In casa avevamo pochi mobili: armadi
e comò modesti e antiquati, comprati di
seconda mano da un rigattiere, e tavoli, scrivanie e sedie da ufficio che la Banca svendeva o regalava ai
propri dipendenti. Dormivamo su brande rigidissime con smilzi materassi di
crine.
Circondati come eravamo da
grandi spazi aperti, le nostre finestre senza tende, al quinto piano,
inquadravano quasi soltanto il cielo e la nostra casa, con i suoi pochi mobili
di fortuna, mi sembra ora, nel ricordo, nuda, fresca e piena di luce come una
casa di vacanza al mare.
Ascoltavamo molto la radio.
Avevamo un grande apparecchio il cui quadrante luminoso, con i suggestivi nomi
di tante città straniere, evocava il mondo intero. La radio era allora l’unica
voce che arrivasse fino a noi dal grande mondo sconosciuto e ne trasmetteva una
immagine che per me era di irraggiungibile bellezza ed eleganza. Quelle voci e
quelle musiche diventarono un sogno, un ideale di vita e io diventai presto insofferente di tutto ciò che era rionale,
cittadino, romanesco. Ad un certo momento dell’adolescenza, tutto ciò che era
locale e troppo conosciuto diventò volgare e insopportabile. Con il mondo
immaginario della radio, e poi del cinema, mi sentivo invece in armonia
perfetta. Perfino i dialoghi della pubblicità radiofonica mi sembrava che
avessero fascino e raffinatezza. Ricordo che mi fece sognare una voce femminile acerba, educata e
sospirosa. In anni recenti, solo a Radio Maria ho ascoltato qualche
suora parlare con una voce così giovane e casta e così conturbante.
Con le atmosfere delle commedie
e con la suggestione delle musiche che
trasmetteva, la radio evocava il passato e lo trasformava in un tempo favoloso.
Se cercavo di immaginare la
vita dei miei genitori e dei miei parenti prima che io nascessi, li vedevo
muoversi in una atmosfera accompagnata dalla musica, per esempio, di Amapola,
cantata da Alberto Rabagliati o di Amado mio, cantata da Natalino Otto.
Possedevamo solo pochi oggetti
del tempo anteriore alla guerra, quando la mia famiglia viveva a Pescara. Un
orologio a pendolo, un servizio di bicchieri in vetro massiccio colorati di
viola e d’oro, un servizio di piatti sul cui fondo era disegnato Cupìdo con
arco e frecce, e poche altre cose. I bicchieri e i piatti aspettarono
inutilmente per decenni, dietro la loro vetrina, l’occasione di essere
protagonisti di qualche pranzo importante. Invece il pendolo, appeso in alto
sulla parete, fu sempre oggetto di molte attenzioni. Mio padre saliva su una
sedia tubolare della Banca (stile Bauhaus, ma tutta color verde-ufficio) e gli
dava solennemente la carica; regolava le lancette e aggiungeva infine su un
cartoncino conservato dentro l’orologio l’annotazione della data dell’ultima
ricarica e di quanti giorni erano passati dall’operazione precedente. Se il
pendolo era riuscito a funzionare un po’ più a lungo del solito, mio padre
scendeva dalla sedia compiaciuto, come un medico davanti alla cartella clinica
di un malato in via di guarigione.
Si erano salvati anche due
piccoli album di fotografie che noi ragazzi sfogliavamo spesso, specialmente
quando eravamo a letto malati. Ci eravamo così abituati alle facce di tutte
quelle persone sconosciute che ci sembravano ormai lontani parenti: austeri
sacerdoti che dirigevano il collegio Buon Pastore di Ancona, dove mio padre
aveva passato sei lunghi anni dal 1921 al 1927; eleganti giovinetti immobili
con aria pensosa o ispirata davanti a saloni e scalinate dipinte su un fondale;
colleghi della tipografia Duval di Pescara, con le incredibili capigliature
dell’epoca simili ad alti panettoni; antenati ormai passati a miglior vita. Di
tutti, però, avevamo imparato i nomi e le storie.
Il personaggio più antico di
quella piccola galleria era la nonna di mio padre, Maria Santa. Uscito di
collegio, mio padre, orfano di entrambi i genitori, abitò con lei per qualche
anno. Era una donna energica, previdente, economa ed egoista. Mio padre
contribuiva alle spese di casa con il suo salario di tipografo, ma la nonna
favoriva soprattutto i suoi figli ed era piuttosto dura e avara verso il
nipote. Ma mio padre, che in sei anni di collegio si era formato una morale
utilitaristica fondata sul principio che bisognava adattarsi alle circostanze
per sopravvivere, non dovette soffrire molto per quelle discriminazioni ed anzi
ha sempre lodato la nonna e considerato le sue aspre virtù domestiche un modello
da seguire.
C’erano anche alcune
fotografie, appena tre o quattro, di nostra madre (mia e di Gigino), morta a
Pescara il 31 agosto del 1943,
in un bombardamento anglo-americano che fece duemila
vittime.
Quando nostro padre, poco tempo
dopo, sposò in seconde nozze una cognata, sorella della moglie, Gigino, che non
aveva ancora sei anni, non volle mai
considerarla come mamma e la chiamò sempre “zia Francesca”, mentre io, che non
avevo alcun ricordo di quella vera, l’ho sempre chiamata “mammà”, con un
accento finale, però, che la rendeva, almeno a Roma, un po’ diversa da una
mamma autentica. Gigino conservò per
tutta la vita un ricordo tenace ed esclusivo della mamma.
Moltissimi anni dopo, costretto
a letto da una grave malattia, si meravigliava della lentezza con cui il male
progrediva e si illuse di poter guarire, attribuendone il merito all’attenzione
con cui la mamma lo seguiva dal cielo.
Per me, invece, nostra madre fu
per molto tempo una persona lontana e sconosciuta, e nello stesso tempo aureolata
come una martire, a cui alludevo, in generale, con discrezione e pudore. Nostro
padre ne parlava raramente, chiamandola sempre “la povera vostra madre” e tutti
i parenti accennavano a lei chiamandola “la povera Maria”. Mio padre raccontava
di lei solo due o tre episodi, sempre gli stessi, senza mai descriverne i
sentimenti e le idee. Quel modo di raccontare, così obiettivo e concreto, mi
sembrava allora, da ragazzino, del tutto normale, mentre adesso perfino la sua
espressione “la povera vostra madre” mi lascia perplesso, perché mi sembra ampollosa
e convenzionale.
Il corpo della “povera Maria”
era andato disperso in una fossa comune e non esisteva una tomba sulla quale
andare in visita con il sentimento che qualcosa di lei fosse rimasto. Mi
sembrava perciò di non avere nemmeno la prova materiale della sua morte e quando
avevo circa dodici anni mi venne l’idea che forse lei era ancora viva e che
sarebbe tornata da noi. Vissi così per qualche tempo in questa attesa.
A volte raccontavo l’episodio
del bombardamento, come si mostra la cicatrice di una ferita ricevuta al fronte.
C’è stato un periodo in cui ho avuto nei confronti di nostra madre un culto
ufficiale e piuttosto retorico. Una volta, in terza media, detti uno schiaffo a
Gloriani, un ragazzo dai capelli biondi pettinati con estrema cura alla Cary
Grant, perché mi aveva detto, con tutta l’innocenza del suo mite temperamento
romano: “Li mortacci tua!”
Reagì con uno sguardo
meravigliato e buono, il cui ricordo mi fa ancora vergognare.
Fu mio padre che volle impormi
il nome di battesimo di suo nonno materno, Alfonso Pasquini, incurante del fatto che il nostro cognome
fosse quasi identico. Ogni volta che mi sono dovuto presentare in un ufficio
pubblico, ho dovuto sempre rispondere alla battuta ironica dell’impiegato in
servizio. “D’Alfonso Alfonso? Mmm, hanno avuto poca fantasia i suoi genitori”.
Sono grato a mia madre, che
(come mi è stato raccontato) volle darmi anche il nome che ho poi
sempre usato nella vita di tutti i giorni. Considero la scelta di
questo nome come una prova della sua
gentilezza e del suo gusto.
Né nella nostra numerosa
parentela né fra i tanti ragazzi del caseggiato né fra i compagni di scuola ho
mai incontrato o saputo di un altro Fabrizio. Questo nome è stato molto raro
almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Mi sono sempre chiesto, perciò, dove
mia madre lo avesse preso, chi glielo avesse ispirato. Lei era vissuta a
Chieti, una cittadina di provincia molto cattolica, ricca solo di piccoli
artigiani e bottegai, legata a una campagna ancora arretrata, dove gli uomini
si chiamavano Gaetano, Pasquale, Giuseppe, Ferdinando, Nicola, Romeo... Mia
madre inoltre aveva frequentato solo poche classi delle elementari e non poteva
aver preso quel nome dal protagonista di qualche opera letteraria. Mio padre
non ha mai saputo rispondere alle mie domande. Appassionato solo di statistiche
e per niente curioso di conoscere le profondità del cuore, si accontentò probabilmente
di una spiegazione qualsiasi.
Non pensavo più all’origine di
questo nome, finché in anni recenti, quando la televisione aveva cominciato a trasmettere
ogni giorno decine di vecchie pellicole, mi capitò una mattina di vedere un
film in cui Vittorio De Sica interpretava il ruolo di un avvocato bello e
simpatico di nome Fabrizio.
Il film, ‘L’avventuriera del
piano di sopra’, era stato girato nel 1941, un anno prima della mia nascita e
aveva avuto, dunque, tutto il tempo di circolare per i cinematografi d’Italia e
di arrivare fino alle lontane provincie abruzzesi. Che mia madre avesse visto
il film e avesse tenuto a mente il bel nome del protagonista mi parve una
ipotesi molto verosimile; l’idea poi che potesse essersi infatuata di De Sica
mi piacque e me l’ha resa viva e simpatica, e spiega, infine, perché mio padre
non sapesse dirmi da dove quel nome fosse venuto.
(continua al post successivo)

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