sabato 10 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 25° Capitolo: "Galanterie".



Alla fine dell’anno scolastico di terza media, io e Roberto Pompei ci incontravamo tutte le mattine e vagavamo, un po’ annoiati e un po’ curiosi, per le strade del quartiere. Il lungo tempo vuoto che avevamo davanti ci rendeva forse un po’ inquieti. Inoltre il sole e l’aria tiepida e festosa ci faceva desiderare qualcosa, una gioia o un’emozione, che non avevamo.
Solo qualche stagione prima, durante le due settimane di assenza da scuola per le feste di Natale, avevo invece provato un benessere completo e un piacere perfetto. Tutto era meraviglioso: il sole invernale e i colori netti delle cose, l’animazione delle strade, i rumori di una falegnameria,  il fervore del barbiere  e del fioraio accanto.
Sia io che Pompei avevamo ora in mente una ragazzetta che frequentava la nostra stessa scuola. Non le avevamo mai rivolto la parola, ma decidemmo di andare verso la zona dove sapevamo che abitava, attorno a Villa Narducci, verso la Stazione Tiburtina.
La trovammo che giocava con delle compagne all’ombra dei grandi alberi della Villa. Noi ci mettemmo da parte, a distanza, e rimanemmo lì a guardarla per un paio d’ore, senza una parola ma con un atteggiamento che mostrava la nostra curiosità e il nostro interesse. E tornammo tutte le mattine per una settimana.
Mi sembra quasi un miracolo che lei non abbia provato spavento o disagio a sentirsi osservata con tanta insistenza da due ragazzi che dovevano esserle sconosciuti. Noi eravamo comunque assolutamente innocui e a meno di cinquanta metri da lei sentivamo già di non saper più spiccicar parola.
Era una ragazza graziosa, con capelli corti castani; colpiva l’immaginazione, perché, esile com’era, camminava diritta e sicura.
Io e Pompei commentavamo gli aspetti della sua bellezza come ammiratori spassionati, senza gelosia e senza ambizioni.
Pochi mesi dopo, ci ritrovammo ancora insieme, nella stessa classe di quarta ginnasiale, e in quell’inverno fummo  protagonisti di un altro tentativo di avventura sentimentale patetico e buffo.
La notte di Capodanno io e i miei facemmo festa con la famiglia accanto, a casa loro, dove erano stati invitati anche i Darti. Piero Darti era un impiegato di banca del nostro palazzo, un bell’uomo alto, sui cinquant’anni, dall’aspetto fine e molle e l’espressione acquosa. Stavamo tutti pigiati nella piccola sala da pranzo. I tre pater familias, seduti contro la parete, parlavano di cose serie. Sentii Piero Darti che diceva a mio padre senza discrezione: “Fabrizio è più intelligente di Gigino”. Gigino era lì a due passi. Mi sentii ferito per mio fratello da quel giudizio gratuito espresso a vànvera. Cosa poteva conoscere quel lombrico di me e di Gigino?
Piero Darti era sposato con una donna stranissima che lo dominava: alta e ossuta, camminava a scatti come un brutto uccello; le braccia rigide lungo i fianchi sembravano ali ripiegate. Il viso, senza mobilità, rivolto in una direzione fissa, sollevato verso l’alto, con il mento in su, e uno sguardo che sembrava guardare solo cose distanti, aveva un’espressione ottusa e ostinata.
Giulia, la loro unica figlia, era, invece, piuttosto bella, con carnagione bianca e capelli scuri. Aveva la mia età e parlava in un modo freddo e ricercato. Io allora non avevo alcun talento di psicologo e quell’atteggiamento distaccato mi spingeva non ad allontanarmi, ma a idealizzarla di più.
Dopo qualche giorno, coraggiosamente le telefonai per invitarla al cinema. Mi chiese se poteva portare un’amica.
“Ma certo, certo”.
Non fu facile trovare nella mia classe un compagno per la sua amica. Alla fine, dopo molte preghiere, accettò di venire Roberto Pompei.
Ci incontrammo, in un grigio e freddo pomeriggio dei primi di gennaio, davanti al cinema Italia, in via Bari. Le ragazze avevano deciso che dovevamo andare a vedere un film al cinema Ausonia, a trecento metri di distanza. Quando entrammo nella sala, la conversazione, già moribonda, cessò del tutto: non scambiammo più una parola. Guardare il film fu impossibile, perché mi sentii tutto il tempo a disagio e mi ripetevo: “Ma in che guaio mi sono cacciato!”
Per fortuna, poco prima che lo spettacolo finisse, le ragazze se ne andarono e io e Pompei ci allungammo sui sedili del cinema, contenti di sentirci finalmente liberi.
Come si usava a quel tempo, avevamo pagato noi i biglietti.
Con Giulia Darti non ho più parlato; potrei anzi dire che non l’ho quasi più vista. 

             (continua al post successivo)

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