lunedì 12 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 26° Capitolo: "Prima del diluvio automobilistico".





Quando gli stipendi aumentarono e il costo delle automobili diventò abbordabile, tutti gli impiegati di banca del palazzo, ormai sui cinquant’anni, corsero a prendere lezioni di guida. Solo il portiere, sor Giovanni, che lavorava il doppio o il triplo di ciascuno di loro, rimase escluso dal sogno di entrare nell’Eldorado dei motorizzati. La sua unica consolazione poté forse essere che una buona metà di quei novelli automobilisti dovette ripetere l’esame di teoria due o tre volte. Dopo aver conquistato l’automobile, tutti puntarono ad una casetta in campagna. Così, nel giro di pochi anni, finirono le lente passeggiate dei bancari per le strade del quartiere, con al braccio le loro signore abbigliate domenicalmente; passeggiate che convergevano tutte, in un anelito di mondanità e di vita frizzante, su Piazza Bologna, dove, sedute al tavolino di un caffè o su una panchina al centro della piazza, in mezzo all’allegro rumore del traffico, le calme coppie peripatetiche potevano mangiare un gelato con la soddisfazione di sentirsi partecipi della vita metropolitana.
Prima che le belle e larghe strade della città fossero sfigurate e rimpicciolite dalle automobili, quando il popolo viaggiava ancora soltanto in treno o in corriera, i ragazzi della nostra strada d’estate andavano al mare: a Ostia, a Fiumicino, a Fregene. Partivano la mattina presto a gruppi, accompagnati da qualche mamma, pieni di borse e fagotti, e tornavano la sera rossi come mattoni. I giorni successivi esibivano con spavalderia le loro portentose spellature.
Altri ragazzi andavano nella ‘terra incognita’ al di là della ferrovia, dov’era la nostra pampa, il nostro far-west, e si tuffavano e sguazzavano come selvaggi in grossi e rustici vasconi, che erano forse depositi d’acqua per gli orti circostanti.
Nostro padre ci portava invece educatamente a Villa Paganini, lungo la via Nomentana, un bel giardino di giochi e di conversazioni, che dopo gli anni Cinquanta, ormai disertato dalle famiglie, trascurato dall’amministrazione, devastatato da vandali, cominciò un triste e rapido declino.
Quando ripenso alla Villa Paganini di quegli anni, la sua vegetazione folta, i prati luminosi, i piccoli viali ombreggiati da grandi alberi, i colori dei fiori e le fontane si compongono, nel ricordo, in un giardino lussureggiante come quelli dipinti da Monet; e la folla di ragazzi e genitori che le davano vita, trasfigurata dall’impressione di quella pittura, mi appare ora come se fosse tutta vestita di bianco.
Una mattina mio padre attaccò discorso con un giovanotto che si era seduto sulla nostra panchina. Era un muratore dei dintorni, che passava al sole l’intervallo per il pranzo. Lo ritrovammo per parecchi giorni di seguito. Parlava con semplicità e distacco un dialetto romanesco colorito e modesto, quasi malinconico, che non ho più ritrovato. Ed era sincero e gentile in un modo comico e sarcastico, che lusingava e divertiva. Sapeva anche recitare i sonetti del Belli.
“Gran bell’arte è er pittore, lo scoparo, / er giudice, er norcino, er rigattiere, / er beccamorto, er medico, er cucchiere, / lo stròligo, er poveta e ‘r braghieraro. / … Ma la prima de tutte è er muratore, / ché quanno s’arifà la Porta-Santa / capo-mastro chi è? Nostro Signore”.
Come ammiravo la forza espressiva di quelle parole, e come mi sembrava scialbo il mio italiano corretto!  
Quando finirono le ferie e mio padre tornò al lavoro, finirono anche le nostre mattinate al giardino. Ma io, prima della fine dell’estate, tornai da solo un paio di volte a Villa Paganini, sperando di incontrare ancora quel giovane muratore. Lo aspettai per un’ora o due al limite del giardino, su via Nomentana, ma inutilmente.
Un giorno mio padre riconobbe, seduto su una panchina, con una bicicletta appoggiata contro la spalliera, un vecchio compagno di vita militare, Giuseppe Rocca. Questo Rocca era un bell’uomo serio, bruno e snello, di poche parole. Sostenne le effusioni di mio padre con riservatezza, ma non poté non rispondere al suo interrogatorio. Lavorava da un grossista di medicinali, in un grande magazzino non lontano da casa nostra, in via Famiano Nardini.
“Ma allora, quando ho bisogno, ti mando mio figlio, e tu gli dai le medicine a prezzo scontato”.
Mio padre e il suo amico non si sono più incontrati, ma io per parecchi anni ho dovuto affrontare le forche caudine di quel magazzino di medicinali, che non vendeva a privati.
“Vorrei parlare col signor Rocca, per favore”.
“Ora guardo se c’è”.
Quindici minuti di attesa umiliante in una situazione abusiva. Alla fine arrivava Rocca, senza un sorriso e senza una parola. Prendeva il foglietto col nome delle medicine e tornava dopo un altro quarto d’ora. Io passavo il tempo a guardare la signora che stava al banco: era alta e slanciata e aveva uno chignon ricchissimo di morbidi capelli color miele.
Durante gli anni della scuola media, non mancarono momenti lieti di intimità familiare. A volte, quando si stava già avvicinando il bel tempo di primavera, se mio padre era disposto a dichiarare per iscritto che non avevo potuto fare i compiti di scuola per gravi motivi,  io e zia Francesca prendevamo il tram per andare ad aspettarlo all’uscita dall’ufficio. Lei si sentiva sicura con me come con nessun altro figlio. Io l’assecondavo sempre. Se la portavo al cinema e lei ad un tratto voleva uscire, perché per un motivo qualsiasi si sentiva agitata, io non protestavo mai. Quando mio padre usciva dal palazzo della Banca, in via Bissolati, andavamo insieme in qualche osteria popolare (in via Montebello, in via Nomentana, in via Palestro) e facevamo una merenda che era quasi una cena: formaggio, salsicce, acciughe sott’olio e vino. Ricordi indimenticabili di Roma!
“Io faccio l’oste, ma s’io fussi prete / predicherìa sarache tutto l’anno. / Solamente la sete che ve danno! / E c’è più gusto che smorzà la sete?”
            
                   (continua al post successivo)

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