lunedì 21 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 6° Capitolo: "Vacanze a Saracinesco".


Durante l’anno scolastico, se la giornata era bella, guidati da Emilia, che cercava l’occasione per scambiare qualche occhiata con il suo spasimante, andavamo spesso in Piazza del Quirinale a vedere il cambio della guardia. Superavamo in un lampo la ripida salita di via della Datarìa, ci arrampicavamo di corsa per la scalinata di Montecavallo ed eccoci sulla immensa spianata del Quirinale, piena di sole, di ragazzi e di mamme. Accovacciato  a ridosso della balaustrata che si affacciava sulla città c’era perfino un nonnetto con i suoi bruscolini, i pescetti e i palloncini colorati.  Il cambio della guardia, accompagnato da musiche militari, era uno spettacolo insolito, allegro e simpatico, ma non mi dava nessun fremito patriottico. Da ragazzino ho sognato di vivere mille avventure, ma, benché le armi mi piacessero, non ho mai desiderato di fare il soldato. Anche l’alzabandiera ogni mattina, tutte le volte che ho passato le vacanze estive in una  colonia della Banca, mi sembrava una tormentosa perdita di tempo.
Quando arrivava la bella stagione e le giornate si allungavano, nostro padre portava tutta la famiglia, la domenica pomeriggio, al Pincio o al laghetto di Villa Borghese. Risalivamo via del Tritone fino a Piazza Barberini e poi prendevamo per via Sistina. Passando per Trinità dei Monti e per l’Accademia di Francia, arrivavamo finalmente sulla Terrazza del Pincio; oppure percorrevamo tutta Via Veneto, che a me sembrava larghissima, fino a Porta Pinciana ed entravamo subito nel verde di Villa Borghese.
Com’era bella la città: viva, spaziosa, colorata. Le famiglie passeggiavano placidamente per le strade del centro e i bambini seguivano i genitori trascinandosi dietro un cavalluccio di cartapesta o un qualsiasi altro giocattolo fornito di ruote o addirittura solo un barattolo legato con lo spago, che saltellava rumorosamente sull’asfalto. 
Sul piazzale del Pincio trovavamo il teatrino di Pulcinella: un gabbiotto poco più grande di un armadio, con un’alta apertura sul davanti che fungeva da palcoscenico. L’invisibile burattinaio stava dentro, in piedi, e sollevando le braccia, con le mani infilate nel corpo dei suoi pupazzi, li faceva muovere sotto lo sguardo ammirato dei bambini e a tutti prestava la propria voce, adattandola alle qualità del personaggio. Le belle fanciulle le faceva parlare con una vocina sottile sottile; agli eroi coraggiosi dava la voce spavalda di un commentatore di cinegiornali del tempo di Mussolini; invece i cattivi parlavano con un vocione cavernoso. Una scena esilarante per il pubblico di bambini accalcati sotto il teatrino erano le sonore bastonate che Pulcinella e Belzebù, rivali in amore, si scambiavano a turno.
Mio padre e zia Francesca si sedevano su una panchina e subito mio padre attaccava discorso con chi era seduto accanto a lui o con un passante, con un gelataio ambulante, con un giardiniere, con una guardia municipale, con chiunque gli capitasse a tiro. I romani chiacchierano volentieri e mio padre trovava quasi sempre degli interlocutori disponibili; ma se incontrava una persona chiusa e scontrosa, restìa a conversare con uno sconosciuto, lui insisteva con una semplicità che vinceva ogni resistenza. Si informava delle piante e della loro potatura o del sistema più pratico per refrigerare i gelati; discuteva di come fosse costruita la panchina e raccontava che a Pescara, nella sua gioventù, le panchine non erano comode come queste moderne di Roma; osservava lo zampillo al centro della vasca dove giocavano i bambini e faceva delle ipotesi sull’impianto di circolazione dell’acqua. Dall’acqua delle fontane e fontanelle di Roma, facilmente arrivava a parlare della produzione di energia elettrica nell’Unione Sovietica e di quanto fossero importanti e comodi i suoi fiumi navigabili. Mio padre sapeva chiacchierare e rendersi simpatico. Noi figli, piuttosto timidi, ammiravamo questa sua disinvolta semplicità, anche se ci faceva sentire, in un certo senso, più responsabili e colpevoli per la nostra goffaggine. Ma, appena diventati adulti, abbiamo cercato spesso, negli incontri occasionali con persone sconosciute, di imitare nostro padre ed eravamo compiaciuti se, entrando in un negozio, riuscivamo a dire ad un commesso che aveva il doppio o il triplo dei nostri anni: “Salve, bel giovane!”.
Zia Francesca, che era timidissima, rimaneva invece esclusa dalla conversazione e solo se accanto a lei era seduta una mamma affabile e paziente riusciva a parlare, con un po’ di fatica, di figli e di cucina.
Nostro padre, però, che sapeva chiacchierare in modo affabile con gli estranei, era brusco e insensibile con la propria famiglia.
Se, andando a passeggio con la moglie, incontrava un conoscente, si metteva a conversare senza preoccuparsi che lei restasse, accanto a lui, muta, in piedi e a disagio per mezz’ora o più. Alla fine, a casa, la povera donna esplodeva in una crisi di nervi e nostro padre cadeva dalle nuvole con il candore di una pietra.
A noi figli, anche diventati adulti, diceva: “Voi avete preso tutti i difetti di vostra madre e nemmeno un pregio di vostro padre”; e anche:  “In questa casa, di vostro non c’è neanche uno spillo”.

Fu pochi mesi prima di iniziare la scuola elementare  che passammo una lunghissima estate in villeggiatura a Saracinesco, un paesino sul cocuzzolo di un’alta montagna, a qualche chilometro dalla via Tiburtina, poco oltre Tivoli. Partimmo la mattina presto, seduti sul cassone di un camioncino, e attraverso strade dissestate arrivammo a destinazione solo nel tardo pomeriggio. Saracinesco era un borgo di poche case vecchissime, su un monte che dominava una piccola valle tutta coperta di recinti e stalle per bovini, maiali e cavalli. Il paese era poverissimo: c’era solo una macelleria (l’insegna diceva “beccheria”), dove una volta alla settimana si macellava qualche pecora. Gli abitanti consumavano i loro prodotti e acquistavano da un venditore ambulante gli oggetti e i generi che non potevano produrre da sé. Abitavamo nella casa di un certo Mazzarella, che si era trasferito a Roma, dove faceva il fioraio. Mio padre, sia per  curiosità, sia per la  fiducia che ogni nuovo conoscente potesse tornar utile, non aveva mancato di attaccare discorso con quel simpatico personaggio, che aveva il chioschetto dei fiori nei pressi del suo ufficio. Questo Mazzarella portava sempre un basco in testa e una sigaretta fra le labbra e aveva l’espressione allegra e scanzonata di uno che sapeva il fatto suo. Nel mio ricordo lo trovo somigliante al giovane Jean Gabin. La casa che ci aveva dato in affitto a Saracinesco era piuttosto preistorica: non aveva il gabinetto e nemmeno gli interruttori della luce. Per accendere e spegnere bisognava unire o staccare i due fili della corrente. Io e Gigino andavamo a fare i bisogni in un prato poco distante, abbastanza chiuso alla vista perché circondato da rigogliosi cespugli, da sambuchi e alberi di fichi. Era un grande divertimento fare il bisogno in due o tre sedute, ogni volta spostandoci a saltelli di un metro o due dalla precedente “deposizione”, mentre scherzavamo o gareggiavamo in qualche oscena competizione con gli altri ragazzi che venivano al prato spinti dalla stessa necessità. Accanto a noi abitavano i parenti di Mazzarella. Quando, la sera del nostro arrivo, andammo a salutarli, stavano mangiando e fui molto sorpreso di vedere che non usavano i piatti ma tutti prendevano con compostezza gli spaghetti con la forchetta da un unico largo e basso vassoio di legno. Quando cerco nella realtà una scena corrispondente al quadro di Van Gogh “Mangiatori di patate”, è sempre a quei lontani mangiatori di spaghetti che mi viene da pensare.
Mio padre veniva ogni tre settimane, il sabato e la domenica. Nell’intervallo ci spediva un pacco (era bravissimo a fare pacchi solidi, maneggevoli e perfino eleganti) pieno di cose buone. Per Gigino e per me (anche se non sapevo ancora leggere) c’erano giornalini a fumetti ed elastici per mazzafionde. Devoto allo spirito di sua nonna, nostro padre ci mandava, però, giornalini passati sulle bancarelle di almeno dieci nonnetti e, invece dei mitici “elastici a quadrelli”, che sono rimasti un sogno della nostra infanzia, ci spediva dei comunissimi pezzi di camere d’aria di motocicletta o di bicicletta.
Ma allora la nostra gioia era grande lo stesso. Cominciai a provare un sentimento di delusione verso mio padre solo molto tempo dopo, quando episodi e gesti così poco generosi erano diventati negli anni tanto frequenti e importanti che fu inevitabile collegarli tutti fra loro.
Io e Gigino passavamo le giornate assieme a un gruppo di ragazzini in giro per i vicoli del paese. Ammiravamo come un personaggio da circo il banditore, un omino che con una trombetta annunciava l’arrivo di una merce nuova da comprare. Ci accanivamo con divertimento a distruggere con una lunga canna i nidi di rondine sotto i cornicioni dei tetti.
Saracinesco è rimasto un ricordo vivo e selvaggio, come poteva esserlo per un adulto di quegli anni essere andato a combattere volontario in Africa.
Al ritorno da Saracinesco non mi mancavano nemmeno le cicatrici. Mi ruppi il mento cadendo su uno scalino, mentre giocavo a “guardie e ladri”; e il giorno in cui compivo sei anni, mi ruppi la testa precipitando a capofitto dal muretto di cinta di un cimitero abbandonato, frequentato ormai solo da vacche al pascolo.
                              (continua al post successivo)   

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