sabato 17 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 27° Capitolo: "Conosco gli zii di Pescara".


Le sorelle di mio padre, Nerina ed Emma, che abitavano a Pescara, avevano molte ragioni per non amarlo. Mio padre era un dèspota a cui piaceva ammonire ed esortare, ma non aveva né generosità né comprensione; e anche quando faceva un gesto magnanimo, calcolava sempre il vantaggio che poteva ricavarne. Tuttavia, quando aveva avuto grandi problemi famigliari, si era sempre rivolto alle sorelle. Nerina era sposata e lavorava in casa da sarta; Emma, zitella, viveva con lei e badava alla cucina e alle faccende domestiche. Erano donne molto semplici: la prima, pettegola e ciarliera; l’altra, introversa e legnosa. Tutte e due erano grandi lavoratrici.  Parlavano quasi solo dialetto. Quando veniva una cliente per provarsi un vestito, zia Emma serviva il caffè e, cercando di parlare italiano, diceva a volte degli strafalcioni che facevano ridere per mesi. Per esempio: “Mìscoli!” invece di “Mèscoli!”
Anche se passavano anni senza che le vedesse, ogni tanto, per le grandi feste, mio padre, seguendo le regole del suo ‘saper fare’, scriveva o telefonava alle sorelle.
Immancabilmente rispondeva zia Nerina, che al telefono era la più disinvolta:
“Aahh  ciaoo, Cenzo, mo’ te staveme a numenà!”
 Nonostante una inevitabile meschinità di fondo, le due sorelle avevano un cuore affettuoso, e quando mio padre si era rivolto a loro per sistemare qualche figlio, durante lunghe crisi famigliari provocate da malattie o ricoveri in clinica di zia Francesca, Emma, Nerina e suo marito Gino ci avevano sempre accolti a braccia aperte.
Una volta zia Emma venne a Roma e rimase da noi alcuni mesi per aiutarci in casa, mentre mammà era in una clinica a fare la cura del sonno.
Siamo sempre stati noi che, o per necessità o per vacanza, siamo andati, seppure non tanto spesso, a casa loro, a Pescara.
Quando io frequentavo la seconda media, passai le vacanze di Natale da quegli zii quasi ancora sconosciuti.
Prima di me, l’estate precedente, era stato a casa loro mio fratello Gigino, e la sua gentile timidezza e il suo straordinario appetito avevano suscitato la simpatia di tutti.
Portando in dono due chili di zucchero e due etti di caffè, arrivai a Pescara una bella sera di dicembre. Per me era tutto nuovo. Gino ed Emma erano venuti a prendermi alla stazione. La strada per arrivare a casa loro era lunga, diritta e buia, illuminata solo dalle bottegucce che la fiancheggiavano su un solo lato. Loro conoscevano e salutavano tutti; l’aria di quella sera mi sembrava speciale: fredda, trasparente e leggera. L’appartamento degli zii, in un complesso di case popolari, era piccolo, stracolmo di cose e allegro. Le mie cugine, Antonietta e Annamaria, dormivano nella stanza dove lavorava la mamma, e ogni sera dovevano liberare i loro letti da ritagli di stoffe, modelli di carta, gessi, rocchetti di filo e tanto altro ciarpame. In un angolo della sala da pranzo, dove dormivamo in tre, c’era perfino un grande presepe con un fiume, un laghetto e un ponte levatoio.
La mattina facevamo colazione con una fetta di pane cosparsa d’olio, tagliata da una grande pagnotta ancora calda. Soltanto per questo, io, che ero abituato al latte allungato con orzo, provavo la sensazione piacevole di trovarmi non più in città, ma veramente in vacanza. Sulla piastra rovente della cucina economica rosolavano, quasi tutti i giorni, profumati calamari appena portati dal mercato.
Mio zio faceva il fuochista in ferrovia nei tratti Pescara-Termoli e Pescara-Ancona. I suoi turni di servizio scandivano con animazione la vita della famiglia. Io avevo l’impressione che quel ritmo di vita, che non aveva la rigidità dell’orario degli impiegati, fosse più divertente e pieno di sorprese. Mi sembrava non di essere in vacanza presso una famiglia che continuava la sua solita vita e il normale lavoro di tutti i giorni, ma che fossimo tutti in vacanza, zii e cugini compresi.
Quando mio zio tornava a casa dal suo turno di lavoro, spesso la mattina mentre noi ci svegliavamo, dopo essersi cambiato, se ne andava lentamente in bicicletta a pescare, con in testa un berretto da operaio che rendeva simpatica la sua figura. Anche il lavoro da sarta di zia Nerina mi sembrava un gioco. Aveva un'aiutante, non più tanto giovane, che perdeva i capelli e non trovava un fidanzato. Costei era alla perpetua ricerca di misture efficaci con cui frizionarsi la testa. Aveva usato anche il peperoncino rosso.
Quelle vacanze invernali furono miti ed assolate. Pescara non aveva neppure cominciato la grande corsa che in una ventina d’anni la trasformò in una città brutta e caotica. Allora era ancora una cittadina anonima senza alcuna vera bellezza, ma con una grande dolcezza nelle strade tranquille, fiancheggiate da vecchi palazzotti grigi senza pretese estetiche, però squadrati e decenti, con abitazioni spaziose progettate senza avarizia.
In centro c’era sempre l’animazione di un giorno di mercato. Tutti, a piedi o in bicicletta, portavano borse, fagotti, canestri o galline tenute per le zampe. C’era sempre un viavai rumoroso, allegro e popolare, e a me dispiaceva essere un forestiero che non aveva niente da comprare e nessun fagotto da portare.
Io e il mio compagno di banco Fausto Baeli avevamo fondato da poco una Società investigativa internazionale. Purtroppo le nostre indagini sulla professoressa Taranta non avevano dato alcun frutto: i nostri pedinamenti finivano sempre davanti all’Upim di Piazza Bologna. La professoressa entrava e noi non avevamo né il tempo né la  pazienza di aspettare che uscisse.
Dopo questo fallimento, delusi nella nostra speranza di scoprire un grande mistero, io e Baeli fummo d’accordo che la mia vacanza a Pescara dovesse servire anche a rilanciare la nostra attività di investigatori. Avevamo fiducia che in una zona sottosviluppata e ancora barbaresca, lontana dalla civiltà della capitale, avrei trovato, in qualche baracca non lontana dalla casa dei miei zii, un personaggio eccentrico, un vecchio dal passato oscuro, un uomo dalla doppia vita su cui indagare, come nelle storie di Edgar Wallace.
La casa degli zii era effettivamente sul limitare di campi cespugliosi e incolti, che salivano verso colline selvagge, però non c’era ombra né di baracche misteriore né di vecchi uomini dall'aria sospetta.  Inoltre, addolcito dall'atmosfera piacevole e lusingato dalle nuove emozioni che provavo, non ebbi mai nemmeno voglia di tirar fuori dalla valigia i ferri del mestiere: bloc-notes e lente d’ingrandimento.

                  (continua al post successivo)

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