Avevo anche altri amici con i
quali ogni tanto facevo i compiti di scuola: Franco Frosoni, Roberto Pompei,
Piero Rossi e qualcun altro.
Io e Baeli, quando eravamo
insieme, non facevamo che ridere, ma l’amicizia con questi altri ragazzi invece
aveva una serietà e una compostezza che ancora mi sorprendono.
Frosoni veniva dalla bassa
Toscana. Il padre era stato minatore ed era morto di malattia. La madre era
venuta a Roma a servizio e si era risposata. Abitavano al di là della ferrovia,
in un borghetto di case abusive. Venne qualche volta a casa mia: studiavamo
insieme la grammatica latina. Io andai una volta a pranzo a casa sua. Mi
piaceva andare a casa degli altri e magari fermarmi a mangiare.
Dopo la prima media, Frosoni
lasciò la scuola, ma la nostra amicizia durò ancora una decina d’anni. Diventò garzone
di macelleria, cambiando spesso negozio, sempre però nel nostro rione. Lo
incontravo ogni tanto che piangeva, appoggiato al muro accanto all’ingresso della
macelleria dove lavorava. Con gli anni si indurì e ai maltrattamenti dei padroni sapeva
anche reagire con i pugni. Aveva un viso magro e scavato, era pieno di energia
nervosa; negli ultimi tempi che ci siamo visti, raccontava con un po’ di
spavalderia le sue scazzottate e le sue avventure.
Pompei, figlio unico di un
impiegato parastatale, era uno scolaro diligente e scrupoloso. La sua bella
casa aveva una grande sala piena di specchi, fredda e impersonale come
il bar di un teatro. La sua cameretta-studio era così linda e ben ordinata,
che nemmeno a lui veniva la tentazione di buttarsi o solo di sedersi sul letto.
I libri erano ben allineati, con le pagine senza una piegatura né un segno di
matita.
Rossi abitava in un
appartamento seminterrato vicino a piazza Bologna. Ebbe un periodo di celebrità
nella nostra classe di terza media, dove capitò da ripetente, perché, unico in
una scolaresca di grammatici e letteratucoli, aveva passione per esperimenti di
chimica e di fisica, che faceva in casa con attrezzature di fortuna. Lo
trascinai un paio di volte nei quartieri più popolari della città, lungo il
Tevere, a cercare, per strade squallide e dentro portoni bui di palazzi
scalcinati, indizi di qualche situazione criminale che noi avevamo l’ambizione di
scoprire. Io avevo un’idea romantica dei delinquenti, che mi ero formata leggendo
con accanimento le storie misteriose di Edgar Wallace, il quale ripeteva a sua
volta le cupe atmosfere e gli intrecci complicati di Dickens. Però non ero attirato dall’aspetto drammatico e
avventuroso dell’ambiente del crimine, bensì ero affascinato dai ragionamenti
logici e pieni di cultura dei grandi investigatori, che mi sarebbe piaciuto imitare.
Il mio modello allora era Philo Vance.
Apparteneva a Rossi la copia di
“Delitto e Castigo” che io ancora conservo. Per convincerlo a vendermela, gli
offrii cinquecento lire. Il libro era una edizione popolare pubblicata vent’anni
prima, e cinquecento lire erano una gran somma, perché bastavano per andare più di tre volte al
cinema. Rossi accettò senza farsi
pregare, ma io non l’ho mai considerato un furbo per questo e sono stato sempre contento
di quell’acquisto. Da allora non ho più riletto il romanzo di Dostoevskij, che
mi colpì moltissimo e che ricordo come si ricorda una favola ascoltata cento
volte da bambini.
(continua al post successivo)

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