lunedì 21 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 8° Capitolo: "Il Tevere dei gatti".


Fu in quel tempo, a sei o sette anni, che il mondo esterno cominciò a precisarsi. Non andavo più d’accordo con gli altri ragazzi del palazzo. Ero un ragazzino sincero e pieno di entusiasmo. Non avevo niente della loro sornioneria, figlia del grigiore impiegatizio dei loro genitori. Ero affettuoso e sensibile e non ero capace, come loro, di fare le cose di nascosto, di promettere qualcosa e, con tutta tranquillità, di non mantenerla.
Passai le vacanze dell’estate 1949 a Pieve Fosciana, nella provincia di Lucca, in una colonia organizzata dalla Banca per i figli degli impiegati. Mio padre mi aveva comprato, prima che partissi, una pistola ad acqua. A quel tempo, prima dell’invasione della plastica, anche un giocattolino modesto come una pistola ad acqua era un oggetto molto grazioso e ricercato: una struttura di metallo con il calcio di gomma, simile ad una pompetta per clisteri. In colonia nessuno la possedeva, ma non perché costasse molto, bensì, credo, solo perché era stato messo in commercio da poco tempo. Quell’unico bene reale, proprio perché era unico, non rientrava nel circuito dei baratti e degli scambi commerciali fra ragazzini, che erano invece basati su una merce elementare ed effimera ma molto diffusa:  le cartine di caramelle. Qualcuno aveva scoperto che ogni cartina, piegata fino a formare una sottile strisciolina, poteva essere ancora ripiegata nella forma approssimativa di un fermaglio. Questi fermagli si potevano incastrare l’uno nell’altro per formare una lunga striscia colorata con cui si potevano fare varie decorazioni. Le cartine di caramelle, che avevano una valutazione diversa a seconda della bellezza dei colori, sembravano, insomma, moneta sonante, oggetti ricercatissimi e vendibilissimi, mentre la mia pistola ad acqua, senza almeno un altro pistolero con cui duellare, non serviva a niente. Così, quando Salvatore Fiorito, ragazzino alquanto furbo di qualche anno più grande di me, venne ad offrirmi ben sessanta preziose cartine per la mia inutile pistola, fui ben contento di accettare.
Ero ingenuo e spesso, quando mi lasciavo trascinare dalla moda a desiderare qualcosa di nessun valore, anche stupido. 
Nostro padre ci raccontava continuamente una lunga favola intitolata Mamù. Mamù credo che fosse un mugnaio (le vecchie favole sono piene di mugnai) che, ingannando, ogni volta con uno stratagemma diverso, la Morte che veniva a prenderlo, riuscì a vivere mille anni e morì volontariamente solo quando si fu stancato di vivere.
Mio padre sapeva raccontare con calma, senza affrettarsi e con ricchezza di particolari. Noi avevamo una tale venerazione per lui che ascoltavamo le ripetizioni di questo racconto con una pazienza infinita, senza mai stancarci. Io parlavo a tutti dell’eroe di questa favola, tanto che i ragazzi mi misero il soprannome di Mamù. E anche quando emigrammo in massa nei palazzi appena costruiti per noi in periferia, continuarono per qualche tempo a chiamarmi con quel soprannome, e se arrivava un ragazzo nuovo, i miei vecchi compagni glielo sussurravano di nascosto in un orecchio e costui all’improvviso, per sembrare sveglio e malizioso come loro, cominciava anche lui, senza conoscermi, a chiamarmi Mamù.
Tuttavia, all’occasione, sapevo difendermi. I fratelli gemelli Giorgio e Leo Pistelli erano miei coetanei. Poiché li ho frequentati fino all’età adulta, posso dire che già allora, a sei anni, erano dei prepotenti senza coraggio. Dalle scale della Gregoriana, sotto le finestre di casa, che erano all’ultimo piano, una mattina mi sgolavo a chiamare zia Francesca e loro mi rifacevano il verso: “Mammààà! Mammààà!”. Per caso avevo in mano un bastone, un pezzo di manico di scopa, il solido classico manganello di Pulcinella, col quale detti un gran colpo sulla testa di Giorgio, il più insolente dei due, che  piangendo filò subito a casa per raccontare tutto alla mamma, mentre il fratello gli correva dietro come un cagnetto che si affanna dietro al padrone in bicicletta.

Fino ad allora mio padre era stato quasi un’ombra indistinta. Ma in quei due anni passati a Piazza della Pilotta la sua figura acquistò la consistenza e le caratteristiche di un padre affettuoso che dedicava tutto il proprio tempo alla famiglia.
Noi bambini (mio fratello aveva già dieci anni) avevamo con lui una grande familiarità fisica. Lo abbracciavamo e lo baciavamo con slancio. Con me aveva un modo rustico di palpeggiarmi le orecchie con le palme aperte delle mani, che era lusinghiero e rassicurante.
Fu allora che cominciai anche ad ammirare un certo stoicismo di mio padre, una sorprendente capacità di sopportare il dolore e un modo di fare che sembrava ispirato a forza d’animo.
Quando era malato, non essendoci nessuno in famiglia che fosse in grado di fargli le iniezioni, se le faceva da solo su una coscia.
Tuttavia, ecco un episodio oscuro, passato allora quasi inosservato, che mi è tornato chiaro alla mente a distanza di decenni e che poi non ho più dimenticato. Nel nostro appartamento di Piazza della Pilotta i coniugi Landi occupavano una grande stanza nella quale si entrava passando per la cucina comune. Il gatto che avevamo in casa una volta riuscì a intrufolarsi nella camera dei Landi, saltò sulla tavola e rubò una fettina di carne. Loro si lamentarono con mio padre e lui gli dette subito, senza alcuna esitazione né indugio, la risposta più ampiamente soddisfacente. Mise l'animale in una scatola di cartone e in una mattinata di sole scese le scalette di Ponte Vittorio e abbandonò il gatto sul greto del Tevere.  
                             (continua al post successivo)

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