martedì 27 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 29° Capitolo: "La casa dei nonni a Chieti".


La casa dei miei nonni, a Chieti, era vecchissima, grande e buia, posta in cima a uno stretto vicolo a scalette, che dalla strada provinciale saliva a Largo di Porta Pescara. Le case di quel rione erano per lo più popolari, antiche di centinaia d’anni e in pieno decadimento.  La casa dei miei nonni, dove erano nati mia madre e i suoi otto fratelli, quando la vidi per la prima volta era quasi in rovina: le pareti bozzolute avevano l’intonaco scrostato, il pavimento era diseguale e con i mattoni spezzati, e dappertutto c’era un odore di muffa e un’aria di abbandono.  In un angolo dello scuro salotto, al primo piano, era ammucchiato un gran fascio di lunghe canne che, all’occasione, venivano infilate attraverso gli indumenti lavati e da asciugare e distese dal davanzale delle finestre di casa fino ad un cornicione della casa di fronte. Al centro del divano, che aveva le molle rotte, troneggiava una vecchia e classica bambolona con un larghissimo vestito rosa e un cappello di paglia.  In mezzo alla stanza, sul tavolo coperto da una tovaglia verde con le nappe,  era appoggiato un cane di terracotta; sui ripiani di una étagère, una grande conchiglia e tante altre care e “buone cose di pessimo gusto”.
A pochi metri dal portone di casa si apriva il grande slargo digradante di Porta Pescara, che, senza automobili e senza traffico di carretti, poiché vi si arrivava quasi solo attraverso stradine a scalette, sembrava più che altro un vasto cortile.  La mattina però era animato dalle donne che tornavano dal mercato con le sporte piene e sceglievano di passare per la via più breve verso la strada provinciale, e da passanti che venivano dal centro della città.
In quella strana piazza a forma di rombo c’erano una cantina, un fornaio, un servizio di onoranze funebri e un ramaio.
A me ragazzo sembrava che ciascuna di queste attività riempisse completamente quel grande spazio. Il ramaio era un vecchino bianco come il latte, mentre la sua bottega aveva le pareti, il soffitto e il pavimento neri di fuliggine. Il rumore monotono del suo martellino si spandeva all’intorno dalla mattina alla sera. D’estate, il cantiniere metteva fuori dell’uscio un tavolino, e, nel breve silenzio dei caldi pomeriggi, bastavano due risate e un tintinnio di bicchieri per dare vivacità alla piazza.
Davanti al forno, il selciato era sempre bianco di farina; e questo, assieme al profumo del pane caldo e della pizza coi peperoni, era uno spettacolo e un'attrazione.
Le onoranze funebri Di Crecchio erano, invece, un servizio immobile e misterioso di cui non si sapeva niente. Sulla porta campeggiava una grande insegna severa con caratteri bianchi su fondo nero. Era impossibile non averla sempre sott’occhio.
La sera, fino a notte inoltrata, gruppi di reclute di una vicina caserma attraversavano il nostro vicolo e passavano davanti alla casa dei nonni, attirati dal bordello che si trovava venti metri più in basso. Ma, a parte questo viavai di sconosciuti, le cui giovani risate rimbombavano in quello spazio angusto, non si aveva alcun altro segno visibile di quel nascosto paradiso dei sensi, ed io ne conobbi l'esistenza quando già non c'era più.

          (continua al post successivo)

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