Fu in quel tempo, a sei o sette
anni, che il mondo esterno cominciò a precisarsi. Non andavo più d’accordo con
gli altri ragazzi del palazzo. Ero un ragazzino sincero e pieno di entusiasmo.
Non avevo niente della loro sornioneria, figlia del grigiore impiegatizio dei
loro genitori. Ero affettuoso e sensibile e non ero capace, come loro, di fare
le cose di nascosto, di promettere qualcosa e, con tutta tranquillità, di non
mantenerla.
Passai le vacanze dell’estate 1949 a Pieve Fosciana, nella
provincia di Lucca, in una colonia organizzata dalla Banca per i figli degli
impiegati. Mio padre mi aveva comprato, prima che partissi, una pistola ad
acqua. A quel tempo, prima dell’invasione della plastica, anche un giocattolino
modesto come una pistola ad acqua era un oggetto molto grazioso e ricercato:
una struttura di metallo con il calcio di gomma, simile ad una pompetta per
clisteri. In colonia nessuno la possedeva, ma non perché costasse molto, bensì,
credo, solo perché era stato messo in commercio da poco tempo. Quell’unico bene
reale, proprio perché era unico, non rientrava nel circuito dei baratti e degli
scambi commerciali fra ragazzini, che erano invece basati su una merce elementare
ed effimera ma molto diffusa: le cartine
di caramelle. Qualcuno aveva scoperto che ogni cartina, piegata fino a formare
una sottile strisciolina, poteva essere ancora ripiegata nella forma
approssimativa di un fermaglio. Questi fermagli si potevano incastrare l’uno
nell’altro per formare una lunga striscia colorata con cui si potevano fare
varie decorazioni. Le cartine di caramelle, che avevano una valutazione diversa
a seconda della bellezza dei colori, sembravano, insomma, moneta sonante,
oggetti ricercatissimi e vendibilissimi, mentre la mia pistola ad acqua, senza
almeno un altro pistolero con cui duellare, non serviva a niente. Così, quando
Salvatore Fiorito, ragazzino alquanto furbo di qualche anno più grande di me,
venne ad offrirmi ben sessanta preziose cartine per la mia inutile pistola, fui
ben contento di accettare.
Ero ingenuo e spesso, quando mi
lasciavo trascinare dalla moda a desiderare qualcosa di nessun valore, anche
stupido.
Nostro padre ci raccontava
continuamente una lunga favola intitolata Mamù. Mamù credo che fosse un mugnaio
(le vecchie favole sono piene di mugnai) che, ingannando, ogni volta con uno
stratagemma diverso, la Morte che veniva a prenderlo, riuscì a vivere mille
anni e morì volontariamente solo quando si fu stancato di vivere.
Mio padre sapeva raccontare con
calma, senza affrettarsi e con ricchezza di particolari. Noi avevamo una tale
venerazione per lui che ascoltavamo le ripetizioni di questo racconto con una
pazienza infinita, senza mai stancarci. Io parlavo a tutti dell’eroe di questa
favola, tanto che i ragazzi mi misero il soprannome di Mamù. E anche quando
emigrammo in massa nei palazzi appena costruiti per noi in periferia,
continuarono per qualche tempo a chiamarmi con quel soprannome, e se arrivava
un ragazzo nuovo, i miei vecchi compagni glielo sussurravano di nascosto in un
orecchio e costui all’improvviso, per sembrare sveglio e malizioso come loro,
cominciava anche lui, senza conoscermi, a chiamarmi Mamù.
Tuttavia, all’occasione, sapevo
difendermi. I fratelli gemelli Giorgio e Leo Pistelli erano miei coetanei.
Poiché li ho frequentati fino all’età adulta, posso dire che già allora, a sei
anni, erano dei prepotenti senza coraggio. Dalle scale della Gregoriana, sotto
le finestre di casa, che erano all’ultimo piano, una mattina mi sgolavo a
chiamare zia Francesca e loro mi rifacevano il verso: “Mammààà! Mammààà!”. Per
caso avevo in mano un bastone, un pezzo di manico di scopa, il solido classico
manganello di Pulcinella, col quale detti un gran colpo sulla testa di Giorgio,
il più insolente dei due, che piangendo
filò subito a casa per raccontare tutto alla mamma, mentre il fratello gli
correva dietro come un cagnetto che si affanna dietro al padrone in bicicletta.
Fino ad allora mio padre era
stato quasi un’ombra indistinta. Ma in quei due anni passati a Piazza della
Pilotta la sua figura acquistò la consistenza e le caratteristiche di un padre
affettuoso che dedicava tutto il proprio tempo alla famiglia.
Noi bambini (mio fratello aveva
già dieci anni) avevamo con lui una grande familiarità fisica. Lo abbracciavamo
e lo baciavamo con slancio. Con me aveva un modo rustico di palpeggiarmi le
orecchie con le palme aperte delle mani, che era lusinghiero e rassicurante.
Fu allora che cominciai anche
ad ammirare un certo stoicismo di mio padre, una sorprendente capacità di
sopportare il dolore e un modo di fare che sembrava ispirato a forza d’animo.
Quando era malato, non
essendoci nessuno in famiglia che fosse in grado di fargli le iniezioni, se le
faceva da solo su una coscia.
Tuttavia, ecco un episodio
oscuro, passato allora quasi inosservato, che mi è tornato chiaro alla mente a
distanza di decenni e che poi non ho più dimenticato. Nel nostro appartamento di
Piazza della Pilotta i coniugi Landi occupavano una grande stanza nella quale
si entrava passando per la cucina comune. Il gatto che avevamo in casa una
volta riuscì a intrufolarsi nella camera dei Landi, saltò sulla tavola e rubò
una fettina di carne. Loro si lamentarono con mio padre e lui gli dette subito,
senza alcuna esitazione né indugio, la risposta più ampiamente soddisfacente.
Mise l'animale in una scatola di cartone e in una mattinata di sole scese le
scalette di Ponte Vittorio e abbandonò il gatto sul greto del Tevere.
(continua al post successivo)

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