Il mio tempo più bello è stato
quello delle scuole medie e dei due anni di ginnasio, perché trovavo nuovi
compagni, nuovi insegnanti, nuove materie di studio; ma, soprattutto, perché ero
ancora assolutamente spontaneo; vivevo e agivo, cioè, senza guardarmi, senza giudicarmi
né riflettere su me stesso. Sia le cose che facevo che quelle che potevo subire
dagli altri non lasciavano alcuno strascico, alcuna zavorra psicologica, e io
restavo tranquillo e libero da intralci e da paure. I miei gesti o le mie reazioni erano immediate e spontanee e si
consumavano sul momento, e io potevo perciò rimanere, se posso dire così,
eternamente innocente e invulnerato.
Dopo aver superato i quindici
anni, questa serenità da paradiso terrestre finì; io persi quella unità naturale
che mi aveva assicurato tanta spensieratezza e mi sdoppiai in due: me stesso e
l’ombra di me stesso. Diventai perciò vulnerabile, per lo stesso motivo per cui
è più fragile il blocco compatto di una
roccia, dopo che, in un lunghissimo arco di tempo, si è trasformato in una
massa stratificata che si sfalda più facilmente. Quell’ombra, di cui mi
accorsi all’improvviso e che da allora non mi ha più lasciato, non era né la
coscienza né un invisibile e misterioso Mister Hyde. Credo di non sbagliare pensando
che essa fosse la parte di me stesso che raccoglieva le ragioni degli altri (dicerìe,
pettegolezzi, opinioni e giudizi) e me le agitava davanti per intimidirmi e tenermi
a bada.
Nel corso dei decenni, la forza
di quest’ombra è stata variabile, però io l’ho sempre combattuta.
In quel tempo, dunque, ero un
ragazzo pronto a dare tutto l’affetto e una fiducia incondizionata a chiunque
si fosse mostrato gentile, simpatico, generoso.
A scuola avevo un compagno di
banco con cui passavo anche il tempo libero, per lo più a casa sua, che era
grande e comoda, ma anche a passeggio, in giro per le strade. Quanto ridevamo
insieme! Lui aveva un modo di parlare paradossale e cinico, cioè diceva con
tono serio e solenne delle cose assolutamente vere, che erano però o del tutto
insignificanti oppure inconfessabili. Se penso che quelle uscite venivano da un
ragazzetto sui dodici anni, le trovo comiche ancora adesso. Se stavamo
camminando, ogni tre passi dovevamo fermarci, piegati in due dalle risate. La mattina, prima di entrare in classe,
compravamo da un “nonnetto” che sostava col suo carrettino davanti alla scuola
dei cartoccetti di bruscolini, che poi sgranocchiavamo durante le lezioni,
riempiendo di bucce il vano oscuro del banco dove andava infilata la cartella;
bucce che non gettavamo mai e si accumulavano per tutto l’anno scolastico.
All’uscita da scuola,
pedinavamo la professoressa di lettere, immaginando che avesse una vita losca e misteriosa,
che noi avevamo la curiosità morbosa di conoscere. Oltre a un avventuroso
spirito investigativo, avevamo anche un po’ d’amor proprio, o forse solo di vanità:
con facilità imparavamo le lezioni quasi a memoria e ci facevamo interrogare
per pavoneggiarci di fronte alla professoressa, che, pur consapevole di essere
sospettata di nefandezze e pedinata, ci guardava con divertita indulgenza.
Il padre di Baeli era un alto
funzionario: piccolo, rotondetto e impettito, assomigliava a Francisco Franco,
il caudillo, e camminava con la sua
stessa sicumera. In casa aveva uno studio scuro e austero come quello di un
notaio. Io e il figlio ogni tanto rubavamo qualcuno dei suoi libri e andavamo a
rivenderli in una piccola cartoleria-bazar di via Luigi Pigorini; poi facevamo
un giro per le pasticcerie del quartiere, dove ci ingozzavamo di cannoli alla
crema e di napoletani. I napoletani erano dei pasticcini durissimi
fatti con i rimasugli di tutti gli altri impasti e costavano appena dieci lire
l’uno. Li facevano solo nella preziosa pasticceria Duranti, in via Livorno, una
strada tranquilla, ampia e decorosa con i suoi geometrici palazzi d’epoca
fascista. Mangiare, uno dopo l’altro, cinque o sei di quei pesanti pasticcini
ci dava una sensazione di beatitudine.
In seconda media cominciammo a
fumare. La madre di Baeli fumava le sigarette Serraglio, che erano pregiate sigarette corte, piatte ed eleganti,
adatte alle signore.
Noi ne compravamo tre o quattro
e andavamo a fumarle nella strada deserta che attraversava i grandi prati al di là
della linea ferroviaria. Una mattina che avevamo disertato la scuola, mentre
fumavamo con aria di cospiratori, incrociammo uno spazzino che vedendoci si
mise a urlare: “Ahaa, se c’era il duce
non lo potevate fare!”.
Povero netturbino, come capisco il suo sbalordimento! Questi contrasti fra generazioni appaiono in generale senza grande significato, perché sembra che in essi si ripetano sempre, immutate nel tempo, una fisiologica diversità e incomprensione fra vecchi
e giovani, fra il passato e il presente. Purtroppo negli ultimi decenni è la natura stessa, cioè proprio la dimensione fisiologica, di questa diversità e separazione che è cambiata ed è diventata innaturale: noi a quel tempo ci
allontanammo in silenzio, senza smettere di fumare ma forse un po' mortificati, mentre oggi dei ragazzi rimproverati da un adulto reagirebbero
come minimo mostrandogli il dito medio.
L’amicizia con Baeli durò per
quasi tutto il tempo delle scuole medie e fu un’amicizia fraterna, ma, come
càpita spesso fra fratelli, pur essendo intensa e fisicamente stretta, fu però superficiale
e fragile, perché spiritualmente senza sostanza e senza affinità. Così in terza media, a metà dell’anno
scolastico, ci allontanammo quasi bruscamente e senza spiegazioni, e al ginnasio e poi al liceo, dove eravamo nella stessa classe, non ci frequentammo più.
(continua al post successivo)

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