All’età di dodici anni e
quattro mesi, in quel piccolo mondo nuovo che era la casa dei miei zii, fu inevitabile che mi innamorassi di mia cugina Antonietta, che era una ragazza di quattordici anni, alta, bionda e con gli occhi azzurri.
Lei era già alla scuola
magistrale, mentre gli altri due cugini, Annamaria e Gilberto, frequentavano
ancora le elementari. Io e Antonietta facevamo i compiti insieme in sala da
pranzo. Unici della famiglia, avevamo diritto a non essere disturbati, mentre
ci dedicavamo a studi che, essendo superiori al livello d’istruzione di tutti
gli altri membri, suscitavano rispetto per la loro profondità.
Poiché la mia personalità non si era ancora sdoppiata in luce e ombra, anche se
non ero affatto sfacciato, non ero nemmeno troppo timido e parlavo a mia cugina in
continuazione, con la spavalderia di un cittadino che si vanta davanti a un provinciale di avvenimenti a cui è invece del tutto estraneo.
Uscivamo spesso, il pomeriggio,
per portare gli abiti finiti alle clienti di zia Nerina. Antonietta indossava
una pelliccetta scura ed io infilavo il braccio sinistro sotto il suo, mentre
con il destro nascondevo una lunga striscia dove la stoffa del mio cappotto,
già appartenuto a Gigino, era bianca di consunzione. Andavamo a braccetto per
le strade buie, spensierati, lei con il viso rosso per il freddo. Salivamo le
scale di vecchi palazzi, entravamo in appartamenti dalle stanze immense e male
illuminate. Parlava solo Antonietta; io la seguivo docile e indifferente a
tutto: mi bastava stare con lei. A qualche cliente che poteva aver conosciuto
mio padre una decina di anni prima, mi presentava dicendo: “Questo è il figlio di Cenzo”.
Una sera, nella grande cucina
dove una cliente ci aveva fatto entrare per offrirci una fetta di torta, in un
angolo lontano c’era un uomo seduto accanto a un apparecchio radio. Ascoltava
una cantilena monotona e incomprensibile e nemmeno si accorse di noi. La moglie
ci raccontò che aveva combattuto in Africa, dove era stato ferito, e che la
sera ascoltava sempre quelle musiche africane,
perché gli ricordavano il tempo in cui era stato soldato. Aveva anche passione
per le carte geografiche, aggiunse, e consultava continuamente un atlante,
anche se non sapeva leggere.
La mattina Antonietta mi
portava a visitare parenti lontani di mio padre. Abitavano nel quartiere povero
della città, vicino al porto, in case ad un piano, con cortili affollati di
bambini, e tante porte al piano terreno e sul ballatoio, che correva lungo tutte le
facciate interne. Ogni porta si apriva direttamente sulla cucina o sulla sala
da pranzo.
“Questo è il figlio di zio Cenzo”, diceva Antonietta. Qualcuno
allora ricordava anche mia madre, la
povera Maria. Ci offrivano bicchierini di vermouth fatto in casa e fette di
dolce.
Passavamo per il lungomare
deserto e luminoso. Antonietta mi indicava la villa di Agresti, un commerciante
arricchito, la cui casa era considerata una meraviglia della città.
Nella stretta cucina degli zii,
io sedevo a un capo della tavola, di fronte ad Antonietta, che sedeva al capo
opposto. Mangiavo lentamente per non rinunciare a guardarla nemmeno per un
attimo. Era emozionante che lei sostenesse il mio sguardo fisso con grande
serietà. La famiglia non si accorgeva di niente e anzi mi canzonava per la mia
lentezza e la mia distrazione.
Gli zii mi dicevano, indicando
il mio cappotto logoro: “Di’ a tuo padre
che ti compri un cappotto nuovo”, e mi facevano vedere i loro vestiti, le scarpe ancora nuove nelle scatole messe una sopra l'altra dietro le porte,
e poi collane, anelli e orologi custoditi in una scatola di legno. E
chiedevano: “Ce l’avete voi la
ghiacciaia? Ce l’avete l’asciugacapelli?” Ma queste domande non turbavano
affatto il mio sentimento di benessere.
La sera, dopo cena, giocavamo a
tombola in casa di vicini. Là mia cugina mi indicò la ragazza più bella del
quartiere (i miei parenti avevano sempre un primato da mostrare). La bella del quartiere andava a passeggio, in quei giorni, con un vestito tutto rosso, e gli uomini la
guardavano mentre camminava sicura e indifferente.
Era arrivato il momento di
tornare a Roma e a scuola. Tutti i paesi lungo la linea ferroviaria mi
sembrarono tristi e bui.
Alla Stazione Termini mi
aspettava mio padre, che aveva già pronta con sé una cartolina postale da farmi
scrivere e imbucare immediatamente, per ringraziare gli zii dell’affettuosa ospitalità.
A Pescara avevo avuto la rivelazione
della bellezza femminile. Fu come scoprire un mondo superiore, al quale
rivolgere i miei sogni e i miei pensieri.
Tornato a Roma, ero triste, ma
ero anche contento e un po’ esaltato. Per parecchi mesi, rientrando
a casa da scuola, mi aspettai il miracolo di trovarci mia
cugina. Più spesso, camminando lungo la linea ferroviaria e guardando verso
est, oltre le colline ancora intatte, pensavo con rapimento che andando
sempre diritto in quella direzione si poteva arrivare fino al mare di
Pescara.
La mia visione della bellezza
femminile era così poetica e astratta, che non mi venne mai in mente che avrei potuto
facilmente scrivere a mia cugina.
Passarono anni prima di
rivederla. Dopo il diploma, lei venne a Roma, accompagnata dai genitori, per partecipare a un concorso.
Fu l’unica volta che furono
ospiti a casa nostra. Si portarono dietro asciugamani, lenzuola e federe per i cuscini.
Mio zio, vedendo che avevo una collezione
di francobolli raccolta con attenzione nel corso di parecchi anni, dovette rammaricarsi di non possedere, oltre alle scarpe nuove dietro le porte, agli orologi e al rasoio elettrico, anche un passatempo così originale. Si offrì di comprare l’intera
collezione e io fui contento di liberarmene per una somma insignificante.
(continua al post successivo)

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