Alla fine dell’anno scolastico
di terza media, io e Roberto Pompei ci incontravamo tutte le mattine e vagavamo,
un po’ annoiati e un po’ curiosi, per le strade del quartiere. Il lungo tempo
vuoto che avevamo davanti ci rendeva forse un po’ inquieti. Inoltre il sole e
l’aria tiepida e festosa ci faceva desiderare qualcosa, una gioia o
un’emozione, che non avevamo.
Solo qualche stagione prima,
durante le due settimane di assenza da scuola per le feste di Natale, avevo
invece provato un benessere completo e un piacere perfetto. Tutto era
meraviglioso: il sole invernale e i colori netti delle cose, l’animazione delle
strade, i rumori di una falegnameria, il
fervore del barbiere e del fioraio
accanto.
Sia io che Pompei avevamo ora
in mente una ragazzetta che frequentava la nostra stessa scuola. Non le avevamo
mai rivolto la parola, ma decidemmo di andare verso la zona dove sapevamo che
abitava, attorno a Villa Narducci, verso la Stazione Tiburtina.
La trovammo che giocava con
delle compagne all’ombra dei grandi alberi della Villa. Noi ci mettemmo da
parte, a distanza, e rimanemmo lì a guardarla per un paio d’ore, senza una
parola ma con un atteggiamento che mostrava la nostra curiosità e il nostro
interesse. E tornammo tutte le mattine per una settimana.
Mi sembra quasi un miracolo che
lei non abbia provato spavento o disagio a sentirsi osservata con tanta
insistenza da due ragazzi che dovevano esserle sconosciuti. Noi eravamo
comunque assolutamente innocui e a meno di cinquanta metri da lei sentivamo già
di non saper più spiccicar parola.
Era una ragazza graziosa, con
capelli corti castani; colpiva l’immaginazione, perché, esile com’era,
camminava diritta e sicura.
Io e Pompei commentavamo gli
aspetti della sua bellezza come ammiratori spassionati, senza gelosia e senza
ambizioni.
Pochi mesi dopo, ci ritrovammo ancora
insieme, nella stessa classe di quarta ginnasiale, e in quell’inverno fummo protagonisti di un altro tentativo di avventura
sentimentale patetico e buffo.
La notte di Capodanno io e i
miei facemmo festa con la famiglia accanto, a casa loro, dove erano stati
invitati anche i Darti. Piero Darti era un impiegato di banca del nostro
palazzo, un bell’uomo alto, sui cinquant’anni, dall’aspetto fine e molle e l’espressione
acquosa. Stavamo tutti pigiati nella piccola sala da pranzo. I tre pater familias, seduti contro la parete,
parlavano di cose serie. Sentii Piero Darti che diceva a mio padre senza discrezione: “Fabrizio è più intelligente di Gigino”. Gigino
era lì a due passi. Mi sentii ferito per mio fratello da quel giudizio gratuito espresso a vànvera. Cosa poteva conoscere quel lombrico di
me e di Gigino?
Piero Darti era sposato con una
donna stranissima che lo dominava: alta e ossuta, camminava a scatti come un brutto uccello; le
braccia rigide lungo i fianchi sembravano ali ripiegate. Il viso, senza mobilità, rivolto in una
direzione fissa, sollevato verso l’alto, con il mento in su, e uno sguardo che
sembrava guardare solo cose distanti, aveva un’espressione ottusa e ostinata.
Giulia, la loro unica figlia, era,
invece, piuttosto bella, con carnagione bianca e capelli scuri. Aveva la mia
età e parlava in un modo freddo e ricercato. Io allora non avevo alcun
talento di psicologo e quell’atteggiamento distaccato mi spingeva non ad
allontanarmi, ma a idealizzarla di più.
Dopo qualche giorno, coraggiosamente
le telefonai per invitarla al cinema. Mi chiese se poteva portare un’amica.
“Ma certo, certo”.
Non fu facile trovare nella mia
classe un compagno per la sua amica. Alla fine, dopo molte preghiere, accettò
di venire Roberto Pompei.
Ci incontrammo, in un grigio e
freddo pomeriggio dei primi di gennaio, davanti al cinema Italia, in via Bari.
Le ragazze avevano deciso che dovevamo andare a vedere un film al cinema
Ausonia, a trecento metri di distanza. Quando entrammo nella sala, la
conversazione, già moribonda, cessò del tutto: non scambiammo più una parola.
Guardare il film fu impossibile, perché mi sentii tutto il tempo a
disagio e mi ripetevo: “Ma in che guaio
mi sono cacciato!”
Per fortuna, poco prima che lo
spettacolo finisse, le ragazze se ne andarono e io e Pompei ci allungammo sui
sedili del cinema, contenti di sentirci finalmente liberi.
Come si usava a quel tempo,
avevamo pagato noi i biglietti.
Con Giulia Darti non ho più parlato; potrei anzi dire che non l’ho quasi più vista.
(continua al post successivo)

Nessun commento:
Posta un commento