Quando gli stipendi aumentarono
e il costo delle automobili diventò abbordabile, tutti gli impiegati di banca
del palazzo, ormai sui cinquant’anni, corsero a prendere lezioni di guida. Solo
il portiere, sor Giovanni, che lavorava il doppio o il triplo di ciascuno di
loro, rimase escluso dal sogno di entrare nell’Eldorado dei motorizzati. La sua
unica consolazione poté forse essere che una buona metà di quei novelli automobilisti
dovette ripetere l’esame di teoria due o tre volte. Dopo aver conquistato
l’automobile, tutti puntarono ad una casetta in campagna. Così, nel giro di
pochi anni, finirono le lente passeggiate dei bancari per le strade del
quartiere, con al braccio le loro signore abbigliate domenicalmente;
passeggiate che convergevano tutte, in un anelito di mondanità e di vita
frizzante, su Piazza Bologna, dove, sedute al tavolino di un caffè o su una
panchina al centro della piazza, in mezzo all’allegro rumore del traffico, le calme
coppie peripatetiche potevano mangiare un gelato con la soddisfazione di sentirsi
partecipi della vita metropolitana.
Prima che le belle e larghe
strade della città fossero sfigurate e rimpicciolite dalle automobili, quando il
popolo viaggiava ancora soltanto in treno o in corriera, i ragazzi della nostra
strada d’estate andavano al mare: a Ostia, a Fiumicino, a Fregene. Partivano la
mattina presto a gruppi, accompagnati da qualche mamma, pieni di borse e
fagotti, e tornavano la sera rossi come mattoni. I giorni successivi esibivano
con spavalderia le loro portentose spellature.
Altri ragazzi andavano nella ‘terra incognita’ al di là della ferrovia,
dov’era la nostra pampa, il nostro far-west, e si tuffavano e sguazzavano come
selvaggi in grossi e rustici vasconi, che erano forse depositi d’acqua per gli
orti circostanti.
Nostro padre ci portava invece
educatamente a Villa Paganini, lungo la via Nomentana, un bel giardino di
giochi e di conversazioni, che dopo gli anni Cinquanta, ormai disertato dalle
famiglie, trascurato dall’amministrazione, devastatato da vandali, cominciò un
triste e rapido declino.
Quando ripenso alla Villa
Paganini di quegli anni, la sua vegetazione folta, i prati luminosi, i piccoli
viali ombreggiati da grandi alberi, i colori dei fiori e le fontane si
compongono, nel ricordo, in un giardino lussureggiante come quelli dipinti da
Monet; e la folla di ragazzi e genitori che le davano vita, trasfigurata
dall’impressione di quella pittura, mi appare ora come se fosse tutta vestita
di bianco.
Una mattina mio padre attaccò
discorso con un giovanotto che si era seduto sulla nostra panchina. Era un
muratore dei dintorni, che passava al sole l’intervallo per il pranzo. Lo
ritrovammo per parecchi giorni di seguito. Parlava con semplicità e distacco un
dialetto romanesco colorito e modesto, quasi malinconico, che non ho più
ritrovato. Ed era sincero e gentile in un modo comico e sarcastico, che
lusingava e divertiva. Sapeva anche recitare i sonetti del Belli.
“Gran bell’arte è er pittore, lo scoparo, / er giudice, er norcino, er
rigattiere, / er beccamorto, er medico, er cucchiere, / lo stròligo, er poveta
e ‘r braghieraro. / … Ma la prima de tutte è er muratore, / ché quanno s’arifà
la Porta-Santa / capo-mastro chi è? Nostro Signore”.
Come ammiravo la forza
espressiva di quelle parole, e come mi sembrava scialbo il mio italiano corretto!
Quando finirono le ferie e mio
padre tornò al lavoro, finirono anche le nostre mattinate al giardino. Ma io,
prima della fine dell’estate, tornai da solo un paio di volte a Villa Paganini,
sperando di incontrare ancora quel giovane muratore. Lo aspettai per un’ora o
due al limite del giardino, su via Nomentana, ma inutilmente.
Un giorno mio padre riconobbe,
seduto su una panchina, con una bicicletta appoggiata contro la spalliera, un
vecchio compagno di vita militare, Giuseppe Rocca. Questo Rocca era un bell’uomo
serio, bruno e snello, di poche parole. Sostenne le effusioni di mio padre con
riservatezza, ma non poté non rispondere al suo interrogatorio. Lavorava da un
grossista di medicinali, in un grande magazzino non lontano da casa nostra, in
via Famiano Nardini.
“Ma allora, quando ho bisogno, ti mando mio figlio, e tu gli dai le
medicine a prezzo scontato”.
Mio padre e il suo amico non si
sono più incontrati, ma io per parecchi anni ho dovuto affrontare le forche
caudine di quel magazzino di medicinali, che non vendeva a privati.
“Vorrei parlare col signor Rocca, per favore”.
“Ora guardo se c’è”.
Quindici minuti di attesa
umiliante in una situazione abusiva. Alla fine arrivava Rocca, senza un sorriso
e senza una parola. Prendeva il foglietto col nome delle medicine e tornava
dopo un altro quarto d’ora. Io passavo il tempo a guardare la signora che stava
al banco: era alta e slanciata e aveva uno chignon ricchissimo di morbidi
capelli color miele.
Durante gli anni della scuola
media, non mancarono momenti lieti di intimità familiare. A volte, quando si
stava già avvicinando il bel tempo di primavera, se mio padre era disposto a dichiarare
per iscritto che non avevo potuto fare i compiti di scuola per gravi motivi, io e zia Francesca prendevamo il tram per
andare ad aspettarlo all’uscita dall’ufficio. Lei si sentiva sicura con me come
con nessun altro figlio. Io l’assecondavo sempre. Se la portavo al cinema e lei
ad un tratto voleva uscire, perché per un motivo qualsiasi si sentiva agitata, io
non protestavo mai. Quando mio padre usciva dal palazzo della Banca, in via
Bissolati, andavamo insieme in qualche osteria popolare (in via Montebello, in
via Nomentana, in via Palestro) e facevamo una merenda che era quasi una cena:
formaggio, salsicce, acciughe sott’olio e vino. Ricordi indimenticabili di
Roma!
“Io faccio l’oste, ma s’io fussi prete / predicherìa sarache tutto l’anno.
/ Solamente la sete che ve danno! / E c’è più gusto che smorzà la sete?”
(continua al post successivo)

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