Mio nonno Francesco, commerciante
di maiali, morì nel 1946, e io non ne ricordo niente. Nella sua unica foto rimasta
ha un viso che mi è famigliare, perché è lo stesso viso dei suoi figli, miei
zii, o almeno di molti di essi, che io ho potuto osservare per alcuni decenni. Occhi
prominenti neri e rotondi, con uno sguardo un po’ strabico, liquido e
senza fermezza, e un’espressione accesa, nervosa e oscillante di persona
irragionevole. Di lui ho sentito raccontare le cose più stravaganti: gesti di
gratuita e immotivata generosità verso estranei, e atti di autoritarismo e di
meschinità verso la moglie e i figli.
Mia nonna Gigliola, che ho
conosciuto bene, era una donnina mite, dolce e limitata. La sua maggiore preoccupazione
era il mangiare, e lei comprava ceste di fichi e d’uva, di peperoni e
melanzane, e uova e carne e lardo e vino. Ha fatto la vita di una formica
operosa. Nonostante avesse attraversato due guerre mondiali, con nove figli e
un marito egoista e nevrotico, mi disse una volta che lei sarebbe stata felice di tornare indietro
per ricominciare a vivere esattamente la stessa vita che aveva vissuta. Quando
era già vecchia, il pomeriggio d’estate, sedeva nel vicolo su una sedia,
davanti al portoncino di casa, e leggeva il suo messale dai grandi caratteri
tipografici. La sera, nella enorme e tetra cucina a piano terra, appena
rischiarata da un’unica lampadina, seguiva i programmi radiofonici, e io la
ricordo intenta ad ascoltare La fanciulla
del West di Giacomo Puccini.
I tanti figli erano cresciuti
piuttosto disordinatamente e avevano ereditato la personalità gretta e vile del padre.
Solo Alessandro e Antonio furono
mansueti e innocui come la mamma, ma ebbero mogli volitive e arcigne.
Antonio si sottrasse ancora
ragazzo all’ambiente famigliare arruolandosi in Marina. Lì diventò monarchico,
legato a vecchie immagini di cavalleria e di distinzione, che avevano come
simboli la divisa e la spada. Per molti anni partecipò a feste di matrimonio e
di prima comunione di amici e parenti indossando sempre la sua elegante divisa
di ufficiale. “A Elena non avrei mai fatto il torto di venire in
borghese”, mi disse quando si sposò mia sorella. Sembrava che la sua
presenza in divisa portasse ad una festa non solo il plauso delle Autorità, ma
anche una favilla di un mondo superiore e più raffinato, i cui eletti membri
erano visti come testimoni di imprese eroiche e unici depositari di nobili sentimenti
patriottici.
Zio Antonio era una persona
molto perbene, e in un suo modo convenzionale manteneva i rapporti con tutti i
parenti, inviando per ogni avvenimento famigliare (un successo scolastico o un
avanzamento di carriera) lettere circolari, con foto allegata, che iniziavano
sempre così: “Carissimi tutti”.
Zio Alessandro, che era il figlio
maggiore, nato nel 1901, era invece alieno da ogni vanteria, schivo e timido,
con una vena di malinconia piena di pudore. Faceva il copista in un ufficio
statale e si vantava solo della sua bella scrittura. Però sapeva anche scrivere
lettere che, a quel tempo e in quell’ambiente di provincia dominato da un gusto
dannunziano di seconda mano, erano insolitamente semplici e sincere.
Benché avesse qualche tic di
provenienza famigliare (ogni tanto girava la testa di lato), zio Alessandro aveva un
modo di vivere calmo e rassegnato, quasi allegro. Era spiritoso, di uno spirito
semplice e bonario. La gente lo rispettava, perché era gentile e aveva una
certa finezza di espressione. Sapeva suonare la chitarra, improvvisare brindisi
e recitare con naturalezza le poesie dialettali di Modesto Della Porta.
Passava i pomeriggi con gli amici
visitando un paio di cantine e giocando a carte. La sera andava al caffè
(sempre lo stesso, il Caffettuccio, nella
piazza del mercato), dove si parlava di politica. Dopo la guerra, zio Alessandro era
diventato comunista, ma era così candido e ingenuo, e tutta la sua cerchia di
interlocutori era così sprovveduta, che la scena e il dibattito politico si
riducevano per loro a una frase del presidente Eisenhower o a uno scambio di
battute fra Togliatti e Saragat, su cui potevano fare discussioni accanite e interminabili.
La sera rincasava a tarda ora,
lemme lemme, sui suoi piedoni bitorzoluti.
“Buonanotte, don Alessà”
“Buonanotte buonanotte… Ah, scì tu Pasquà, ma chi vì facènne a chest’ore: vì a chiappà le ciambàne?”
E a casa, magari all’una del
mattino, cenava da solo con un piattone di sagne e fagioli condito con
peperoncino piccante.
(continua al post successivo)

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