il marinaio”, al Fogliano,
oltre viale Eritrea; “Il delfino verde”, al XXI Aprile; “Gli invincibili”,
all’Atlante, pidocchietto sulla via Tiburtina. Furono indimenticabili momenti
di libertà, di sogno e di amicizia con nostro padre.
La mattina io e Gigino eravamo
soli e liberi. Spesso veniva da noi Giuseppe Ferrara, che abitava nella nostra
stessa palazzina. Lui e Gigino volevano scrivere insieme un romanzo
d’avventure. Qualche volta venivano, assieme a Giuseppe, altri due o tre
ragazzi del palazzo per giocare a tressette.
Giuseppe era un po’ più grande
di mio fratello. In quella estate di cui parlo doveva avere sedici anni. Era un
ragazzo alto e magro, con un viso lungo e sottile e una espressione mite e
pronta al sorriso. Aveva un gran ciuffo di capelli ondulati che si alzava sulla
sua fronte come una scaletta di quattro o cinque gradini e portava sempre delle
camicie con dei grandi colletti larghi e aperti, come i bambini
dell’asilo. Non c’erano ragazzi come lui
nel palazzo. Aveva un aspetto buffo, ma sapeva farsi rispettare. Benché
partecipasse a tutti i giochi di strada, si sentiva che per lui quei giochi
erano solo una distrazione momentanea da occupazioni più serie.
Purtroppo, a soli diciassette
anni, Giuseppe morì di peritonite.
(continua al post successivo)

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