Zia Francesca è stata una
figura innocente e tragica. A causa di disturbi nervosi, non poteva uscire da
sola né rimanere sola in casa. Tutta la sua vita è stata perciò segnata dalla
dipendenza dagli altri, e lei è rimasta in famiglia sempre in una posizione appartata
e inferiore. La sua solitudine è stata più drammatica per il fatto che lei non
sapeva esprimersi in modo ampio e chiaro. Non era facile fare con lei una vera
e prolungata conversazione: si poteva parlare solo a brandelli, a sussulti, e
solo a tu per tu, come in confessione. Rimuginava sempre vaghi e lontani
pensieri e la sua attenzione non era mai del tutto presente.
Il mondo fuori del nucleo più
strettamente famigliare, direi quasi il mondo al di là dei tre figli veramente
suoi, le appariva come un mondo estraneo e nemico, per il quale lei non aveva
né amore né comprensione.
Gigino, che conservava il
ricordo della vera madre, non si affezionò mai alla zia e non le perdonò mai le
botte ricevute da bambino (di cui mammà era prodiga anche con me), quando per
consolarsi andava a piangere accanto a un attaccapanni affondando il viso nel
panno di una giacca o di un cappotto di nostro padre.
Nemmeno zia Francesca, del
resto, si era affezionata a lui e la prematura morte di Gigino, tre anni prima
della sua, la sfiorò appena. Mammà non conosceva sfumature: o amava in modo
viscerale o provava solo indifferenza.
Però il suo rimuginare non era del
tutto vano, perché a volte mi sorprendeva per una grande capacità di
penetrazione psicologica, che rivelava capacità di osservare e una sensibilità
dolorosa.
Istintiva com’era, aveva ogni
tanto degli slanci di generosità ispirati dal solo e libero piacere di dare,
senza alcun calcolo né considerazione per convenzioni e cerimonie.
Della sorella maggiore, che era
stata la prima moglie di nostro padre, parlò sempre con affetto e ammirazione,
ed io, diventato adulto, ho apprezzato la lealtà di questo sentimento.
Per mio padre zia Francesca non
fu una compagna facile, perché era molto emotiva e suscettibile e molto instabile.
Certamente mio padre soffrì di quella situazione. Mammà poteva avere
all’improvviso uno scatto nervoso ed esplodere in un atto inconsulto, come
gettare dalla finestra un piatto di fettine di carne impanate e fritte, pronte
per la cena.
Però queste scene non erano mai
in realtà del tutto improvvise e imprevedibili, ma preparate dalla calma
insensibile di mio padre, che la trattava come una bambina e la rimproverava
per ogni sciocchezza: la minestra
salata, una macchia sul grembiule, la fiamma del gas troppo alta, troppo
consumo di olio d’oliva, e altre miserabilità.
Quando una lite era scoppiata,
io e Gigino parteggiavamo per nostro padre, dal quale ci sentivamo vendicati.
Mammà in quelle occasioni, certo per uno scatto di dignità e di fierezza, si
vestiva bene come per uscire, si pettinava con cura e si dava il rossetto.
Rimaneva in piedi, in cucina, addossata a una credenza, con le braccia
conserte, fremente di dolorosa ribellione. Mio padre si sedeva a capotavola,
lontano da lei. Io e Gigino ci sedevamo ai due lati di nostro padre. A quel
tempo, queste liti mi divertivano quasi come uno spettacolino teatrale, ma da
molti anni, nel ricordo, la stanza di cucina dove si svolgevano quelle discussioni mi appare una insopportabile camera di tortura.
Mammà non sapeva parlare, non
sapeva spiegarsi. Per chiunque sarebbe stato difficile individuare e analizzare
le colpe di nostro padre, che, con implacabile calma, non faceva che vantare la
propria dedizione alla famiglia. Mammà inveiva, lanciava frasi smozzicate, che
nostro padre, senza pietà, volgeva in ridicolo.
Zia Francesca rimaneva alla
fine smarrita e impotente. Ma nella solitudine e nell’incomprensione che la
circondavano, mantenne sempre un grande pudore: non ha mai implorato, non ha
mai pianto, perché, nonostante avesse difficoltà ad esprimere il suo stato
d’animo, aveva mantenuto sempre viva la consapevolezza delle proprie ragioni.
A me, quando ero già grande, sussurrava,
rivolgendosi a tutti gli altri membri della famiglia: “Voi non lo conoscete, voi non lo conoscete”.
A scuola, era arrivata solo
alla terza elementare. Sperando di poter migliorare il suo modo di esprimersi e
di poter conversare con più disinvoltura, quando io ero liceale, mi chiese se
le insegnavo un po’ di grammatica e di aritmetica. Faceva con diligenza e
umiltà gli esercizi del sussidiario. Per
un anno, o forse due, tenne sempre sotto mano libro e quaderno.
La sua idea fissa era la
salute.
“Ma ti trovo bene, ti trovo bene”, diceva palpandomi il torace e le
braccia, quando tornavo in visita a Roma. E, riferendosi alle mie figlie: “A quelle due ragazze, fagli fare una buona
curetta”. Accanto alla salute, come sua condizione necessaria, l’altro
pensiero fisso era il mangiare. “Ti
faccio una frittata? Vuoi una fettina? Dimmi quello che vuoi: non hai mangiato
niente!”, chiedeva con insistenza, quando eravamo già arrivati al caffè.
Con mio padre ha lottato per
più di quarant’anni, però gli ha voluto sinceramente bene e, nelle poche
lettere che gli ha scritto da luoghi di villeggiatura, ha saputo esprimere il
suo affetto in modo commovente. “Pensami
qualche volta come ti penso io”; e ancora: “Come vedi il mio primo pensiero sei tu. Son arrivata a Chieti alle nove
e tre quarti… Non ti dico le impressioni appena arrivati a casa perché tu ne
rideresti, mi sentivo sola ed una infinita tristezza mi à assalita non sapevo
capacitarmi a restar cosi sola lontana da te”…
Mio padre, invece, sapeva solo
scrivere retoriche esortazioni e ammonimenti. "A fine mese ti manderò il danaro e tu sappine fare buon uso perché io per guadagnarlo debbo lavorare e in ogni lira c'è parte del mio sangue".
Durante i suoi ultimi giorni di
vita, mammà baciava le mani del marito. Si sentiva in colpa per la sua
malattia, e con un tono di scusa per il disturbo arrecato, diceva: “Quande ne stenghe a cumbenà!”. A me
disse: “Domani mi voglio mettere a
cucinare”.
“E che cosa vuoi cucinare?”.
“Quello che volete voi”.
(continua al post
successivo)

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