lunedì 28 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 22° Capitolo: "Mio padre".


Fino all’età di quasi quarant’anni, ho avuto una grande considerazione per mio padre; tutti i suoi difetti mi sembravano piccoli e trascurabili. Ma poi lui fece qualcosa che mi scosse e mi aprì gli occhi. E tutte le sue azioni passate acquistarono un nuovo significato, saldandosi l’una all’altra con una inevitabile coerenza.
Alla sua morte, infine, lasciò un testamento così strampalato, che me lo rese irrevocabilmente estraneo e mi ha spinto a rompere i rapporti con la mia famiglia d’origine.
Nel mio racconto mio padre è apparso finora quasi come il protagonista, e in effetti lo è stato, perché, prima, lui sembrava una grande figura biblica e poi  ha rappresentato, invece, tutto ciò che, col tempo, ho finito per detestare di più, e cioè, per dirlo con un unico concetto, uno scientifico, meticoloso e onnipresente spirito utilitaristico. Per esempio, mi ripeteva di continuo: "Fai bene a leggere, ma tutto questo leggere, se non lo metti a frutto, non serve a niente".
Con la sua figura conservo ora, nel ricordo, un legame di vicinanza fisica, che mi piace coltivare guardando e toccando le poche cose che ho portato via dalla casa di Roma, quando è stata svuotata e venduta: il vecchio orologio a pendolo di prima della guerra; una leggera vestaglia finemente rattoppata, che era già vecchia quando la presi vent’anni fa e che indosso ancora con piacere; una vecchia rubrica di numeri telefonici, che con le annotazioni di anni e anni era diventata una piccola enciclopedia di consigli pratici su  come togliere le macchie e cucinare buoni piatti; e qualche altro piccolo e non più utilizzabile oggetto di casa. Inoltre, ogni volta che passo accanto a un cespuglio di alloro, mi piace strapparne una foglia e spezzarla per annusarne l'aroma. Quel profumo mi riporta irresistibilmente alle passeggiate che facevamo con nostro padre attraverso i giardini di Roma.
Quella famigliarità fisica si era costruita nell’infanzia e nell’adolescenza in una vita domestica molto stretta. Eravamo sempre stati vicini fisicamente, e io e Gigino avevamo un tale trasporto per lui, che, benché fossimo ancora ragazzi, lo comprendevamo molto più di quanto lui comprendesse noi, e gli concedevamo molto, per affetto, per ammirazione e, forse, qualche volta, anche per pietà.
Io ero felice di servirlo. Se aveva mal di schiena, gli facevo delle strofinazioni con il Balsamo Atophan; se aveva mal di gola, riscaldavo con un ferro da stiro, accanto al suo letto, delle pezze di lana che lui si metteva sul petto; quando pioveva, andavo ad aspettarlo, di ritorno dall’ufficio, ad una lontana fermata del tram con l’unico ombrello di casa.
Lui accettava tutto come se fosse normale e dovuto, senza commuoversi e senza ringraziare. Anzi, come ho già detto, gli piaceva ripeterci: “Avete tutti i difetti di vostra madre e nemmeno un pregio di vostro padre”. E non gli dispiaceva aggiungere (chissà perché, visto che nessuno attentava alle sue proprietà): “In questa casa, nemmeno uno spillo è vostro”.
Chi potrebbe credere che il suo motto preferito era: la generosità è la virtù più bella ?
A mio padre piaceva impersonare la parte di chi esorta e ammonisce, ma non si preoccupava né che le sue massime fossero coerenti fra loro né che potessero conciliarsi con le sue azioni.
Un’altra massima fondamentale, per esempio, era questa: “Bisogna lavorare poco e quel poco farlo fare agli altri”. Questo principio, che sembra piuttosto una battuta umoristica, non era proclamato per scherzo, ma era parte organica di quella qualità sovrana che lui perseguiva e che chiamava “saper fare”. Durante il mio servizio di leva, quando dal Centro addestramento reclute di Pistoia fui trasferito al reggimento a Mestre, mi scrisse: “Bravo! di essere riuscito ad infilarti in ufficio anche lì a Mestre; così la vita ti sembrerà meno dura e più riposante”.
La vera qualità di mio padre era una specie di cinismo, che mi pare di scorgere meglio soltanto adesso, collegando insieme tanti fuggevoli aspetti della sua personalità: una profonda aridità morale provocata da una lontananza incolmabile dagli altri esseri umani.
Quando, prima di sposarsi, faceva il tipografo a Pescara, ogni giorno dava i soldi contati per fare la spesa alle due sorelle, con cui viveva. Emma e Nerina riuscivano a risparmiare due o tre centesimi, che dopo qualche mese diventarono poche lire. Ingenuamente lo dissero al fratello, che immediatamente sequestrò  quel misero gruzzoletto.
All’inizio degli anni Settanta, morì a Chieti a novant’anni  mia nonna materna (io vivevo già a Firenze); mio padre me lo disse solo sei mesi dopo, giustificandosi con disinvoltura: “Non volevo darti un dispiacere”.
Però, quando ebbe finalmente deposto la sua maschera di patriarca edificante, nel suo animo arido apparve un guizzo beffardo che oggi mi è quasi simpatico.
Poche ore prima di morire, a me che ero venuto a Roma per vederlo e gli dicevo che se la sarebbe cavata anche questa volta, sussurrò: “Ecco: è arrivato il salvatore!”. 
                           
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domenica 27 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 21° Capitolo: "Zia Francesca (mammà)".

Zia Francesca è stata una figura innocente e tragica. A causa di disturbi nervosi, non poteva uscire da sola né rimanere sola in casa. Tutta la sua vita è stata perciò segnata dalla dipendenza dagli altri, e lei è rimasta in famiglia sempre in una posizione appartata e inferiore. La sua solitudine è stata più drammatica per il fatto che lei non sapeva esprimersi in modo ampio e chiaro. Non era facile fare con lei una vera e prolungata conversazione: si poteva parlare solo a brandelli, a sussulti, e solo a tu per tu, come in confessione. Rimuginava sempre vaghi e lontani pensieri e la sua attenzione non era mai del tutto presente.
Il mondo fuori del nucleo più strettamente famigliare, direi quasi il mondo al di là dei tre figli veramente suoi, le appariva come un mondo estraneo e nemico, per il quale lei non aveva né amore né comprensione.
Gigino, che conservava il ricordo della vera madre, non si affezionò mai alla zia e non le perdonò mai le botte ricevute da bambino (di cui mammà era prodiga anche con me), quando per consolarsi andava a piangere accanto a un attaccapanni affondando il viso nel panno di una giacca o di un cappotto di nostro padre.
Nemmeno zia Francesca, del resto, si era affezionata a lui e la prematura morte di Gigino, tre anni prima della sua, la sfiorò appena. Mammà non conosceva sfumature: o amava in modo viscerale o provava solo indifferenza.
Però il suo rimuginare non era del tutto vano, perché a volte mi sorprendeva per una grande capacità di penetrazione psicologica, che rivelava capacità di osservare e una sensibilità dolorosa.
Istintiva com’era, aveva ogni tanto degli slanci di generosità ispirati dal solo e libero piacere di dare, senza alcun calcolo né considerazione per convenzioni e cerimonie.
Della sorella maggiore, che era stata la prima moglie di nostro padre, parlò sempre con affetto e ammirazione, ed io, diventato adulto, ho apprezzato la lealtà di questo sentimento.
Per mio padre zia Francesca non fu una compagna facile, perché era molto emotiva e suscettibile e molto instabile. Certamente mio padre soffrì di quella situazione. Mammà poteva avere all’improvviso uno scatto nervoso ed esplodere in un atto inconsulto, come gettare dalla finestra un piatto di fettine di carne impanate e fritte, pronte per la cena.
Però queste scene non erano mai in realtà del tutto improvvise e imprevedibili, ma preparate dalla calma insensibile di mio padre, che la trattava come una bambina e la rimproverava per ogni  sciocchezza: la minestra salata, una macchia sul grembiule, la fiamma del gas troppo alta, troppo consumo di olio d’oliva, e altre miserabilità.
Quando una lite era scoppiata, io e Gigino parteggiavamo per nostro padre, dal quale ci sentivamo vendicati. Mammà in quelle occasioni, certo per uno scatto di dignità e di fierezza, si vestiva bene come per uscire, si pettinava con cura e si dava il rossetto. Rimaneva in piedi, in cucina, addossata a una credenza, con le braccia conserte, fremente di dolorosa ribellione. Mio padre si sedeva a capotavola, lontano da lei. Io e Gigino ci sedevamo ai due lati di nostro padre. A quel tempo, queste liti mi divertivano quasi come uno spettacolino teatrale, ma da molti anni, nel ricordo, la stanza di cucina dove si svolgevano quelle discussioni mi appare una insopportabile camera di tortura.
Mammà non sapeva parlare, non sapeva spiegarsi. Per chiunque sarebbe stato difficile individuare e analizzare le colpe di nostro padre, che, con implacabile calma, non faceva che vantare la propria dedizione alla famiglia. Mammà inveiva, lanciava frasi smozzicate, che nostro padre, senza pietà, volgeva in ridicolo.
Zia Francesca rimaneva alla fine smarrita e impotente. Ma nella solitudine e nell’incomprensione che la circondavano, mantenne sempre un grande pudore: non ha mai implorato, non ha mai pianto, perché, nonostante avesse difficoltà ad esprimere il suo stato d’animo, aveva mantenuto sempre viva la consapevolezza delle proprie ragioni.
A me, quando ero già grande, sussurrava, rivolgendosi a tutti gli altri membri della famiglia: “Voi non lo conoscete, voi non lo conoscete”.
A scuola, era arrivata solo alla terza elementare. Sperando di poter migliorare il suo modo di esprimersi e di poter conversare con più disinvoltura, quando io ero liceale, mi chiese se le insegnavo un po’ di grammatica e di aritmetica. Faceva con diligenza e umiltà  gli esercizi del sussidiario. Per un anno, o forse due, tenne sempre sotto mano libro e quaderno.
La sua idea fissa era la salute.
Ma ti trovo bene, ti trovo bene”, diceva palpandomi il torace e le braccia, quando tornavo in visita a Roma. E, riferendosi alle mie figlie: “A quelle due ragazze, fagli fare una buona curetta”. Accanto alla salute, come sua condizione necessaria, l’altro pensiero fisso era il mangiare. “Ti faccio una frittata? Vuoi una fettina? Dimmi quello che vuoi: non hai mangiato niente!”, chiedeva con insistenza, quando eravamo già arrivati al caffè.
Con mio padre ha lottato per più di quarant’anni, però gli ha voluto sinceramente bene e, nelle poche lettere che gli ha scritto da luoghi di villeggiatura, ha saputo esprimere il suo affetto in modo commovente. “Pensami qualche volta come ti penso io”; e ancora: “Come vedi il mio primo pensiero sei tu. Son arrivata a Chieti alle nove e tre quarti… Non ti dico le impressioni appena arrivati a casa perché tu ne rideresti, mi sentivo sola ed una infinita tristezza mi à assalita non sapevo capacitarmi a restar cosi sola lontana da te”…
Mio padre, invece, sapeva solo scrivere retoriche esortazioni e ammonimenti. "A fine mese ti manderò il danaro e tu sappine fare buon uso perché io per guadagnarlo debbo lavorare e in ogni lira c'è parte del mio sangue".
Durante i suoi ultimi giorni di vita, mammà baciava le mani del marito. Si sentiva in colpa per la sua malattia, e con un tono di scusa per il disturbo arrecato, diceva: “Quande ne stenghe a cumbenà!”. A me disse: “Domani mi voglio mettere a cucinare”.
“E che cosa vuoi cucinare?”.
“Quello che volete voi”.
                            
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giovedì 24 aprile 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 20° Capitolo: "Amici di famiglia".



Gino Santurbano e Gina Rapposelli, marito e moglie, abitavano con due figli ad un piano altissimo (l’ottavo o il decimo) di un enorme falansterio in Viale Eritrea, quasi allo sbocco in Piazza Santa Emerenziana. C’era fra noi, oltre alla comune origine abruzzese, anche un vago legame di parentela, perché lei, Gina, era sorella maggiore di Gigliola. Gigliola era moglie di zio Giovanni, fratello di mia madre. 
Per molti anni i Santurbano rappresentarono, da soli, gran parte della società che noi frequentavamo. In primavera e in autunno facevamo loro una visita pomeridiana in pompa magna.
Eravamo sempre noi a spostarci. Santurbano aveva avuto da giovane un incidente di motocicletta e camminava con difficoltà.
Andavamo a piedi, perché non c’era un autobus diretto e la distanza non era troppo grande.  Attraversavamo Via Nomentana all’altezza della chiesa di Santa Agnese e scendevamo in Piazza Annibaliano. Mio padre e zia Francesca si accomodavano nella camera da pranzo, seria e scura, e cominciavano le conversazioni. Da una parte del tavolo, l’una di fronte all’altra, sedevano le signore; dall’altro lato, sedevano fronteggiandosi mio padre e il padrone di casa.
Santurbano e la moglie sembravano usciti da una antica foto color seppia. Se fossero stati più giovani, avrebbero avuto l’aspetto di quegli innamorati che sulle cartoline illustrate di prima della guerra si sorridevano, stringendosi a un albero sulla cui corteccia era inciso un cuore trafitto da una freccia.
Il loro viso e la loro mimica avevano ancora l’espressività esagerata degli attori del cinema muto, di cui certo si erano nutriti da ragazzi. Lei era una bella donna che sorrideva molto e sbatteva molto i grandi e begli occhi grigi. Aveva una voce sottile e argentina, che l’accento dialettale del suo paese d’Abruzzo (Città S. Angelo) rendeva famigliare e più musicale.
Lui era alto e robusto. Aveva un bel viso massiccio, come un eroe dei fumetti d’anteguerra, Dick Fulmine, e un naso forte e potente. I capelli color nocciola erano pettinati sempre alla perfezione, con un rispetto scrupolosissimo della riga, che correva, sul lato destro della testa, diritta chiara e immutabile, come se fosse stata tracciata con un aratro. 
Santurbano aveva frequentato il liceo classico e ricordava ancora bene i verbi greci e latini. Quando ero alle medie e poi al ginnasio, ogni volta che mi vedeva, cominciava a farmi, con il suo tono da burbero benefico, una litania di domande:
“Vediamo che cosa ti insegnano a scuola. Dimmi il paradigma di crescěre”.
“E qual è la differenza fra cecĭdi e cecīdi?”.
“E le etimologie, si studiano ancora le etimologie? Conosci l’etimologia di otorinolaringoiatra? E di nostalgia?”.
“επραξάμην: che tempo è? Fammi l’analisi grammaticale”.
Prima che ciascuno prendesse posto dalla parte del tavolo che gli era assegnata, Santurbano, secondo l’usanza meridionale, chiedeva ai miei con aria golosa: “Beh, c’avet’ magnàt’ a mezziòrn?”, e, senza ascoltare la risposta, continuava: “A nù Gina cià cucenat’ du’ sagne col sugo d’agnello. Nu piatt’ da leccarsi i baffi, Vingè! Era rimasta nu poch’ di farina buona che ci avevano portata da Chieti, macinata al mulino Scatozza. Lu mulin’ Scatozz’, tu l’ sé addò stà, eh Vingè?”.
La conversazione fra zia Francesca e Gina Santurbano era difficile e saltellante come il tentativo di ricucire uno strappo in una stoffa troppo sfilacciata.
Zia Francesca era timida e sapeva solo ascoltare e ogni tanto aggiungere qualche frase di consenso o di meraviglia alle cose che raccontava Gina; oppure  coglieva un’occasione per descrivere con poche parole qualche piccolo episodio della nostra vita famigliare. Se Gina le faceva vedere le pagelle o i compiti dei figli con i bei voti degli insegnanti, anche zia Francesca non poteva fare a meno di parlare dei nostri successi scolastici, più o meno esagerati. Quei lunghi pomeriggi di conversazione, in cui bisognava ascoltare e stare attenti e, seppure solo ogni tanto, rispondere qualcosa di appropriato, dovevano essere un discreto supplizio per la povera zia Francesca.
Invece mio padre era perfettamente a suo agio e galleggiava come un sughero inaffondabile sul torrente oratorio di Santurbano. 
Lui era un cattolico devoto e un convinto anticomunista. Lavorava in un ente parastatale e leggeva, come gran parte dell’impiegatume romano di allora, il quotidiano Il Tempo. Mio padre aveva due o tre idee granitiche: la classe lavoratrice non deve più essere sfruttata; l’Unione Sovietica, grazie al comunismo, ha fatto passi da gigante verso il progresso; l’America sostiene la borghesia e il capitalismo. Santurbano partiva a testa bassa come un toro infuriato, ma mio padre non si lasciava mai smontare. Non perché avesse studiato questi problemi e sapesse rispondere con argomenti nuovi ed elaborati, ma solo perché, qualsiasi cosa dicesse l’avversario, lui gli opponeva il fondamentale problema: “Sì, ma la classe lavoratrice è stata troppo sfruttata. Io stesso ricordo di aver visto da ragazzino, al porto di Pescara, le povere contadine che caricavano pesanti ceste di carbone. Quando dovevano orinare, orinavano in piedi, semplicemente allargando le gambe”. E poi snocciolava qualche cifra sulla crescente produzione di acciaio o di elettricità dell’Unione Sovietica e sul suo meraviglioso sistema scolastico. Ma c’era un motivo più sostanziale per cui mio padre rimaneva tranquillo di fronte alle sfuriate di Santurbano: lui non si identificava con il problema, non si immedesimava negli sfruttati, e quella discussione non era una dichiarazione appassionata delle proprie convinzioni, ma piuttosto un passatempo e un divertimento.
Una sera Santurbano ci portò in visita, me e mio padre, da un dotto prelato che abitava vicino a casa sua, in una traversa di Viale Eritrea. Il prelato era grande e grosso, ma aveva le maniere soavi dei preti. Santurbano, rivolto verso di noi, ripeteva con più forza le ultime frasi dei ragionamenti del prete, come per dire: “Non c’è niente da fare. Convincetevi: è proprio così. Non si può obiettare niente. Bisogna crederci”. Il prete spiegò la presenza del male nel mondo con questa immagine meschina: “Gli uomini di fronte a Dio sono come dei bimbetti davanti al loro amato papà, che li adora. Se un figliolino sta male, il papà gli fa una iniezione per farlo star meglio. Ma il bimbo non può capire il significato e lo scopo di quel gesto; lui avverte un dolore e pensa che il papà sia cattivo e non gli voglia più bene. Ma noi sappiamo che le cose stanno diversamente, non è vero, amici cari?”.
Ad un certo momento, verso le dieci e mezza di sera, il prelato ci congedò bruscamente, perché, disse, aveva ancora da lavorare.   
I figli dei Santurbano erano Concettina e Mimmo. Lei era un po’ più grande di Gigino e lui un po’ più grande di me. Concettina sembrava una graziosa fragile e delicata bambola, con una vocina sottile sottile. Mimmo era uno spilungone che sapeva imitare le voci di Stanlio e Ollio.
Giocavamo correndo fra la cucina e la loro camera, che aveva un balcone altissimo su Viale Eritrea, dal quale potevo guardare con meraviglia, in basso, un fitto formicolio di gente e di vita. L’enorme palazzone in cui abitavano era stato costruito prima della guerra, e le stanze erano grandi e ben isolate. Il loro appartamento era arredato con mobili che già allora ricreavano l’atmosfera di un passato lontano. Sul tavolo della cucina era appoggiato per noi, a seconda della stagione, un vassoio di ciliegie o un grande piatto colmo di castagne lessate e già sbucciate.
Mimmo faceva la collezione di figurine dei calciatori. Ne aveva un grande mazzo legato con un elastico. Io non avevo soldi per comprarle. Frequentavo allora la quinta elementare o forse già la prima media. Chiesi a Mimmo se me le regalava, ma  naturalmente rifiutò, e io, mentre la sera stavamo per lasciare la loro casa e avevamo già indossato i nostri cappotti, nel trambusto dei saluti, andai in camera  sua e mi misi in tasca l’intero mazzo di figurine. Con mia meraviglia, non ho mai provato vergogna per quel gesto. Mimmo non mi affrontò mai per accusarmi del furto e io potei immaginare che lo avesse commesso un’altra persona, oppure proprio io, ma in una vita precedente.

La famiglia Egeo era l’altra metà delle nostre relazioni sociali.  I miei avevano conosciuto gli Egeo quando vennero a trovarmi a Fiuggi, dove ero in colonia. Mio padre, che aveva gusto e interesse per le relazioni e le conoscenze nuove, manteneva vivi i rapporti telefonando o scrivendo almeno due volte l’anno, per le grandi feste. Al comandante di compagnia che aveva avuto nel 1943, quando era militare a Massafra, e che diventò poi parlamentare della Democrazia Cristiana, mio padre scrisse biglietti di auguri per trenta Natali di seguito.
Egeo (noi lo chiamavamo così, usando il suo cognome come nome di battesimo, che non abbiamo mai conosciuto) era un “romano de Roma”, con l’aspetto di un ometto indifeso e una faccia bonaria dagli occhi acquosi. Era arguto e simpatico nelle piccole cose. Nelle altre era passivo e si lasciava guidare dalla moglie, che era una donna spigolosa, scolpita nel legno, con due occhi imperiosi come quelli di Titina De Filippo. La loro casa, in un massiccio palazzo di fine Ottocento, fra la Stazione Termini e Piazza Vittorio, era grande e scura.

Anche Egeo era impiegato in qualche ente parastatale. Si dilettava di pittura. Dipingeva pallide pesche appoggiate su una tovaglia, mele e altra frutta. Legato al realismo vegetale, non sapeva disegnare altro. I miei gli comprarono, per una somma insignificante, un quadro che rappresentava dei vasi di aspidistra, di cui Egeo aveva piena la tetra casa. Il quadro rimase appeso, unico quadro, nel nostro salotto per una quarantina d’anni, finché l’appartamento non fu svuotato e venduto, dopo la morte di mio padre. 
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