La casa dei miei nonni, a
Chieti, era vecchissima, grande e buia, posta in cima a uno stretto vicolo a
scalette, che dalla strada provinciale saliva a Largo di Porta Pescara. Le
case di quel rione erano per lo più popolari, antiche di centinaia d’anni e in
pieno decadimento. La casa dei miei
nonni, dove erano nati mia madre e i suoi otto fratelli, quando la vidi per la
prima volta era quasi in rovina: le pareti bozzolute avevano l’intonaco
scrostato, il pavimento era diseguale e con i mattoni spezzati, e dappertutto
c’era un odore di muffa e un’aria di abbandono.
In un angolo dello scuro salotto, al primo piano, era ammucchiato un
gran fascio di lunghe canne che, all’occasione, venivano infilate attraverso gli indumenti lavati e da asciugare e distese dal davanzale
delle finestre di casa fino ad un cornicione della casa di fronte. Al centro del divano, che aveva le molle rotte, troneggiava una
vecchia e classica bambolona con un larghissimo vestito rosa e un cappello di
paglia. In mezzo alla stanza, sul tavolo
coperto da una tovaglia verde con le nappe,
era appoggiato un cane di terracotta; sui ripiani di una étagère, una
grande conchiglia e tante altre care e “buone
cose di pessimo gusto”.
A pochi metri dal portone di
casa si apriva il grande slargo digradante di Porta Pescara, che, senza
automobili e senza traffico di carretti, poiché vi si arrivava quasi solo
attraverso stradine a scalette, sembrava più che altro un vasto cortile. La mattina però era animato dalle donne che
tornavano dal mercato con le sporte piene e sceglievano di passare per la via
più breve verso la strada provinciale, e da passanti che venivano dal centro della
città.
In quella strana piazza a forma
di rombo c’erano una cantina, un fornaio, un servizio di onoranze funebri e un
ramaio.
A me ragazzo sembrava che
ciascuna di queste attività riempisse completamente quel grande spazio. Il ramaio era
un vecchino bianco come il latte, mentre la sua bottega aveva le pareti, il soffitto e il pavimento neri di fuliggine.
Il rumore monotono del suo martellino si spandeva all’intorno dalla mattina alla sera.
D’estate, il cantiniere metteva fuori dell’uscio un tavolino, e, nel breve silenzio dei caldi pomeriggi, bastavano due
risate e un tintinnio di bicchieri per dare vivacità alla piazza.
Davanti al forno, il selciato era
sempre bianco di farina; e questo, assieme al profumo del pane caldo e della pizza coi peperoni, era uno spettacolo e un'attrazione.
Le onoranze funebri Di Crecchio erano, invece, un servizio immobile
e misterioso di cui non si sapeva niente. Sulla porta campeggiava una grande
insegna severa con caratteri bianchi su fondo nero. Era impossibile non averla sempre
sott’occhio.
La sera, fino a notte
inoltrata, gruppi di reclute di una vicina caserma attraversavano il nostro vicolo e passavano davanti alla casa dei nonni,
attirati dal bordello che si trovava venti metri più in basso. Ma, a parte questo viavai di sconosciuti, le cui giovani risate
rimbombavano in quello spazio angusto, non si aveva alcun altro segno visibile
di quel nascosto paradiso dei sensi, ed io ne conobbi l'esistenza quando già non c'era più.
(continua al post successivo)

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