mercoledì 23 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 17° Capitolo: "Vita spartana".


In famiglia facevamo una vita spartana. Eravamo sette persone: quattro figli più nostra cugina Emilia. Pochi mesi dopo che lei, nell’estate del 1955, ebbe sposato Adamo, nacque l’ultimo fratello.
Mangiavamo tanto pane: pane e latte, pane e olio e anche pane asciutto. Con un minuscolo formaggino di cioccolata, tagliandolo in scaglie con una lametta da barba, riuscivo a coprire l’immensa superficie di uno sfilatino da due etti. Quando mio padre scoprì la cooperativa dei ferrovieri “La Provvida”, in via Giacomo Boni, dietro Piazza Bologna, cominciò a fare provviste di generi alimentari da conservare nel suo armadione: pacchi di pasta e di riso, barattoli di conserva, grandi recipienti a forma di vaso da fiori, fatti con una sottile sfoglia di legno, pieni di marmellata di ciliegie, buste di “orzo dei frati” con cui allungare il nostro latte, formaggini...
La Provvida mi attirava, perché era un negozio disadorno come erano a quel tempo i negozietti di paese, che avevo potuto vedere durante qualche vacanza dagli zii abruzzesi. La figlia del gestore, una ragazza bionda e bianca, con gli occhi grigio-azzurri, mi ricordava mia cugina Antonietta, di Pescara.
Il caffè era per noi allora un genere di lusso. Lo compravamo raramente, mezzo etto alla volta, come il parmigiano. Erano pacchettini minuscoli e preziosissimi. Il vino comparve molto tardi sulla nostra tavola, e solo secondo il capriccio di nostro padre. Eravamo già seduti per il pranzo, quando in un non frequente momento di generosa convivialità, lui si rivolgeva a me: "Vai a farti dare un litro di vino da Gozzi e digli che dopo facciamo i conti". Gozzi era un ex pugile, poi impiegato della Banca, ora in pensione, che faceva un piccolo commercio di vino e liquori. Scendevo al primo piano a malincuore, vergognandomi di farlo alzare da tavola mentre pranzava con la famiglia. Lui veniva alla porta col tovagliolo ancora legato al collo e scendevamo in cantina, dove da una damigiana mi versava un litro di vino. Caro vecchio Gozzi: paziente e pio come un contadino, non ha mai avuto né una parola né un gesto d'irritazione.
Mio padre, per ghiottoneria o per alleviare un po’ la nostra penuria, ogni tanto ci sorprendeva con un'altra leccornìa. Capitava che dopo cena dicesse a uno di noi, con un tono sornione da babbo natale che non vuole vantarsi della propria generosità: “Vai un po’ nell’ingresso e guarda dentro la cassapanca. Ci dovrebbe  essere un fagottino.”
Nel fagottino c’erano un paio d’etti di “annoia”, budelli di maiale secchi e durissimi che noialtri, tutti contenti, passavamo la serata a rosicchiare.
Nostro padre era anche bravo a disporre sui piatti le pietanze e i contorni in modo artistico, perché appagassero l’occhio e sembrassero porzioni più abbondanti.
Eravamo così abituati alla sua parsimonia che questa ci sembrava del tutto naturale, come il freddo e la pioggia d’inverno. Quando nostra zia Nerina, attraverso un amico di famiglia, Gennaro, ci mandò da Pescara un pollo arrosto, io chiesi a mio padre: “Ma questo pollo ce lo mangiamo tutto oggi?”. A me sembrava incredibile che nostro padre potesse permettere la distruzione di un intero prezioso pollo con un unico pasto. Con mia grande meraviglia, invece, mangiammo l’intero pollo in una sola volta e a ciascuno di noi sette ne toccò un bocconcino.
 Ma in realtà, niente di quella vita spartana mi pesava, neanche le piccole miserabili cose per cui provavo un po’ di vergogna, come, per esempio, ripararsi dalla pioggia con un ombrellino da donna, l’unico da noi posseduto, e impugnarlo cercando di nascondere che mancava il manico. O indossare un cappotto grigio di mio fratello, così consumato che dovevo tenere le braccia in modo innaturale per nascondere i punti dove la stoffa era diventata bianca e mostrava la trama. O girovagare fra i baracconi delle giostre, che facevano una lunga sosta invernale dietro la nostra parrocchia, sull’argine della ferrovia, senza poter spendere nemmeno cinque lire e guardare tutti i divertimenti con gli occhi dell’escluso. O non avere quasi mai i soldi per il tram e dover girare Roma a piedi in camminate lunghissime e solitarie. Ma le strade mi sembravano belle, e belli i negozi, la gente, l’aria, i colori.
No, di tutte quelle cose, e di tante altre ancora, niente mi ha ferito o umiliato. Io le ricordo solo con commozione e divertimento e con un po’ di spavalderia. Non ho mai compianto me stesso per quel modo di vivere quasi ascetico e non ho mai aspirato ad avere abbondanza delle cose che mi sono mancate.
Andavo a stendere la biancheria lavata portandola per le scale in una grande bagnarola di zinco. La terrazza, che, sopra il quinto piano, costituiva la copertura del palazzo, era un’oasi di luce e di silenzio. I parapetti di travertino pullulavano di ragnetti rossi. Solo alzandomi sulle punte dei piedi potevo arrivare ai fili, ma a me, nonostante questa difficoltà, piaceva stendere i panni lentamente e con calma, seguendo un criterio estetico, secondo i colori e le dimensioni. Guardavo contro il cielo la biancheria agitata dal vento come se fosse un quadro.
        (continua al post successivo)

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