martedì 22 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 14° Capitolo: "Meraviglioso cinema".


La domenica, già prima di pranzo, io e i miei fratelli intonavamo una litania che nostro padre, enigmatico come un mandarino cinese, rendeva necessaria, anche se non di sicuro effetto: “Papà, ci mandi al cinema... papà, ci mandi al cinema... papà, ci mandi al cinema”. Mio padre non era irritato da questa lagna, anzi la sopportava con benevolenza, ma non si sbilanciava mai né a promettere né a rifiutare. E noi, fino all’ultimo momento, non potevamo mai capire se le nostre suppliche sarebbero servite a convincerlo. Lui continuava a fare le cosette in cui era affaccendato oppure, dopo mangiato, si sdraiava sul letto e anche mentre sonnecchiava continuava a schermirsi: “Vedremo, vedremo, vedremo”. Le nostre litanie avevano successo nel trenta/quaranta per cento dei casi. Tutte le altre volte mio padre resisteva, senza mai dire un no netto e definitivo, fino al punto che noi, scoraggiati finalmente dalla sua flemma,  rinunciavamo al nostro progetto cinematografico e ci dedicavamo con rassegnazione a qualche attività casalinga. Non era solo il costo dei biglietti che sconsigliava nostro padre dal mandarci al cinema, ma anche la convinzione che il concedere poco e con il contagocce rafforzasse la sua autorità, a cui teneva moltissimo (aveva perfino preteso che Gigino e Emilia, i più grandicelli della famiglia, gli dessero del voi) e fosse un principio fondamentale di una educazione sana, per far crescere i figli sobri docili e ubbidienti.

Andavamo al cinema Livorno, una sala parrocchiale che in origine era stata pensata come un refettorio. Apparteneva alla nostra chiesa, Santa Francesca Cabrini, e si trovava al piano seminterrato della scuola annessa, gestita dai padri maristi. Era aperto appena tre giorni alla settimana. Alla cassa, il pomeriggio della domenica, a fronteggiare le orde di ragazzi, c’erano i coniugi Proietti, due parrocchiani volenterosi che abitavano nel palazzo accanto al nostro. Avevano in casa decine di romanzi di Emilio Salgari, che il figlio Remo ci prestava regolarmente, uno dopo l’altro, a me e a Gigino.   
La mamma troneggiava dietro una cassa costruita alla buona. Aveva i capelli grigi lunghi e lisci di una penitente e delle gambone enormi e gonfie. Con i ragazzi era chiacchierona e materna. Il padre, invece, alto e magro, aveva una simpatica faccia canzonatoria e la parlata romanesca. Stava accanto alla cassa e vendeva cartocci di bruscolini e sacchetti di noccioline americane, mentre disciplinava con energia l’ingresso dei ragazzi in sala. Erano frequenti anche i suoi interventi, fra un tempo e l’altro del film, per sedare qualche tafferuglio e per spruzzare in aria, al di sopra delle teste degli spettatori, un profumo che rendesse l’aria un po’ meno irrespirabile. Nel complesso sembrava di essere ad una grande festa scolastica. Dopo l’apertura della cassa, in pochi minuti il cinema si riempiva completamente e appena si spegnevano le luci si faceva un silenzio assoluto.
Il cinema era   allora la grande  attrazione e la grande  evasione di tutti i ragazzi.  Non esistevano  per  noi film brutti, ci piacevano tutti e li vedevamo almeno due volte.
Era triste tornare a casa dopo lo spettacolo e staccarci dal mondo fantastico del film. Tanti racconti americani degli anni Cinquanta si svolgevano in belle case con salotti accoglienti e rassicuranti, ampi e morbidi divani e grandi lampade negli angoli che diffondevano una luce calda e affettuosa. Questi ambienti rappresentavano allora per noi un ideale di vita famigliare.
A casa c’era ancora qualche compito di scuola da fare in fretta e poi cenavamo sul freddo tavolo di marmo, senza tovaglia. Portavo ancora i pantaloni corti e le sedie della cucina erano gelide. Mio padre ci ammanniva, accanto a una buona frittata cucinata da zia Francesca, un contorno di fette d’arancia con zucchero e una goccia d’olio.
Poiché avevamo, come unico riscaldamento, solo una stufa di terracotta nel corridoio, che verso l’ora di cena smetteva di funzionare, prima di infilarci nel letto stendevamo i nostri cappotti sulle coperte troppo leggere.
Dopo che si fu fidanzata con Adamo, Emilia cominciò ad avere un po’ di libertà. Mio padre, con la sua passione di fissare un regolamento per ogni attività, consentì che Emilia uscisse col fidanzato solo la domenica pomeriggio e permise ad Adamo di venire a casa nostra il giovedì sera.
D’estate Adamo si presentava a casa nostra con le mani piene di gelati Àlgida, i favolosi cremini, che per noi erano del tutto sconosciuti. Volevamo bene ad Adamo. Aveva la pelle scura e gli occhi lucidi e brillanti, come un arabo. Era forse un operaio limitato, però era mite, gentile, timido e corretto.
A quel tempo agli amanti poveri come loro, che uscivano solo di giorno e non avevano il permesso di passeggiare sotto la luna nei vialetti oscuri dei giardini romani, la domenica non rimaneva che andare al cinema, che era, del resto, il passatempo della maggior parte dei fidanzati.
Di ritorno a casa, Emilia, se dopo cena aveva tempo, si sedeva su uno sgabello nel piccolo corridoio fra il mio letto e quello di Gigino e, mentre lavorava a maglia, ci raccontava il film che aveva appena visto. Noi cugini, in fondo, conoscevamo poco Emilia. Era una ragazza snella con dei lunghi capelli biondi, silenziosa, mite e introversa. Non sapevamo quasi niente di lei e lei non ci faceva partecipe dei suoi pensieri. Fu una sorpresa scoprire, quando lei aveva già una ventina d’anni, che, nonostante la sua lunga convivenza con noi, aveva delle tenaci simpatie fasciste. In realtà ci saremmo dovuti commuovere nel constatare la fedeltà del suo cuore sensibile al proprio padre, benché balordo e snaturato, e alle idee, o anche ai pregiudizi, della sua antica famiglia. E ci saremmo dovuti sentire in colpa per averla tenuta a distanza, come una serva, e condannata ad una crudele solitudine.
Emilia raccontava i film con partecipazione, senza trascurare né i personaggi minori né le scene marginali. Si immedesimava a tal punto, che le veniva spontaneo, a lei ragazza timida, imitare anche le voci. Raccontava tutto, perché tutto le era piaciuto, e riusciva a collegare ogni fatterello secondario alla storia principale in modo chiaro e vivace. Ogni tanto, per riprendere il filo di una vicenda collaterale, come nei romanzi popolari diceva: “Ora dobbiamo fare un passo indietro”. Una serata non bastava per raccontare un intero film.
A volte, d’estate, Adamo ci prestava, a me e a Gigino, un tesserino, in dotazione alle guardie di finanza, con cui si poteva andare al cinema gratis. Apparteneva ad Ernesto, fratello di Raffaele, che era il marito di Assunta, sorella di Adamo. (Ecco come sono le famiglie italiane: appena escono da una condizione di bisogno e dispongono di qualcosa di superfluo, subito si trasformano in consorterie. In anni successivi, in un periodo in cui vigeva una tessera tranviaria senza foto del titolare, mio padre prestava la propria tessera a tutto il parentado. Io, già adulto, gli chiedevo: “Spiegami un po’: ma allora chi è che dovrebbe pagare il biglietto di tasca propria?”. A quell’epoca però, mentre avevamo quella miracolosa tessera cinematografica in tasca, questi scrupoli nemmeno ci sfioravano).
Io e Gigino uscivamo trionfalmente di casa verso le due del pomeriggio. Il sole sfolgorava sulle strade deserte. Il lucido selciato di sampietrini della nostra via lanciava bagliori di fuoco e l’asfalto del marciapiede era molle e cedevole sotto le nostre scarpe. Con una camminata piena di slancio (eravamo così magri e vigorosi!) arrivavamo fino al cinema-varietà Ambra-Jovinelli, vicino alla Stazione Termini e ne uscivamo solo verso l’ora del tramonto. Anche il ritorno a casa era felice, nella sera addolcita dal lieve venticello romano. Con gli spiccioli risparmiati del tram compravamo un gelato o una fetta di cocomero in Piazza Indipendenza. Era ancora bello, allora, passeggiare per la città. Roma era ancora popolare e aristocratica nello stesso tempo. Nelle strade attorno a Piazza Indipendenza intere famiglie cenavano, con le vivande portate da casa, ai tavolini delle osterie, sui marciapiedi. Poi, superato Castro Pretorio, ci immergevamo nelle stradine tranquille che da Piazza della Croce Rossa scendevano verso Villa Massimo e Viale XXI Aprile. I palazzotti e i villini signorili del primo Novecento erano circondati da palme, cespugli d’alloro e cascate di glicine e avevano portoni austeri e tetri, illuminati dalla fioca luce di un affascinante oltretomba.         
Eravamo innamorati del cinema non solo perché era il divertimento più economico, ma soprattutto perché i personaggi, le musiche, i paesaggi, le cavalcate, i duelli ci facevano sognare. Anche solo il movimento e il susseguirsi veloce delle scene erano emozionanti. Il cinema, quando non avevamo ancora scoperto la lettura dei grandi romanzi, era l’unico rimedio contro la monotonia della vita quotidiana.
In seconda o terza elementare, una volta che ricevetti dalla maestra Camilli il fiocco di capoclasse, mio padre mi premiò lasciandomi andare tutto solo al cinema XXI Aprile. Proiettavano “Pancho Villa il bandito”. Alle nove di sera ero ancora lì a  vedere la terza o quarta replica. Ad un tratto, nel buio della sala, sentii la voce di mio padre che, preoccupato, era venuto a cercarmi. “Siediti, papà, - gli dissi – guarda quant’è bello”.
Il “XXI Aprile” era il più bel cinema di tutto il quartiere Italia-Nomentano. Quando fu trasformato in un supermercato, quanti ricordi andarono perduti! Proprio lì, verso i dieci anni, mentre guardavo “Il Capitano di Castiglia”, stretto in piedi fra una folla silenziosa e rapita, durante il combattimento finale fra Tyrone Power e il suo antagonista, rosicchiai l’orlo del mio basco per tutta la sua circonferenza, fino a renderlo inservibile.
Un periodo felice furono alcune settimane d’estate che io e Gigino, quando forse frequentavo ancora le scuole elementari, passammo soli con nostro padre. Tutto il resto della famiglia era andato a Chieti, a casa della nonna.  A Roma rimanemmo noi tre, liberi e squattrinati. Mio padre, che amministrava una modestissima società di mutuo soccorso fra colleghi sparsi fra varie filiali romane,  chiese per telefono a Gaetano Principato se poteva pagare un suo debito di 1100 lire e nel pomeriggio mi spedì a ritirare il denaro in via Lucrino, dove don Gaetano abitava con la bella moglie iugoslava. Inoltre, considerata la situazione di emergenza,  ruppe il salvadanaio che aveva costruito qualche tempo prima, scavando con scalpello e martello una profonda nicchia nel muro maestro di casa. Con quei risparmi potemmo permetterci di andare tutti insieme al cinema due o tre sere a settimana. Facevamo delle belle camminate notturne per andare a vedere “Ombre rosse”, al Trieste, cinema pidocchietto in piazza Annibaliano; “La collana insanguinata”, al cinema parrocchiale Sant’Ippolito, in viale delle Province; “Sinbad il marinaio”, al Fogliano, oltre viale Eritrea; “Il delfino verde”, al XXI Aprile; “Gli invincibili”, all’Atlante, pidocchietto sulla via Tiburtina. Furono indimenticabili momenti di libertà, di sogno e di amicizia con nostro padre.
La mattina io e Gigino eravamo soli e liberi. Spesso veniva da noi Giuseppe Ferrara, che abitava nella nostra stessa palazzina. Lui e Gigino volevano scrivere insieme un romanzo d’avventure. Qualche volta venivano, assieme a Giuseppe, altri due o tre ragazzi del palazzo per giocare a tressette.
Giuseppe era un po’ più grande di mio fratello. In quella estate di cui parlo doveva avere sedici anni. Era un ragazzo alto e magro, con un viso lungo e sottile e una espressione mite e pronta al sorriso. Aveva un gran ciuffo di capelli ondulati che si alzava sulla sua fronte come una scaletta di quattro o cinque gradini e portava sempre delle camicie con dei grandi colletti larghi e aperti, come i bambini dell’asilo.  Non c’erano ragazzi come lui nel palazzo. Aveva un aspetto buffo, ma sapeva farsi rispettare. Benché partecipasse a tutti i giochi di strada, si sentiva che per lui quei giochi erano solo una distrazione momentanea da occupazioni più serie. 
Purtroppo, a soli diciassette anni, Giuseppe morì di peritonite. 
                      (continua al post successivo)                                        

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