lunedì 5 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 23° Capitolo: "Scuola media".


Il mio tempo più bello è stato quello delle scuole medie e dei due anni di ginnasio, perché trovavo nuovi compagni, nuovi insegnanti, nuove materie di studio; ma, soprattutto, perché ero ancora assolutamente spontaneo; vivevo e agivo, cioè, senza guardarmi, senza giudicarmi né riflettere su me stesso. Sia le cose che facevo che quelle che potevo subire dagli altri non lasciavano alcuno strascico, alcuna zavorra psicologica, e io restavo tranquillo e libero da intralci e da paure. I miei gesti o le mie  reazioni erano immediate e spontanee e si consumavano sul momento, e io potevo perciò rimanere, se posso dire così, eternamente innocente e invulnerato.
Dopo aver superato i quindici anni, questa serenità da paradiso terrestre finì; io persi quella unità naturale che mi aveva assicurato tanta spensieratezza e mi sdoppiai in due: me stesso e l’ombra di me stesso. Diventai perciò vulnerabile, per lo stesso motivo per cui è  più fragile il blocco compatto di una roccia, dopo che, in un lunghissimo arco di tempo, si è trasformato in una massa stratificata che si sfalda più facilmente. Quell’ombra, di cui mi accorsi all’improvviso e che da allora non mi ha più lasciato, non era né la coscienza né un invisibile e misterioso Mister Hyde. Credo di non sbagliare pensando che essa fosse la parte di me stesso che raccoglieva le ragioni degli altri (dicerìe, pettegolezzi, opinioni e giudizi) e me le agitava davanti per intimidirmi e tenermi a bada.
Nel corso dei decenni, la forza di quest’ombra è stata variabile, però io l’ho sempre combattuta.
In quel tempo, dunque, ero un ragazzo pronto a dare tutto l’affetto e una fiducia incondizionata a chiunque si fosse mostrato gentile, simpatico, generoso.
A scuola avevo un compagno di banco con cui passavo anche il tempo libero, per lo più a casa sua, che era grande e comoda, ma anche a passeggio, in giro per le strade. Quanto ridevamo insieme! Lui aveva un modo di parlare paradossale e cinico, cioè diceva con tono serio e solenne delle cose assolutamente vere, che erano però o del tutto insignificanti oppure inconfessabili. Se penso che quelle uscite venivano da un ragazzetto sui dodici anni, le trovo comiche ancora adesso. Se stavamo camminando, ogni tre passi dovevamo fermarci, piegati in due dalle risate.  La mattina, prima di entrare in classe, compravamo da un “nonnetto” che sostava col suo carrettino davanti alla scuola dei cartoccetti di bruscolini, che poi sgranocchiavamo durante le lezioni, riempiendo di bucce il vano oscuro del banco dove andava infilata la cartella; bucce che non gettavamo mai e si accumulavano per tutto l’anno scolastico.
All’uscita da scuola, pedinavamo la professoressa di lettere, immaginando che avesse una vita losca e misteriosa, che noi avevamo la curiosità morbosa di conoscere. Oltre a un avventuroso spirito investigativo, avevamo anche un po’ d’amor proprio, o forse solo di vanità: con facilità imparavamo le lezioni quasi a memoria e ci facevamo interrogare per pavoneggiarci di fronte alla professoressa, che, pur consapevole di essere sospettata di nefandezze e pedinata, ci guardava con divertita indulgenza.
Il padre di Baeli era un alto funzionario: piccolo, rotondetto e impettito, assomigliava a Francisco Franco, il caudillo, e camminava con la sua stessa sicumera. In casa aveva uno studio scuro e austero come quello di un notaio. Io e il figlio ogni tanto rubavamo qualcuno dei suoi libri e andavamo a rivenderli in una piccola cartoleria-bazar di via Luigi Pigorini; poi facevamo un giro per le pasticcerie del quartiere, dove ci ingozzavamo di cannoli alla crema e di napoletani. I napoletani erano dei pasticcini durissimi fatti con i rimasugli di tutti gli altri impasti e costavano appena dieci lire l’uno. Li facevano solo nella preziosa pasticceria Duranti, in via Livorno, una strada tranquilla, ampia e decorosa con i suoi geometrici palazzi d’epoca fascista. Mangiare, uno dopo l’altro, cinque o sei di quei pesanti pasticcini ci dava una sensazione di beatitudine.

In seconda media cominciammo a fumare. La madre di Baeli fumava le sigarette Serraglio, che erano pregiate sigarette corte, piatte ed eleganti, adatte alle signore.
Noi ne compravamo tre o quattro e andavamo a fumarle nella strada deserta che attraversava i grandi prati al di là della linea ferroviaria. Una mattina che avevamo disertato la scuola, mentre fumavamo con aria di cospiratori, incrociammo uno spazzino che vedendoci si mise a urlare: “Ahaa, se c’era il duce non lo potevate fare!”.
Povero netturbino, come capisco il suo sbalordimento! Questi contrasti fra generazioni appaiono in generale senza grande significato, perché sembra che in essi si ripetano sempre, immutate nel tempo, una fisiologica diversità e incomprensione fra vecchi e giovani, fra il passato e il presente. Purtroppo negli ultimi decenni è la natura stessa, cioè proprio la dimensione fisiologica, di questa diversità e separazione che è cambiata ed è diventata innaturale: noi a quel tempo ci allontanammo in silenzio, senza smettere di fumare ma forse un po' mortificati, mentre oggi dei ragazzi rimproverati da un adulto reagirebbero come minimo mostrandogli il dito medio.
L’amicizia con Baeli durò per quasi tutto il tempo delle scuole medie e fu un’amicizia fraterna, ma, come càpita spesso fra fratelli, pur essendo intensa e fisicamente stretta, fu però superficiale e fragile, perché spiritualmente senza sostanza e senza affinità.  Così in terza media, a metà dell’anno scolastico, ci allontanammo quasi bruscamente e senza spiegazioni, e al ginnasio e poi al liceo, dove eravamo nella stessa classe, non ci frequentammo più.
              (continua al post successivo)

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