Le sorelle di mio padre, Nerina
ed Emma, che abitavano a Pescara, avevano molte ragioni per non amarlo. Mio
padre era un dèspota a cui piaceva ammonire ed esortare, ma non aveva né generosità
né comprensione; e anche quando faceva un gesto magnanimo, calcolava sempre il
vantaggio che poteva ricavarne. Tuttavia, quando aveva avuto grandi problemi
famigliari, si era sempre rivolto alle sorelle. Nerina era sposata e lavorava in
casa da sarta; Emma, zitella, viveva con lei e badava alla cucina e alle
faccende domestiche. Erano donne molto semplici: la prima, pettegola e
ciarliera; l’altra, introversa e legnosa. Tutte e due erano grandi
lavoratrici. Parlavano quasi solo
dialetto. Quando veniva una cliente per provarsi un vestito, zia Emma serviva
il caffè e, cercando di parlare italiano, diceva a volte degli strafalcioni che
facevano ridere per mesi. Per esempio: “Mìscoli!”
invece di “Mèscoli!”
Anche se passavano anni senza
che le vedesse, ogni tanto, per le grandi feste, mio padre, seguendo le regole del
suo ‘saper fare’, scriveva o telefonava alle sorelle.
Immancabilmente rispondeva zia
Nerina, che al telefono era la più disinvolta:
“Aahh ciaoo, Cenzo, mo’ te staveme a
numenà!”
Nonostante una inevitabile meschinità di
fondo, le due sorelle avevano un cuore affettuoso, e quando mio padre si era
rivolto a loro per sistemare qualche figlio, durante lunghe crisi famigliari
provocate da malattie o ricoveri in clinica di zia Francesca, Emma, Nerina e
suo marito Gino ci avevano sempre accolti a braccia aperte.
Una volta zia Emma venne a Roma
e rimase da noi alcuni mesi per aiutarci in casa, mentre mammà era in una
clinica a fare la cura del sonno.
Siamo sempre stati noi che, o
per necessità o per vacanza, siamo andati, seppure non tanto spesso, a casa
loro, a Pescara.
Quando io frequentavo la
seconda media, passai le vacanze di Natale da quegli zii quasi ancora
sconosciuti.
Prima di me, l’estate
precedente, era stato a casa loro mio fratello Gigino, e la sua gentile
timidezza e il suo straordinario appetito avevano suscitato la simpatia di
tutti.
Portando in dono due chili di
zucchero e due etti di caffè, arrivai a Pescara una bella sera di dicembre. Per
me era tutto nuovo. Gino ed Emma erano venuti a prendermi alla stazione. La
strada per arrivare a casa loro era lunga, diritta e buia, illuminata solo dalle bottegucce che la fiancheggiavano su un solo lato. Loro conoscevano e
salutavano tutti; l’aria di quella sera mi sembrava speciale: fredda, trasparente e
leggera. L’appartamento degli zii, in un complesso di case popolari, era piccolo, stracolmo di cose e allegro. Le
mie cugine, Antonietta e Annamaria, dormivano nella stanza dove lavorava la
mamma, e ogni sera dovevano liberare i loro letti da ritagli di stoffe, modelli
di carta, gessi, rocchetti di filo e tanto altro ciarpame. In un angolo della
sala da pranzo, dove dormivamo in tre, c’era perfino un grande presepe con un
fiume, un laghetto e un ponte levatoio.
La mattina facevamo colazione
con una fetta di pane cosparsa d’olio, tagliata da una grande pagnotta ancora
calda. Soltanto per questo, io, che ero abituato al latte allungato con orzo,
provavo la sensazione piacevole di trovarmi non più in città, ma veramente in
vacanza. Sulla piastra rovente della cucina economica rosolavano, quasi tutti i
giorni, profumati calamari appena portati dal mercato.
Mio zio faceva il fuochista in
ferrovia nei tratti Pescara-Termoli e Pescara-Ancona. I suoi turni di servizio
scandivano con animazione la vita della famiglia. Io avevo l’impressione che
quel ritmo di vita, che non aveva la rigidità dell’orario degli impiegati,
fosse più divertente e pieno di sorprese. Mi sembrava non di essere in vacanza
presso una famiglia che continuava la sua solita vita e il normale lavoro di
tutti i giorni, ma che fossimo tutti in vacanza, zii e cugini compresi.
Quando mio zio tornava a casa
dal suo turno di lavoro, spesso la mattina mentre noi ci svegliavamo, dopo
essersi cambiato, se ne andava lentamente in bicicletta a pescare, con in testa
un berretto da operaio che rendeva simpatica la sua figura. Anche il lavoro da sarta
di zia Nerina mi sembrava un gioco. Aveva un'aiutante, non più tanto giovane, che perdeva i capelli e non trovava un fidanzato. Costei era alla perpetua ricerca di misture efficaci con cui frizionarsi la testa. Aveva usato anche il peperoncino rosso.
Quelle vacanze invernali furono
miti ed assolate. Pescara non aveva neppure cominciato la grande corsa che in
una ventina d’anni la trasformò in una città brutta e caotica. Allora era ancora una
cittadina anonima senza alcuna vera bellezza, ma con una grande dolcezza nelle
strade tranquille, fiancheggiate da vecchi palazzotti grigi senza pretese estetiche, però squadrati e decenti, con abitazioni spaziose progettate senza avarizia.
In centro c’era sempre
l’animazione di un giorno di mercato. Tutti, a piedi o in bicicletta, portavano
borse, fagotti, canestri o galline tenute per le zampe. C’era sempre un viavai
rumoroso, allegro e popolare, e a me dispiaceva essere un forestiero che non aveva niente da comprare e nessun fagotto da portare.
Io e il mio compagno di banco
Fausto Baeli avevamo fondato da poco una Società investigativa internazionale.
Purtroppo le nostre indagini sulla professoressa Taranta non avevano dato alcun
frutto: i nostri pedinamenti finivano sempre davanti all’Upim di Piazza Bologna.
La professoressa entrava e noi non avevamo né il tempo né la pazienza di aspettare che uscisse.
Dopo questo fallimento, delusi nella nostra speranza di scoprire un grande mistero, io e
Baeli fummo d’accordo che la mia vacanza a Pescara dovesse servire anche a
rilanciare la nostra attività di investigatori. Avevamo fiducia che in
una zona sottosviluppata e ancora barbaresca, lontana dalla civiltà della
capitale, avrei trovato, in qualche baracca non lontana dalla casa dei miei
zii, un personaggio eccentrico, un vecchio dal passato oscuro, un uomo dalla
doppia vita su cui indagare, come nelle storie di Edgar Wallace.
La casa degli zii era effettivamente
sul limitare di campi cespugliosi e incolti, che salivano verso colline selvagge,
però non c’era ombra né di baracche misteriore né di vecchi uomini dall'aria sospetta. Inoltre, addolcito dall'atmosfera piacevole e lusingato dalle nuove emozioni che provavo, non ebbi mai nemmeno voglia di tirar fuori dalla valigia i ferri del mestiere: bloc-notes e lente
d’ingrandimento.
(continua al post successivo)

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