In famiglia facevamo una vita
spartana. Eravamo sette persone: quattro figli più nostra cugina Emilia. Pochi
mesi dopo che lei, nell’estate del 1955, ebbe sposato Adamo, nacque l’ultimo
fratello.
Mangiavamo tanto pane: pane e
latte, pane e olio e anche pane asciutto. Con un minuscolo formaggino di
cioccolata, tagliandolo in scaglie con una lametta da barba, riuscivo a coprire
l’immensa superficie di uno sfilatino da due etti. Quando mio padre scoprì la
cooperativa dei ferrovieri “La
Provvida”, in via Giacomo Boni, dietro Piazza Bologna,
cominciò a fare provviste di generi alimentari da conservare nel suo armadione:
pacchi di pasta e di riso, barattoli di conserva, grandi recipienti a forma di
vaso da fiori, fatti con una sottile sfoglia di legno, pieni di marmellata
di ciliegie, buste di “orzo dei frati” con cui allungare il nostro latte, formaggini...
La Provvida mi
attirava, perché era un negozio disadorno come erano a quel tempo i negozietti
di paese, che avevo potuto vedere durante qualche vacanza dagli zii abruzzesi.
La figlia del gestore, una ragazza bionda e bianca, con gli occhi grigio-azzurri,
mi ricordava mia cugina Antonietta, di Pescara.
Il caffè era per noi allora un
genere di lusso. Lo compravamo raramente, mezzo etto alla volta, come il
parmigiano. Erano pacchettini minuscoli e preziosissimi. Il vino comparve molto tardi sulla nostra tavola, e solo secondo il capriccio di nostro padre. Eravamo già seduti per il pranzo, quando in un non frequente momento di generosa convivialità, lui si rivolgeva a me: "Vai a farti dare un litro di vino da Gozzi e digli che dopo facciamo i conti". Gozzi era un ex pugile, poi impiegato della Banca, ora in pensione, che faceva un piccolo commercio di vino e liquori. Scendevo al primo piano a malincuore, vergognandomi di farlo alzare da tavola mentre pranzava con la famiglia. Lui veniva alla porta col tovagliolo ancora legato al collo e scendevamo in cantina, dove da una damigiana mi versava un litro di vino. Caro vecchio Gozzi: paziente e pio come un contadino, non ha mai avuto né una parola né un gesto d'irritazione.
Mio padre, per ghiottoneria o per
alleviare un po’ la nostra penuria, ogni tanto ci sorprendeva con un'altra leccornìa. Capitava che dopo cena
dicesse a uno di noi, con un tono sornione da babbo natale che non vuole
vantarsi della propria generosità: “Vai un po’ nell’ingresso e guarda dentro la
cassapanca. Ci dovrebbe essere un
fagottino.”
Nel fagottino c’erano un paio
d’etti di “annoia”, budelli di maiale secchi e durissimi che noialtri, tutti
contenti, passavamo la serata a rosicchiare.
Nostro padre era anche bravo a
disporre sui piatti le pietanze e i contorni in modo artistico, perché
appagassero l’occhio e sembrassero porzioni più abbondanti.
Eravamo così abituati alla sua parsimonia
che questa ci sembrava del tutto naturale, come il freddo e la pioggia
d’inverno. Quando nostra zia Nerina, attraverso un amico di famiglia, Gennaro,
ci mandò da Pescara un pollo arrosto, io chiesi a mio padre: “Ma questo pollo
ce lo mangiamo tutto oggi?”. A me sembrava incredibile che nostro padre potesse
permettere la distruzione di un intero prezioso pollo con un unico pasto. Con
mia grande meraviglia, invece, mangiammo l’intero pollo in una sola volta e a
ciascuno di noi sette ne toccò un bocconcino.
Ma in realtà, niente di quella
vita spartana mi pesava, neanche le piccole miserabili cose per cui provavo un
po’ di vergogna, come, per esempio, ripararsi dalla pioggia con un ombrellino
da donna, l’unico da noi posseduto, e impugnarlo cercando di nascondere che
mancava il manico. O indossare un cappotto grigio di mio fratello, così
consumato che dovevo tenere le braccia in modo innaturale per nascondere i
punti dove la stoffa era diventata bianca e mostrava la trama. O girovagare fra
i baracconi delle giostre, che facevano una lunga sosta invernale dietro la
nostra parrocchia, sull’argine della ferrovia, senza poter spendere nemmeno
cinque lire e guardare tutti i divertimenti con gli occhi dell’escluso. O non
avere quasi mai i soldi per il tram e dover girare Roma a piedi in camminate lunghissime e solitarie. Ma le strade mi
sembravano belle, e belli i negozi, la gente, l’aria, i colori.
No, di tutte quelle cose, e di
tante altre ancora, niente mi ha ferito o umiliato. Io le ricordo solo con
commozione e divertimento e con un po’ di spavalderia. Non ho mai compianto me
stesso per quel modo di vivere quasi ascetico e non ho mai aspirato ad avere
abbondanza delle cose che mi sono mancate.
Andavo a stendere la biancheria
lavata portandola per le scale in una grande bagnarola di zinco. La terrazza,
che, sopra il quinto piano, costituiva la copertura del palazzo, era un’oasi di
luce e di silenzio. I parapetti di travertino pullulavano di ragnetti rossi.
Solo alzandomi sulle punte dei piedi potevo arrivare ai fili, ma a me,
nonostante questa difficoltà, piaceva stendere i panni lentamente e con calma,
seguendo un criterio estetico, secondo i colori e le dimensioni. Guardavo
contro il cielo la biancheria agitata dal vento come se fosse un quadro.
(continua al post successivo)

Nessun commento:
Posta un commento