sabato 24 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 28° Capitolo: "Mia cugina Antonietta".


All’età di dodici anni e quattro mesi, in quel piccolo mondo nuovo che era la casa dei miei zii, fu inevitabile che mi innamorassi di mia cugina Antonietta, che era una ragazza di quattordici anni, alta, bionda e con gli occhi azzurri.
Lei era già alla scuola magistrale, mentre gli altri due cugini, Annamaria e Gilberto, frequentavano ancora le elementari. Io e Antonietta facevamo i compiti insieme in sala da pranzo. Unici della famiglia, avevamo diritto a non essere disturbati, mentre ci dedicavamo a studi che, essendo superiori al livello d’istruzione di tutti gli altri membri, suscitavano rispetto per la loro profondità.
Poiché la mia personalità non si era ancora sdoppiata in luce e ombra, anche se non ero affatto sfacciato, non ero nemmeno troppo timido e parlavo a mia cugina in continuazione, con la spavalderia di un cittadino che si vanta davanti a un provinciale di avvenimenti a cui è invece del tutto estraneo.
Uscivamo spesso, il pomeriggio, per portare gli abiti finiti alle clienti di zia Nerina. Antonietta indossava una pelliccetta scura ed io infilavo il braccio sinistro sotto il suo, mentre con il destro nascondevo una lunga striscia dove la stoffa del mio cappotto, già appartenuto a Gigino, era bianca di consunzione. Andavamo a braccetto per le strade buie, spensierati, lei con il viso rosso per il freddo. Salivamo le scale di vecchi palazzi, entravamo in appartamenti dalle stanze immense e male illuminate. Parlava solo Antonietta; io la seguivo docile e indifferente a tutto: mi bastava stare con lei. A qualche cliente che poteva aver conosciuto mio padre una decina di anni prima, mi presentava dicendo: “Questo è il figlio di Cenzo”.
Una sera, nella grande cucina dove una cliente ci aveva fatto entrare per offrirci una fetta di torta, in un angolo lontano c’era un uomo seduto accanto a un apparecchio radio. Ascoltava una cantilena monotona e incomprensibile e nemmeno si accorse di noi. La moglie ci raccontò che aveva combattuto in Africa, dove era stato ferito, e che la sera ascoltava sempre quelle musiche africane, perché gli ricordavano il tempo in cui era stato soldato. Aveva anche passione per le carte geografiche, aggiunse, e consultava continuamente un atlante, anche se non sapeva leggere.  
La mattina Antonietta mi portava a visitare parenti lontani di mio padre. Abitavano nel quartiere povero della città, vicino al porto, in case ad un piano, con cortili affollati di bambini, e tante porte al piano terreno e sul ballatoio, che correva lungo tutte le facciate interne. Ogni porta si apriva direttamente sulla cucina o sulla sala da pranzo.
“Questo è il figlio di zio Cenzo”, diceva Antonietta. Qualcuno allora ricordava anche mia madre, la povera Maria. Ci offrivano bicchierini di vermouth fatto in casa e fette di dolce.
Passavamo per il lungomare deserto e luminoso. Antonietta mi indicava la villa di Agresti, un commerciante arricchito, la cui casa era considerata una meraviglia della città.
Nella stretta cucina degli zii, io sedevo a un capo della tavola, di fronte ad Antonietta, che sedeva al capo opposto. Mangiavo lentamente per non rinunciare a guardarla nemmeno per un attimo. Era emozionante che lei sostenesse il mio sguardo fisso con grande serietà. La famiglia non si accorgeva di niente e anzi mi canzonava per la mia lentezza e la mia distrazione.
Gli zii mi dicevano, indicando il mio cappotto logoro: “Di’ a tuo padre che ti compri un cappotto nuovo”, e mi facevano vedere i loro vestiti, le scarpe ancora nuove nelle scatole messe una sopra l'altra dietro le porte, e poi collane, anelli e orologi custoditi in una scatola di legno. E chiedevano: “Ce l’avete voi la ghiacciaia? Ce l’avete l’asciugacapelli?” Ma queste domande non turbavano affatto il mio sentimento di benessere.
La sera, dopo cena, giocavamo a tombola in casa di vicini. Là mia cugina mi indicò la ragazza più bella del quartiere (i miei parenti avevano sempre un primato da mostrare). La bella del quartiere andava a passeggio, in quei giorni, con un vestito tutto rosso, e gli uomini la guardavano mentre camminava sicura e indifferente.
Era arrivato il momento di tornare a Roma e a scuola. Tutti i paesi lungo la linea ferroviaria mi sembrarono tristi e bui.
Alla Stazione Termini mi aspettava mio padre, che aveva già pronta con sé una cartolina postale da farmi scrivere e imbucare immediatamente, per ringraziare gli zii dell’affettuosa ospitalità.
A Pescara avevo avuto la rivelazione della bellezza femminile. Fu come scoprire un mondo superiore, al quale rivolgere i miei sogni e i miei pensieri.
Tornato a Roma, ero triste, ma ero anche contento e un po’ esaltato. Per parecchi mesi, rientrando a casa da scuola, mi aspettai il miracolo di trovarci mia cugina. Più spesso, camminando lungo la linea ferroviaria e guardando verso est, oltre le colline ancora intatte, pensavo con rapimento che andando sempre diritto in quella direzione si poteva arrivare fino al mare di Pescara.
La mia visione della bellezza femminile era così poetica e astratta, che non mi venne mai in mente che avrei potuto facilmente scrivere a mia cugina.
Passarono anni prima di rivederla. Dopo il diploma, lei venne a Roma, accompagnata dai genitori,  per partecipare a un concorso.
Fu l’unica volta che furono ospiti a casa nostra. Si portarono dietro asciugamani, lenzuola e federe per i cuscini.
Mio zio, vedendo che avevo una collezione di francobolli raccolta con attenzione nel corso di parecchi anni, dovette rammaricarsi di non possedere, oltre alle scarpe nuove dietro le porte, agli orologi e al rasoio elettrico, anche un passatempo così originale. Si offrì di comprare l’intera collezione e io fui contento di liberarmene per una somma insignificante.   
           (continua al post successivo)  

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