domenica 20 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 5° Capitolo: "Roma nel dopoguerra".


Intanto la mia famiglia aveva cambiato di nuovo casa. La Banca benefattrice ci aveva installati, assieme a molte altre famiglie di impiegati, in un palazzo ottocentesco, Palazzo Frascara, in Piazza della Pilotta, una grande piazza nel cuore di Roma, a due passi dalla Fontana di Trevi.
Occupavamo in quattro famiglie un appartamento di cinque o sei stanze. Le stanze più grandi erano state divise con pareti di cartone. La nostra famiglia, che contava adesso sei persone, perché era venuta a stare con noi Emilia, una cugina che aveva perduto la mamma, era la più numerosa e occupava due camere. Io dormivo su un materasso che la sera si stendeva sulla tavola. Tutti cucinavano con il Primus, un fornellino a spirito che era allora l’unica risorsa. In fondo ad un lungo e largo corridoio c’era la cucina, molto spaziosa, che usavamo solo noi. Mangiavamo in piatti di stagno e bevevamo in bicchieri di alluminio. Le altre famiglie cucinavano nelle loro stanze. La mattina, nell’anticamera del bagno, gli uomini si radevano a turno, due alla volta, davanti a un piccolo specchio attaccato a un chiodo, sfruttando ciascuno le pause dell’altro. Anche in questa nuova casa mi sembrava di avere tanto spazio a disposizione e mi sentivo libero come in un castello.
A parte l’edificio solenne e artificioso della Pontificia Università Gregoriana, che guardava la piazza dalla sua posizione alta e dominante, il nostro era il palazzo più grande e più ornato. Aveva un magnifico portone con ai lati due colonne che sostenevano un classico balcone con la balaustrata di marmo, e ben sessanta finestre sul davanti, tutte incorniciate, le cui persiane verdi splendevano sul giallo ocra della facciata. Superato il portone, dove vigilava il collerico portiere sor Ferdinando,  nemico e persecutore dei ragazzi, prima di arrivare ad un piccolo cortile interno, c’erano, a destra e a sinistra, due larghi scaloni che portavano agli appartamenti abitati dagli impiegati. 
Il traffico di automobili era quasi inesistente. Se rimanevo a poltrire un po’ nel letto, il lungo scoppiettìo di un motorino che risaliva tutta la piazza mi sembrava una irruzione di improvvisa allegria nella quieta immobilità del mattino. Di giorno, per trasportare le merci, circolavano ancora grossi carri tirati da cavalli che rotolavano con fragore sul selciato. Tutta la piazza apparteneva solo a noi, che ne eravamo gli unici abitanti, e i ragazzi la occupavano con i loro giochi, quando il tempo lo consentiva, anche la sera dopo cena. Gli altri palazzi erano di proprietà di istituti religiosi dipendenti dal Vaticano, che vi tenevano i loro uffici.
Sulle scale della Gregoriana veniva tutti i giorni a chiedere l’elemosina un ragazzo di forse dodici anni che noi chiamavamo Cappellone, perché portava un grande berretto con la visiera calcato fin sulle orecchie, come il monello di Chaplin. Lui non si allontanava mai dal portone della Gregoriana, aspettando il passaggio dei preti studenti, provenienti da tutto il mondo, con le loro sorprendenti tonache rosse, bianche o viola, ed era diventato amico di tutti i ragazzi della piazza. Una volta mio padre lo invitò a casa a mangiare con noi. Dopo il pranzo, zia Francesca gettò nella spazzatura il piatto dove aveva mangiato.
I gruppi di tonache colorate e svolazzanti appartenenti ai giovani preti ciarlieri della Gregoriana spiccavano in modo vistoso, portando l’eco di un bel mondo lontano, in una piazza, anzi in un quartiere ancora serio, chiuso, povero, dove la gente viveva e vestiva con estrema modestia e i negozi erano bottegucce molto popolari illuminate da deboli lampadine.
In tutte le stradine attorno (via dei Lucchesi, via dell’Umiltà, via della Stamperia) c’era un continuo viavai di gente semplice e affaccendata, che affollava i negozietti, le latterie e il mercato di via del Lavatore. Benché fossimo nel centro di Roma, la vita si svolgeva dentro i confini ristretti di un paese. I bambini, anche i più piccoli, andavano a scuola da soli. In Largo Pietro di Brazzà, ogni mattina, ce n’era almeno un centinaio davanti alla scuola elementare, aspettando di entrare. La scuola era stata intitolata in anni recenti a Carlo Mazzaresi, un sottotenente morto a 22 anni nella Grande Guerra, ma era vecchissima, ospitata in un palazzo storico costruito addirittura nel Cinquecento. I banchi e le altre suppellettili erano decrepiti, di un’epoca lontana, i pavimenti erano antichi e malandati, le porte e le pareti dei corridoi e delle stanze erano state riverniciate, nel corso dei decenni, ogni volta con strati di colore dati l’uno sull’altro, senza una preventiva raschiatura; perciò le aule non avevano niente di austero né di serio, ma sembravano luoghi approssimativi, senza carattere. Però quell’aria di abbandono e di disfacimento a me piaceva:  creava una indeterminata atmosfera provvisoria, fuori del mondo reale, che dava alla scuola l’aspetto di un luogo di gioco e d’evasione.
Nella mia aula la cattedra era addossata al muro che dava sulla strada, nello spazio fra due finestre. Dei miei compagni di classe non ricordo né un nome né un viso. Solo del mio compagno di banco sono rimasti vivi nella mia memoria il cognome e una pallida immagine, perché da lui emanava una puzza insopportabile. Io ne parlavo con mio fratello, che frequentava la quinta classe nella stessa scuola elementare, chiamandolo “Sabatini che puzza” e il suo ricordo, ancora moltissimi anni dopo, era fra noi un motivo di scherzo. Non so capire da dove provenisse la puzza del povero Sabatini: era un atroce miscuglio di cacca, di alito fetido e di sudiciume.
Proprio sullo spigolo della cantonata, a pochi metri dal portone della scuola, fra le due entrate di una latteria, arrivava ogni pomeriggio con la sua seggioletta il mitico “nonnetto” romano ed esponeva la sua mercanzia dentro una cassetta appoggiata su uno sgabello. Pagandolo una lira l’uno, ci si poteva saziare di “pescetti” (pezzetti di liquirizia a forma di pesce), che erano come l’insegna e il piatto forte di ogni nonnetto romano. Ma non mancavano altre leccornìe, come bruscolini, sciuscelle (cioè le carrube), castagne secche, gelati di spuma, e cianfrusaglie meravigliose come biglie di terracotta, vecchi giornalini a fumetti e piccoli petardi  chiamati le “scoregge del Negus”.
Ogni giardino pubblico di Roma, ogni cinema parrocchiale, ogni scuola, ogni strada affollata di famiglie ha avuto, fino a metà degli anni Cinquanta, il suo nonnetto.  La sua presenza era un rassicurante motivo di benessere: dove c’era un nonnetto, c’erano giochi pacifici di ragazzi, lieti della prospettiva di poter comprare qualcosa al suo banchettino delle meraviglie.
Tutti gli abitanti del nostro palazzo gravitavano attorno alla Basilica dei Santi Apostoli che, benché fosse vicinissima a noi, collegata da una breve stradina, via del Vaccaro, segnava il confine invalicabile del nostro mondo infantile. Al di là della Basilica, si aprivano i grandi spazi di Piazza Venezia, dove ci si avventurava solo accompagnati dai genitori. Ai Santi Apostoli noi ragazzi eravamo di casa, spettatori e servitori di messe e di altre solenni cerimonie. Io ero troppo piccolo per fare il chierichetto, ma qualche volta i grandi si degnarono di farmi reggere la navicella dell’incenso. Lì cominciò e finì tutta la mia esperienza di partecipante attivo alle funzioni religiose. Probabilmente, dei tanti elementi della vita di chiesa (l’atmosfera, gli odori, le parole, l’intonazione delle voci, i canti, le facce), non mi piacque niente. E in seguito, a parte un breve periodo di scolastico fervore, favorito, verso gli undici anni, dal corso di catechismo per prepararmi alla Prima Comunione, mi sono sempre sentito estraneo ai riti della religione. Ma allora frequentavo molto volentieri i Santi Apostoli, al seguito di mio fratello Gigino. Le domeniche d’inverno i preti allestivano in una saletta della chiesa un cinemino improvvisato per proiettare film a passo ridotto come Tom Mix e I Miserabili. Era fredda e vuota Piazza della Pilotta la domenica d’inverno,  mentre attraversavamo la sua parte più bassa verso il cinemino dei Santi Apostoli! In alto, sul portone della Gregoriana, sostava in servizio Livio, un giovane commesso, alto e compìto, che faceva la corte a mia cugina Emilia, sedicenne, con occhiate e forse anche con parole. Per conquistarsi la nostra simpatia, mia e di Gigino, un giorno, sollevando le mani, ci aveva chiesto con il suo ingenuo accento veneto: “Guardate! Non ho delle mani da pianista?”. Mio padre aveva saputo di questa infatuazione (forse glielo avevamo detto noi: chissà!) e, secondo la sua moralità severa, che prendeva in considerazione solo i sentimenti sublimi, aveva ritenuto che Livio non avesse le qualità per aspirare alla mano di Emilia. Un pomeriggio, mentre io e Gigino andavamo al cinema, vedendo Livio in alto sulle scale della Gregoriana, mi misi a gridare nella piazza deserta, resistendo a mio fratello che  cercava di trascinarmi via: “Lo sai che cosa ha detto mio padre? Che tu pulisci i gabinetti ai preti. Hai capito? E che gli vuoti anche i vasi da notte”.
Io non avevo niente contro Livio: ero solo un messaggero irresponsabile. Avevo anzi simpatia per lui, perché era gentile e ogni tanto offriva un centinaio di lire a qualche gruppetto di noi ragazzi perché caricassimo su un camioncino delle sedie da portare per una conferenza o una cerimonia in qualche istituto delle vicinanze. I ragazzi viaggiavano assieme alle sedie e, arrivati a destinazione, aiutavano a scaricarle. Il più grande di noi incassava i soldi e subito ci prendeva l’ansia di spenderli. Tutto il gruppetto girava a lungo per le stradine attorno alla Fontana di Trevi cercando una buona occasione, che finiva inevitabilmente con il ridursi all’acquisto di qualcosa da mangiare.
                         (continua al post successivo)

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