Fino all’età di quasi
quarant’anni, ho avuto una grande considerazione per mio padre; tutti i suoi
difetti mi sembravano piccoli e trascurabili. Ma poi lui fece qualcosa che mi scosse
e mi aprì gli occhi. E tutte le sue azioni passate acquistarono un nuovo
significato, saldandosi l’una all’altra con una inevitabile coerenza.
Alla sua morte, infine, lasciò
un testamento così strampalato, che me lo rese irrevocabilmente estraneo e mi
ha spinto a rompere i rapporti con la mia famiglia d’origine.
Nel mio racconto mio padre è apparso
finora quasi come il protagonista, e in effetti lo è stato, perché, prima, lui sembrava
una grande figura biblica e poi ha
rappresentato, invece, tutto ciò che, col tempo, ho finito per detestare di più,
e cioè, per dirlo con un unico concetto, uno scientifico, meticoloso e
onnipresente spirito utilitaristico. Per esempio, mi ripeteva di continuo: "Fai bene a leggere, ma tutto questo leggere, se non lo metti a frutto, non serve a niente".
Con la sua figura conservo ora,
nel ricordo, un legame di vicinanza fisica, che mi piace coltivare guardando e
toccando le poche cose che ho portato via dalla casa di Roma, quando è stata
svuotata e venduta: il vecchio orologio a pendolo di prima della guerra; una
leggera vestaglia finemente rattoppata, che era già vecchia quando la presi vent’anni
fa e che indosso ancora con piacere; una vecchia rubrica di numeri telefonici,
che con le annotazioni di anni e anni era diventata una piccola enciclopedia di
consigli pratici su come togliere le
macchie e cucinare buoni piatti; e qualche altro piccolo e non più utilizzabile
oggetto di casa. Inoltre, ogni volta che passo accanto a un cespuglio di alloro, mi piace strapparne una foglia e spezzarla per annusarne l'aroma. Quel profumo mi riporta irresistibilmente alle passeggiate che facevamo con nostro padre attraverso i giardini di Roma.
Quella
famigliarità fisica si era costruita nell’infanzia e nell’adolescenza in una
vita domestica molto stretta. Eravamo sempre stati vicini fisicamente, e io e Gigino avevamo un tale trasporto per lui, che, benché fossimo ancora ragazzi, lo comprendevamo molto più di quanto lui comprendesse noi, e gli concedevamo molto, per affetto, per
ammirazione e, forse, qualche volta, anche per pietà.
Io ero felice di servirlo. Se
aveva mal di schiena, gli facevo delle strofinazioni con il Balsamo Atophan; se
aveva mal di gola, riscaldavo con un ferro da stiro, accanto al suo letto,
delle pezze di lana che lui si metteva sul petto; quando pioveva, andavo ad
aspettarlo, di ritorno dall’ufficio, ad una lontana fermata del tram con
l’unico ombrello di casa.
Lui accettava tutto come se
fosse normale e dovuto, senza commuoversi e senza ringraziare. Anzi, come ho già detto, gli piaceva
ripeterci: “Avete tutti i difetti di
vostra madre e nemmeno un pregio di vostro padre”. E non gli dispiaceva aggiungere
(chissà perché, visto che nessuno attentava alle sue proprietà): “In questa casa, nemmeno uno spillo è
vostro”.
Chi potrebbe credere che il suo
motto preferito era: la generosità è la
virtù più bella ?
A mio padre piaceva impersonare la
parte di chi esorta e ammonisce, ma non si preoccupava né che le sue massime
fossero coerenti fra loro né che potessero conciliarsi con le sue azioni.
Un’altra massima fondamentale,
per esempio, era questa: “Bisogna
lavorare poco e quel poco farlo fare agli altri”. Questo principio, che
sembra piuttosto una battuta umoristica, non era proclamato per scherzo, ma era parte
organica di quella qualità sovrana che lui perseguiva e che chiamava “saper fare”. Durante il
mio servizio di leva, quando dal Centro addestramento reclute di Pistoia fui
trasferito al reggimento a Mestre, mi scrisse: “Bravo! di essere riuscito ad infilarti in ufficio anche lì a Mestre;
così la vita ti sembrerà meno dura e più riposante”.
La vera qualità di mio padre
era una specie di cinismo, che mi pare di scorgere meglio soltanto adesso,
collegando insieme tanti fuggevoli aspetti della sua personalità: una profonda
aridità morale provocata da una lontananza incolmabile dagli altri esseri
umani.
Quando, prima di sposarsi, faceva
il tipografo a Pescara, ogni giorno dava i soldi contati per fare la spesa alle
due sorelle, con cui viveva. Emma e Nerina riuscivano a risparmiare due o
tre centesimi, che dopo qualche mese diventarono poche lire. Ingenuamente lo
dissero al fratello, che immediatamente sequestrò quel misero gruzzoletto.
All’inizio degli anni Settanta,
morì a Chieti a novant’anni mia nonna
materna (io vivevo già a Firenze); mio padre me lo disse solo sei mesi dopo,
giustificandosi con disinvoltura: “Non volevo darti
un dispiacere”.
Però, quando ebbe finalmente
deposto la sua maschera di patriarca edificante, nel suo animo arido apparve un guizzo beffardo che oggi mi è quasi simpatico.
Poche ore prima di morire, a me
che ero venuto a Roma per vederlo e gli dicevo che se la sarebbe cavata anche questa volta,
sussurrò: “Ecco: è arrivato il salvatore!”.
(continua al post successivo)


