Intanto la mia famiglia aveva
cambiato di nuovo casa. La Banca
benefattrice ci aveva installati, assieme a molte altre famiglie di impiegati,
in un palazzo ottocentesco, Palazzo Frascara, in Piazza della Pilotta, una
grande piazza nel cuore di Roma, a due passi dalla Fontana di Trevi.
Occupavamo in quattro famiglie
un appartamento di cinque o sei stanze. Le stanze più grandi erano state divise
con pareti di cartone. La nostra famiglia, che contava adesso sei persone,
perché era venuta a stare con noi Emilia, una cugina che aveva perduto la
mamma, era la più numerosa e occupava due camere. Io dormivo su un materasso
che la sera si stendeva sulla tavola. Tutti cucinavano con il Primus, un
fornellino a spirito che era allora l’unica risorsa. In fondo ad un lungo e
largo corridoio c’era la cucina, molto spaziosa, che usavamo solo noi.
Mangiavamo in piatti di stagno e bevevamo in bicchieri di alluminio. Le altre
famiglie cucinavano nelle loro stanze. La mattina, nell’anticamera del bagno, gli
uomini si radevano a turno, due alla volta, davanti a un piccolo specchio
attaccato a un chiodo, sfruttando ciascuno le pause dell’altro. Anche in questa
nuova casa mi sembrava di avere tanto spazio a disposizione e mi sentivo libero
come in un castello.
A parte l’edificio solenne e
artificioso della Pontificia Università Gregoriana, che guardava la piazza
dalla sua posizione alta e dominante, il nostro era il palazzo più grande e più
ornato. Aveva un magnifico portone con ai lati due colonne che sostenevano un
classico balcone con la balaustrata di marmo, e ben sessanta finestre sul
davanti, tutte incorniciate, le cui persiane verdi splendevano sul giallo ocra
della facciata. Superato il portone, dove vigilava il collerico portiere sor
Ferdinando, nemico e persecutore dei
ragazzi, prima di arrivare ad un piccolo cortile interno, c’erano, a destra e a
sinistra, due larghi scaloni che portavano agli appartamenti abitati dagli
impiegati.
Il traffico di automobili era
quasi inesistente. Se rimanevo a poltrire un po’ nel letto, il lungo
scoppiettìo di un motorino che risaliva tutta la piazza mi sembrava una
irruzione di improvvisa allegria nella quieta immobilità del mattino. Di
giorno, per trasportare le merci, circolavano ancora grossi carri tirati da
cavalli che rotolavano con fragore sul selciato. Tutta la piazza apparteneva
solo a noi, che ne eravamo gli unici abitanti, e i ragazzi la occupavano con i loro
giochi, quando il tempo lo consentiva, anche la sera dopo cena. Gli altri
palazzi erano di proprietà di istituti religiosi dipendenti dal Vaticano, che
vi tenevano i loro uffici.
Sulle scale della Gregoriana
veniva tutti i giorni a chiedere l’elemosina un ragazzo di forse dodici anni
che noi chiamavamo Cappellone, perché portava un grande berretto con la visiera
calcato fin sulle orecchie, come il monello di Chaplin. Lui non si allontanava
mai dal portone della Gregoriana, aspettando il passaggio dei preti studenti,
provenienti da tutto il mondo, con le loro sorprendenti tonache rosse, bianche
o viola, ed era diventato amico di tutti i ragazzi della piazza. Una volta mio
padre lo invitò a casa a mangiare con noi. Dopo il pranzo, zia Francesca gettò
nella spazzatura il piatto dove aveva mangiato.
I gruppi di tonache colorate e
svolazzanti appartenenti ai giovani preti ciarlieri della Gregoriana spiccavano
in modo vistoso, portando l’eco di un bel mondo lontano, in una piazza, anzi in
un quartiere ancora serio, chiuso, povero, dove la gente viveva e vestiva con
estrema modestia e i negozi erano bottegucce molto popolari illuminate da
deboli lampadine.
In tutte le stradine attorno
(via dei Lucchesi, via dell’Umiltà, via della Stamperia) c’era un continuo
viavai di gente semplice e affaccendata, che affollava i negozietti, le
latterie e il mercato di via del Lavatore. Benché fossimo nel centro di Roma,
la vita si svolgeva dentro i confini ristretti di un paese. I bambini, anche i
più piccoli, andavano a scuola da soli. In Largo Pietro di Brazzà, ogni
mattina, ce n’era almeno un centinaio davanti alla scuola elementare,
aspettando di entrare. La scuola era stata intitolata in anni recenti a Carlo
Mazzaresi, un sottotenente morto a 22 anni nella Grande Guerra, ma era
vecchissima, ospitata in un palazzo storico costruito addirittura nel
Cinquecento. I banchi e le altre suppellettili erano decrepiti, di un’epoca
lontana, i pavimenti erano antichi e malandati, le porte e le pareti dei
corridoi e delle stanze erano state riverniciate, nel corso dei decenni, ogni
volta con strati di colore dati l’uno sull’altro, senza una preventiva
raschiatura; perciò le aule non avevano niente di austero né di serio, ma
sembravano luoghi approssimativi, senza carattere. Però quell’aria di abbandono
e di disfacimento a me piaceva: creava una
indeterminata atmosfera provvisoria, fuori del mondo reale, che dava alla
scuola l’aspetto di un luogo di gioco e d’evasione.
Nella mia aula la cattedra era
addossata al muro che dava sulla strada, nello spazio fra due finestre. Dei
miei compagni di classe non ricordo né un nome né un viso. Solo del mio compagno
di banco sono rimasti vivi nella mia memoria il cognome e una pallida immagine,
perché da lui emanava una puzza insopportabile. Io ne parlavo con mio fratello,
che frequentava la quinta classe nella stessa scuola elementare, chiamandolo
“Sabatini che puzza” e il suo ricordo, ancora moltissimi anni dopo, era fra noi
un motivo di scherzo. Non so capire da dove provenisse la puzza del povero
Sabatini: era un atroce miscuglio di cacca, di alito fetido e di sudiciume.
Proprio sullo spigolo della
cantonata, a pochi metri dal portone della scuola, fra le due entrate di una
latteria, arrivava ogni pomeriggio con la sua seggioletta il mitico “nonnetto”
romano ed esponeva la sua mercanzia dentro una cassetta appoggiata su uno
sgabello. Pagandolo una lira l’uno, ci si poteva saziare di “pescetti”
(pezzetti di liquirizia a forma di pesce), che erano come l’insegna e il piatto
forte di ogni nonnetto romano. Ma non mancavano altre leccornìe, come
bruscolini, sciuscelle (cioè le carrube), castagne secche, gelati di spuma, e
cianfrusaglie meravigliose come biglie di terracotta, vecchi giornalini a
fumetti e piccoli petardi chiamati le
“scoregge del Negus”.
Ogni giardino pubblico di Roma,
ogni cinema parrocchiale, ogni scuola, ogni strada affollata di famiglie ha avuto,
fino a metà degli anni Cinquanta, il suo nonnetto. La sua presenza era un rassicurante motivo di
benessere: dove c’era un nonnetto, c’erano giochi pacifici di ragazzi, lieti
della prospettiva di poter comprare qualcosa al suo banchettino delle meraviglie.
Tutti gli abitanti del nostro
palazzo gravitavano attorno alla Basilica dei Santi Apostoli che, benché fosse
vicinissima a noi, collegata da una breve stradina, via del Vaccaro, segnava il
confine invalicabile del nostro mondo infantile. Al di là della Basilica, si
aprivano i grandi spazi di Piazza Venezia, dove ci si avventurava solo
accompagnati dai genitori. Ai Santi Apostoli noi ragazzi eravamo di casa,
spettatori e servitori di messe e di altre solenni cerimonie. Io ero troppo
piccolo per fare il chierichetto, ma qualche volta i grandi si degnarono di
farmi reggere la navicella dell’incenso. Lì cominciò e finì tutta la mia
esperienza di partecipante attivo alle funzioni religiose. Probabilmente, dei
tanti elementi della vita di chiesa (l’atmosfera, gli odori, le parole,
l’intonazione delle voci, i canti, le facce), non mi piacque niente. E in
seguito, a parte un breve periodo di scolastico fervore, favorito, verso gli
undici anni, dal corso di catechismo per prepararmi alla Prima Comunione, mi
sono sempre sentito estraneo ai riti della religione. Ma allora frequentavo
molto volentieri i Santi Apostoli, al seguito di mio fratello Gigino. Le
domeniche d’inverno i preti allestivano in una saletta della chiesa un cinemino
improvvisato per proiettare film a passo ridotto come Tom Mix e I Miserabili.
Era fredda e vuota Piazza della Pilotta la domenica d’inverno, mentre attraversavamo la sua parte più bassa
verso il cinemino dei Santi Apostoli! In alto, sul portone della Gregoriana,
sostava in servizio Livio, un giovane commesso, alto e compìto, che faceva la
corte a mia cugina Emilia, sedicenne, con occhiate e forse anche con parole.
Per conquistarsi la nostra simpatia, mia e di Gigino, un giorno, sollevando le
mani, ci aveva chiesto con il suo ingenuo accento veneto: “Guardate! Non ho
delle mani da pianista?”. Mio padre aveva saputo di questa infatuazione (forse
glielo avevamo detto noi: chissà!) e, secondo la sua moralità severa, che
prendeva in considerazione solo i sentimenti sublimi, aveva ritenuto che Livio
non avesse le qualità per aspirare alla mano di Emilia. Un pomeriggio, mentre
io e Gigino andavamo al cinema, vedendo Livio in alto sulle scale della
Gregoriana, mi misi a gridare nella piazza deserta, resistendo a mio fratello
che cercava di trascinarmi via: “Lo sai
che cosa ha detto mio padre? Che tu pulisci i gabinetti ai preti. Hai capito? E
che gli vuoti anche i vasi da notte”.
Io non avevo niente contro
Livio: ero solo un messaggero irresponsabile. Avevo anzi simpatia per lui,
perché era gentile e ogni tanto offriva un centinaio di lire a qualche
gruppetto di noi ragazzi perché caricassimo su un camioncino delle sedie da
portare per una conferenza o una cerimonia in qualche istituto delle vicinanze.
I ragazzi viaggiavano assieme alle sedie e, arrivati a destinazione, aiutavano
a scaricarle. Il più grande di noi incassava i soldi e subito ci prendeva
l’ansia di spenderli. Tutto il gruppetto girava a lungo per le stradine attorno
alla Fontana di Trevi cercando una buona occasione, che finiva inevitabilmente
con il ridursi all’acquisto di qualcosa da mangiare.
(continua al post successivo)

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