giovedì 29 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 30° Capitolo: "I nonni e due zii".


Mio nonno Francesco, commerciante di maiali, morì nel 1946, e io non ne ricordo niente. Nella sua unica foto rimasta ha un viso che mi è famigliare, perché è lo stesso viso dei suoi figli, miei zii, o almeno di molti di essi, che io ho potuto osservare per alcuni decenni. Occhi prominenti neri e rotondi, con uno sguardo un po’ strabico, liquido e senza fermezza, e un’espressione accesa, nervosa e oscillante di persona irragionevole. Di lui ho sentito raccontare le cose più stravaganti: gesti di gratuita e immotivata generosità verso estranei, e atti di autoritarismo e di meschinità verso la moglie e i figli.
Mia nonna Gigliola, che ho conosciuto bene, era una donnina mite, dolce e limitata. La sua maggiore preoccupazione era il mangiare, e lei comprava ceste di fichi e d’uva, di peperoni e melanzane, e uova e carne e lardo e vino. Ha fatto la vita di una formica operosa. Nonostante avesse attraversato due guerre mondiali, con nove figli e un marito egoista e nevrotico, mi disse una volta che lei sarebbe stata felice di tornare indietro per ricominciare a vivere esattamente la stessa vita che aveva vissuta. Quando era già vecchia, il pomeriggio d’estate, sedeva nel vicolo su una sedia, davanti al portoncino di casa, e leggeva il suo messale dai grandi caratteri tipografici. La sera, nella enorme e tetra cucina a piano terra, appena rischiarata da un’unica lampadina, seguiva i programmi radiofonici, e io la ricordo intenta ad ascoltare La fanciulla del West di Giacomo Puccini.
I tanti figli erano cresciuti piuttosto disordinatamente e avevano ereditato la personalità gretta e vile del padre.
Solo Alessandro e Antonio furono mansueti e innocui come la mamma, ma ebbero mogli volitive e arcigne.
Antonio si sottrasse ancora ragazzo all’ambiente famigliare arruolandosi in Marina. Lì diventò monarchico, legato a vecchie immagini di cavalleria e di distinzione, che avevano come simboli la divisa e la spada. Per molti anni partecipò a feste di matrimonio e di prima comunione di amici e parenti indossando sempre la sua elegante divisa di ufficiale. “A Elena non  avrei mai fatto il torto di venire in borghese”, mi disse quando si sposò mia sorella. Sembrava che la sua presenza in divisa portasse ad una festa non solo il plauso delle Autorità, ma anche una favilla di un mondo superiore e più raffinato, i cui eletti membri erano visti come testimoni di imprese eroiche e unici depositari di nobili sentimenti patriottici.
Zio Antonio era una persona molto perbene, e in un suo modo convenzionale manteneva i rapporti con tutti i parenti, inviando per ogni avvenimento famigliare (un successo scolastico o un avanzamento di carriera) lettere circolari, con foto allegata, che iniziavano sempre così: “Carissimi tutti”.
Zio Alessandro, che era il figlio maggiore, nato nel 1901, era invece alieno da ogni vanteria, schivo e timido, con una vena di malinconia piena di pudore. Faceva il copista in un ufficio statale e si vantava solo della sua bella scrittura. Però sapeva anche scrivere lettere che, a quel tempo e in quell’ambiente di provincia dominato da un gusto dannunziano di seconda mano, erano insolitamente semplici e sincere.
Benché avesse qualche tic di provenienza famigliare (ogni tanto girava la testa di lato), zio Alessandro aveva un modo di vivere calmo e rassegnato, quasi allegro. Era spiritoso, di uno spirito semplice e bonario. La gente lo rispettava, perché era gentile e aveva una certa finezza di espressione. Sapeva suonare la chitarra, improvvisare brindisi e recitare con naturalezza le poesie dialettali di Modesto Della Porta.
Passava i pomeriggi con gli amici visitando un paio di cantine e giocando a carte. La sera andava al caffè (sempre lo stesso, il Caffettuccio, nella piazza del mercato), dove si parlava di politica. Dopo la guerra, zio Alessandro era diventato comunista, ma era così candido e ingenuo, e tutta la sua cerchia di interlocutori era così sprovveduta, che la scena e il dibattito politico si riducevano per loro a una frase del presidente Eisenhower o a uno scambio di battute fra Togliatti e Saragat, su cui potevano fare discussioni accanite e interminabili.
La sera rincasava a tarda ora, lemme lemme, sui suoi piedoni bitorzoluti.
“Buonanotte, don Alessà”
“Buonanotte buonanotte… Ah, scì tu Pasquà, ma chi vì facènne a chest’ore: vì  a chiappà le ciambàne?”
E a casa, magari all’una del mattino, cenava da solo con un piattone di sagne e fagioli condito con peperoncino piccante.

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martedì 27 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 29° Capitolo: "La casa dei nonni a Chieti".


La casa dei miei nonni, a Chieti, era vecchissima, grande e buia, posta in cima a uno stretto vicolo a scalette, che dalla strada provinciale saliva a Largo di Porta Pescara. Le case di quel rione erano per lo più popolari, antiche di centinaia d’anni e in pieno decadimento.  La casa dei miei nonni, dove erano nati mia madre e i suoi otto fratelli, quando la vidi per la prima volta era quasi in rovina: le pareti bozzolute avevano l’intonaco scrostato, il pavimento era diseguale e con i mattoni spezzati, e dappertutto c’era un odore di muffa e un’aria di abbandono.  In un angolo dello scuro salotto, al primo piano, era ammucchiato un gran fascio di lunghe canne che, all’occasione, venivano infilate attraverso gli indumenti lavati e da asciugare e distese dal davanzale delle finestre di casa fino ad un cornicione della casa di fronte. Al centro del divano, che aveva le molle rotte, troneggiava una vecchia e classica bambolona con un larghissimo vestito rosa e un cappello di paglia.  In mezzo alla stanza, sul tavolo coperto da una tovaglia verde con le nappe,  era appoggiato un cane di terracotta; sui ripiani di una étagère, una grande conchiglia e tante altre care e “buone cose di pessimo gusto”.
A pochi metri dal portone di casa si apriva il grande slargo digradante di Porta Pescara, che, senza automobili e senza traffico di carretti, poiché vi si arrivava quasi solo attraverso stradine a scalette, sembrava più che altro un vasto cortile.  La mattina però era animato dalle donne che tornavano dal mercato con le sporte piene e sceglievano di passare per la via più breve verso la strada provinciale, e da passanti che venivano dal centro della città.
In quella strana piazza a forma di rombo c’erano una cantina, un fornaio, un servizio di onoranze funebri e un ramaio.
A me ragazzo sembrava che ciascuna di queste attività riempisse completamente quel grande spazio. Il ramaio era un vecchino bianco come il latte, mentre la sua bottega aveva le pareti, il soffitto e il pavimento neri di fuliggine. Il rumore monotono del suo martellino si spandeva all’intorno dalla mattina alla sera. D’estate, il cantiniere metteva fuori dell’uscio un tavolino, e, nel breve silenzio dei caldi pomeriggi, bastavano due risate e un tintinnio di bicchieri per dare vivacità alla piazza.
Davanti al forno, il selciato era sempre bianco di farina; e questo, assieme al profumo del pane caldo e della pizza coi peperoni, era uno spettacolo e un'attrazione.
Le onoranze funebri Di Crecchio erano, invece, un servizio immobile e misterioso di cui non si sapeva niente. Sulla porta campeggiava una grande insegna severa con caratteri bianchi su fondo nero. Era impossibile non averla sempre sott’occhio.
La sera, fino a notte inoltrata, gruppi di reclute di una vicina caserma attraversavano il nostro vicolo e passavano davanti alla casa dei nonni, attirati dal bordello che si trovava venti metri più in basso. Ma, a parte questo viavai di sconosciuti, le cui giovani risate rimbombavano in quello spazio angusto, non si aveva alcun altro segno visibile di quel nascosto paradiso dei sensi, ed io ne conobbi l'esistenza quando già non c'era più.

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sabato 24 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 28° Capitolo: "Mia cugina Antonietta".


All’età di dodici anni e quattro mesi, in quel piccolo mondo nuovo che era la casa dei miei zii, fu inevitabile che mi innamorassi di mia cugina Antonietta, che era una ragazza di quattordici anni, alta, bionda e con gli occhi azzurri.
Lei era già alla scuola magistrale, mentre gli altri due cugini, Annamaria e Gilberto, frequentavano ancora le elementari. Io e Antonietta facevamo i compiti insieme in sala da pranzo. Unici della famiglia, avevamo diritto a non essere disturbati, mentre ci dedicavamo a studi che, essendo superiori al livello d’istruzione di tutti gli altri membri, suscitavano rispetto per la loro profondità.
Poiché la mia personalità non si era ancora sdoppiata in luce e ombra, anche se non ero affatto sfacciato, non ero nemmeno troppo timido e parlavo a mia cugina in continuazione, con la spavalderia di un cittadino che si vanta davanti a un provinciale di avvenimenti a cui è invece del tutto estraneo.
Uscivamo spesso, il pomeriggio, per portare gli abiti finiti alle clienti di zia Nerina. Antonietta indossava una pelliccetta scura ed io infilavo il braccio sinistro sotto il suo, mentre con il destro nascondevo una lunga striscia dove la stoffa del mio cappotto, già appartenuto a Gigino, era bianca di consunzione. Andavamo a braccetto per le strade buie, spensierati, lei con il viso rosso per il freddo. Salivamo le scale di vecchi palazzi, entravamo in appartamenti dalle stanze immense e male illuminate. Parlava solo Antonietta; io la seguivo docile e indifferente a tutto: mi bastava stare con lei. A qualche cliente che poteva aver conosciuto mio padre una decina di anni prima, mi presentava dicendo: “Questo è il figlio di Cenzo”.
Una sera, nella grande cucina dove una cliente ci aveva fatto entrare per offrirci una fetta di torta, in un angolo lontano c’era un uomo seduto accanto a un apparecchio radio. Ascoltava una cantilena monotona e incomprensibile e nemmeno si accorse di noi. La moglie ci raccontò che aveva combattuto in Africa, dove era stato ferito, e che la sera ascoltava sempre quelle musiche africane, perché gli ricordavano il tempo in cui era stato soldato. Aveva anche passione per le carte geografiche, aggiunse, e consultava continuamente un atlante, anche se non sapeva leggere.  
La mattina Antonietta mi portava a visitare parenti lontani di mio padre. Abitavano nel quartiere povero della città, vicino al porto, in case ad un piano, con cortili affollati di bambini, e tante porte al piano terreno e sul ballatoio, che correva lungo tutte le facciate interne. Ogni porta si apriva direttamente sulla cucina o sulla sala da pranzo.
“Questo è il figlio di zio Cenzo”, diceva Antonietta. Qualcuno allora ricordava anche mia madre, la povera Maria. Ci offrivano bicchierini di vermouth fatto in casa e fette di dolce.
Passavamo per il lungomare deserto e luminoso. Antonietta mi indicava la villa di Agresti, un commerciante arricchito, la cui casa era considerata una meraviglia della città.
Nella stretta cucina degli zii, io sedevo a un capo della tavola, di fronte ad Antonietta, che sedeva al capo opposto. Mangiavo lentamente per non rinunciare a guardarla nemmeno per un attimo. Era emozionante che lei sostenesse il mio sguardo fisso con grande serietà. La famiglia non si accorgeva di niente e anzi mi canzonava per la mia lentezza e la mia distrazione.
Gli zii mi dicevano, indicando il mio cappotto logoro: “Di’ a tuo padre che ti compri un cappotto nuovo”, e mi facevano vedere i loro vestiti, le scarpe ancora nuove nelle scatole messe una sopra l'altra dietro le porte, e poi collane, anelli e orologi custoditi in una scatola di legno. E chiedevano: “Ce l’avete voi la ghiacciaia? Ce l’avete l’asciugacapelli?” Ma queste domande non turbavano affatto il mio sentimento di benessere.
La sera, dopo cena, giocavamo a tombola in casa di vicini. Là mia cugina mi indicò la ragazza più bella del quartiere (i miei parenti avevano sempre un primato da mostrare). La bella del quartiere andava a passeggio, in quei giorni, con un vestito tutto rosso, e gli uomini la guardavano mentre camminava sicura e indifferente.
Era arrivato il momento di tornare a Roma e a scuola. Tutti i paesi lungo la linea ferroviaria mi sembrarono tristi e bui.
Alla Stazione Termini mi aspettava mio padre, che aveva già pronta con sé una cartolina postale da farmi scrivere e imbucare immediatamente, per ringraziare gli zii dell’affettuosa ospitalità.
A Pescara avevo avuto la rivelazione della bellezza femminile. Fu come scoprire un mondo superiore, al quale rivolgere i miei sogni e i miei pensieri.
Tornato a Roma, ero triste, ma ero anche contento e un po’ esaltato. Per parecchi mesi, rientrando a casa da scuola, mi aspettai il miracolo di trovarci mia cugina. Più spesso, camminando lungo la linea ferroviaria e guardando verso est, oltre le colline ancora intatte, pensavo con rapimento che andando sempre diritto in quella direzione si poteva arrivare fino al mare di Pescara.
La mia visione della bellezza femminile era così poetica e astratta, che non mi venne mai in mente che avrei potuto facilmente scrivere a mia cugina.
Passarono anni prima di rivederla. Dopo il diploma, lei venne a Roma, accompagnata dai genitori,  per partecipare a un concorso.
Fu l’unica volta che furono ospiti a casa nostra. Si portarono dietro asciugamani, lenzuola e federe per i cuscini.
Mio zio, vedendo che avevo una collezione di francobolli raccolta con attenzione nel corso di parecchi anni, dovette rammaricarsi di non possedere, oltre alle scarpe nuove dietro le porte, agli orologi e al rasoio elettrico, anche un passatempo così originale. Si offrì di comprare l’intera collezione e io fui contento di liberarmene per una somma insignificante.   
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sabato 17 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 27° Capitolo: "Conosco gli zii di Pescara".


Le sorelle di mio padre, Nerina ed Emma, che abitavano a Pescara, avevano molte ragioni per non amarlo. Mio padre era un dèspota a cui piaceva ammonire ed esortare, ma non aveva né generosità né comprensione; e anche quando faceva un gesto magnanimo, calcolava sempre il vantaggio che poteva ricavarne. Tuttavia, quando aveva avuto grandi problemi famigliari, si era sempre rivolto alle sorelle. Nerina era sposata e lavorava in casa da sarta; Emma, zitella, viveva con lei e badava alla cucina e alle faccende domestiche. Erano donne molto semplici: la prima, pettegola e ciarliera; l’altra, introversa e legnosa. Tutte e due erano grandi lavoratrici.  Parlavano quasi solo dialetto. Quando veniva una cliente per provarsi un vestito, zia Emma serviva il caffè e, cercando di parlare italiano, diceva a volte degli strafalcioni che facevano ridere per mesi. Per esempio: “Mìscoli!” invece di “Mèscoli!”
Anche se passavano anni senza che le vedesse, ogni tanto, per le grandi feste, mio padre, seguendo le regole del suo ‘saper fare’, scriveva o telefonava alle sorelle.
Immancabilmente rispondeva zia Nerina, che al telefono era la più disinvolta:
“Aahh  ciaoo, Cenzo, mo’ te staveme a numenà!”
 Nonostante una inevitabile meschinità di fondo, le due sorelle avevano un cuore affettuoso, e quando mio padre si era rivolto a loro per sistemare qualche figlio, durante lunghe crisi famigliari provocate da malattie o ricoveri in clinica di zia Francesca, Emma, Nerina e suo marito Gino ci avevano sempre accolti a braccia aperte.
Una volta zia Emma venne a Roma e rimase da noi alcuni mesi per aiutarci in casa, mentre mammà era in una clinica a fare la cura del sonno.
Siamo sempre stati noi che, o per necessità o per vacanza, siamo andati, seppure non tanto spesso, a casa loro, a Pescara.
Quando io frequentavo la seconda media, passai le vacanze di Natale da quegli zii quasi ancora sconosciuti.
Prima di me, l’estate precedente, era stato a casa loro mio fratello Gigino, e la sua gentile timidezza e il suo straordinario appetito avevano suscitato la simpatia di tutti.
Portando in dono due chili di zucchero e due etti di caffè, arrivai a Pescara una bella sera di dicembre. Per me era tutto nuovo. Gino ed Emma erano venuti a prendermi alla stazione. La strada per arrivare a casa loro era lunga, diritta e buia, illuminata solo dalle bottegucce che la fiancheggiavano su un solo lato. Loro conoscevano e salutavano tutti; l’aria di quella sera mi sembrava speciale: fredda, trasparente e leggera. L’appartamento degli zii, in un complesso di case popolari, era piccolo, stracolmo di cose e allegro. Le mie cugine, Antonietta e Annamaria, dormivano nella stanza dove lavorava la mamma, e ogni sera dovevano liberare i loro letti da ritagli di stoffe, modelli di carta, gessi, rocchetti di filo e tanto altro ciarpame. In un angolo della sala da pranzo, dove dormivamo in tre, c’era perfino un grande presepe con un fiume, un laghetto e un ponte levatoio.
La mattina facevamo colazione con una fetta di pane cosparsa d’olio, tagliata da una grande pagnotta ancora calda. Soltanto per questo, io, che ero abituato al latte allungato con orzo, provavo la sensazione piacevole di trovarmi non più in città, ma veramente in vacanza. Sulla piastra rovente della cucina economica rosolavano, quasi tutti i giorni, profumati calamari appena portati dal mercato.
Mio zio faceva il fuochista in ferrovia nei tratti Pescara-Termoli e Pescara-Ancona. I suoi turni di servizio scandivano con animazione la vita della famiglia. Io avevo l’impressione che quel ritmo di vita, che non aveva la rigidità dell’orario degli impiegati, fosse più divertente e pieno di sorprese. Mi sembrava non di essere in vacanza presso una famiglia che continuava la sua solita vita e il normale lavoro di tutti i giorni, ma che fossimo tutti in vacanza, zii e cugini compresi.
Quando mio zio tornava a casa dal suo turno di lavoro, spesso la mattina mentre noi ci svegliavamo, dopo essersi cambiato, se ne andava lentamente in bicicletta a pescare, con in testa un berretto da operaio che rendeva simpatica la sua figura. Anche il lavoro da sarta di zia Nerina mi sembrava un gioco. Aveva un'aiutante, non più tanto giovane, che perdeva i capelli e non trovava un fidanzato. Costei era alla perpetua ricerca di misture efficaci con cui frizionarsi la testa. Aveva usato anche il peperoncino rosso.
Quelle vacanze invernali furono miti ed assolate. Pescara non aveva neppure cominciato la grande corsa che in una ventina d’anni la trasformò in una città brutta e caotica. Allora era ancora una cittadina anonima senza alcuna vera bellezza, ma con una grande dolcezza nelle strade tranquille, fiancheggiate da vecchi palazzotti grigi senza pretese estetiche, però squadrati e decenti, con abitazioni spaziose progettate senza avarizia.
In centro c’era sempre l’animazione di un giorno di mercato. Tutti, a piedi o in bicicletta, portavano borse, fagotti, canestri o galline tenute per le zampe. C’era sempre un viavai rumoroso, allegro e popolare, e a me dispiaceva essere un forestiero che non aveva niente da comprare e nessun fagotto da portare.
Io e il mio compagno di banco Fausto Baeli avevamo fondato da poco una Società investigativa internazionale. Purtroppo le nostre indagini sulla professoressa Taranta non avevano dato alcun frutto: i nostri pedinamenti finivano sempre davanti all’Upim di Piazza Bologna. La professoressa entrava e noi non avevamo né il tempo né la  pazienza di aspettare che uscisse.
Dopo questo fallimento, delusi nella nostra speranza di scoprire un grande mistero, io e Baeli fummo d’accordo che la mia vacanza a Pescara dovesse servire anche a rilanciare la nostra attività di investigatori. Avevamo fiducia che in una zona sottosviluppata e ancora barbaresca, lontana dalla civiltà della capitale, avrei trovato, in qualche baracca non lontana dalla casa dei miei zii, un personaggio eccentrico, un vecchio dal passato oscuro, un uomo dalla doppia vita su cui indagare, come nelle storie di Edgar Wallace.
La casa degli zii era effettivamente sul limitare di campi cespugliosi e incolti, che salivano verso colline selvagge, però non c’era ombra né di baracche misteriore né di vecchi uomini dall'aria sospetta.  Inoltre, addolcito dall'atmosfera piacevole e lusingato dalle nuove emozioni che provavo, non ebbi mai nemmeno voglia di tirar fuori dalla valigia i ferri del mestiere: bloc-notes e lente d’ingrandimento.

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