giovedì 5 giugno 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 32° Capitolo: "Liceo Giulio Cesare".

Gli anni del liceo trascorsero quasi senza avvenimenti, in uno studio noioso e fiacco. Gli insegnanti, nel complesso, erano piuttosto mediocri. Il professore di italiano e latino conosceva la Divina Commedia a memoria, ma era chiuso, formale e nevrotico.  In una occasione capitata per caso e all’improvviso, mentre ero chiamato a rispondere ad una interrogazione insieme ad altri due o tre compagni, in piedi al lato della cattedra, non potei fare a meno di criticare il gratuito sarcasmo con cui trattava gli studenti. Lui mi trascinò davanti al preside, ma io tenni testa al professore, che si vendicò ignorandomi per il resto dell’anno scolastico. Fino alla fine non mi rivolse più la parola e mi interrogò solo una volta a trimestre, perché non poteva fare a meno di darmi un voto. L'anno successivo lasciò la nostra scuola per andare al liceo scientifico ‘Plinio’.
Quando ero già all’università, mosso da una simpatia che nasceva dalla pena, andai a fargli visita nella sua nuova scuola, ma fu un incontro senza calore.
La nostra professoressa di matematica era una donna alta e severa, con i capelli raccolti in una treccia austera arrotolata dietro la testa. Trasudava dignità, e con la sua voce metallica e oracolare,  dava benevolmente a noi studenti gli stessi consigli materni che dava ai propri figli: “Per fare dei bei compiti d’italiano, dovete, nei ritagli di tempo, per esempio la sera prima di andare a letto,  leggere qualche  commento critico sugli scrittori e poeti più importanti e vedrete poi che quello che sarà rimasto nella vostra testa verrà fuori senza sforzo al momento di scrivere”.
Per lei era un’ottima cosa prendere inconsapevolmente, senza nemmeno ricordarne la fonte, così come si erano confusamente depositate nella nostra memoria, una frase da un critico, una immagine da un altro, una definizione da un terzo, mescolarle insieme e scodellare sul foglio protocollo di un compito in classe un minestrone di frasi fatte prive di coerenza, spacciandolo per farina del proprio sacco.
La professoressa di greco aveva gli occhi che sporgevano in un modo impressionante e le congiuntive sempre infiammate. In quegli occhi anche per noi ragazzi era facile leggere un vuoto totale di cultura e di carattere; e quando la professoressa, con una versione greca davanti, arrancava penosamente per trovarne il significato, chiedendo aiuto ai due o tre alunni bravi, tutta la classe, svogliata e disinteressata, si dedicava ad altre silenziose attività.
Il professore di storia e filosofia era un napoletano serio, triste e taciturno. Le sue interrogazioni erano difficili, perché non voleva ascoltare da noi delle filastrocche, ma ragionamenti che spiegassero le cause e l’intreccio dei fatti. Tuttavia, durante gli anni passati con noi, non ha mai neppure sfiorato un avvenimento non dico d’attualità ma nemmeno dell’ultimo mezzo secolo. Io non potevo non stimarlo per la sua cultura e la sua rettitudine, e provavo simpatia per lui, perché, legnoso e composto e fuori del nostro tempo, appariva goffo e addirittura ingenuo. A me, però, piacevano le persone piene di fervore; e la cultura senza sentimento e senza entusiasmo mi sembrava vuota e inutile.
I miei compagni di classe erano tutti figli e figlie di impiegati (come me, del resto)  e di professionisti. Non avevano passioni. I pochi che studiavano con impegno, lo facevano solo per non fare brutta figura e per un sentimento molto soggettivo di orgoglio.
Un solo ragazzo sembrava dotato da madre natura di qualità superiori. Si chiamava Franco Zinnamosca; era piccolo, peloso e scuro di carnagione, con le mani grassocce sempre umide di sudore. Stava per conto suo, ed era serio e impenetrabile.
C’era poi un terzetto di amici che potrebbe ben rappresentare il tono medio intellettuale e umano della classe.
Due di essi, figli di genitori pugliesi, si chiamavano Sergio Nicassio e Michele Belviso; il terzo, d’origine veneta, Francesco Passettin.
Conosciutisi a scuola, si erano subito capiti e uniti con la stessa velocità e completezza con cui si fondono fra loro le palline di mercurio (prendo il paragone da Le confessioni di un italiano).
Studiavano con un discreto impegno, ma erano freddi, imperturbabili e sornioni, sempre con un sorrisetto beffardo e una battuta che scoraggiava le discussioni serie e riduceva ogni situazione a dimensioni meschine.  Erano alti di statura, e questo faceva sembrare che le loro piccinerie cadessero sui loro interlocutori con maggiore efficacia. Nella mia vita ho sempre avuto a che fare con un conformismo vischioso e canzonatorio come quello di questi tre individui. Come tutti gli altri della classe, anch’essi non si interessavano di politica nemmeno vagamente. Dichiarandosi apolitici, pensavano di essere superiori e più liberi e guardavano con ironia chi esprimeva delle forti convinzioni proprie. Una ragazza carina ed elegante ma fredda e riservata affermava di discendere per parte di madre da un famoso e aristocratico poeta, aveva aggiunto il suo cognome a quello paterno e incedeva con una fierezza  monarchica.
Io avevo ogni tanto delle discussioni, ma senza vera tensione, con un altro compagno di classe che dichiarava, con freddo puntiglio, di simpatizzare per il partito repubblicano.
Ma tutti gli studenti del nostro liceo erano apolitici. A me e a una ragazza di un’altra classe era venuto in mente di pubblicare un giornalino scolastico ciclostilato. Ne discutemmo alcune volte con la figlia di un senatore comunista, che voleva aiutarci a realizzare questa iniziativa, e con una giornalista di Noi Donne, ma non fummo capaci di trovare in tutto il liceo nessun altro sostenitore. Questo fallimento era, però, inevitabile. A quel tempo noi non avevamo idee ma solo ‘slanci’: era troppo poco per convincere gli incerti e trascinare i tiepidi. Inoltre il nostro mondo scolastico sembrava compatto,  inattaccabile e immutabile. I suoi problemi, che forse erano visibili anche allora, sembravano eterni e naturali come la grandine. Tutta la società era allora troppo immobile. Mancavano ancora parecchi anni alla contestazione studentesca, che portò, sì, in superficie i problemi storici della scuola,  ma offrì delle soluzioni che furono peggiori dei mali antichi.  
All’uscita dalla scuola, nel lungo tragitto a piedi da Corso Trieste, dov’era il nostro liceo, verso Piazza Bologna, dove abitavamo, Gianfranco Varone, un ragazzone fantasioso e sentimentale, era capace di fischiare mezza sinfonia di Beethoven o lunghi brani di Wagner. Il gruppo allora si sgranava: alcuni acceleravano il passo per andare avanti, altri lo rallentavano. A continuare la marcia assieme a Varone, che fischiava con competenza e con la concentrazione ispirata di un direttore d’orchestra,  rimanevano solo pochi musicòfili.



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domenica 1 giugno 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 31° Capitolo: "Scene di vita provinciale".



Oltre a mia madre e a zia Francesca, ad Antonio e ad Alessandro, c’erano altri cinque figli.
Mario, commerciante di attrezzi agricoli, era tracagnotto come il padre e aveva la sua stessa identica faccia inquietante, con una espressione, però, più dura e diffidente. Mentre nonno Francesco poteva essere capace di un gesto irriflessivo di ingenua generosità, zio Mario non si lasciava mai andare nemmeno a un piccolo segno di cortesia. Diventato anche lui comunista dopo la guerra, come quasi tutti i fratelli, era in realtà del tutto indifferente alla politica e alla giustizia sociale, ma animato solo da un risentimento torbido ed egoistico per chi stava meglio di lui.
Zio Nando, comunista rumoroso e confuso, era più che altro un gaudente e un donnaiolo, e per questo, nonostante la mancanza di senso di responsabilità, mi ispirava una certa simpatia. Si era separato dalla seconda moglie, zia Maria, ed era tornato a vivere nella vecchia casa della madre con una nuova compagna. Morì a meno di sessant'anni, mentre faceva l’amore con una cliente nel retro del suo negozio.
Con zio Michelino e zio Salvatore si entra nell’atmosfera di certe storie grottesche e abiette, come si possono trovare nelle pagine di un Saltikòv Scedrin o di un Maksim Gorki..
In quel teatrino che doveva essere, prima della guerra, Largo di Porta Pescara, un vicino di casa dei miei nonni, una sera, forse ubriaco, si lamentava a voce alta di questo mondo infelice pieno di prepotenti.
“S’hanne fatte li quatrine! Pòzzene murì accìse!”  Continuò così per un pezzo, finché Michelino, ancora ragazzo, non arrestò quegli ululati con una pernacchia tanto sonora e prolungata, che diventò leggendaria. Mio zio aveva trovato così una vocazione e uno strumento che non abbandonò mai più, e per tutta la vita, quando si  trovava in una compagnia spassosa, se voleva esibire la sua migliore qualità e far ridere i presenti, intonava una sinfonia di pernacchie. Sono sicuro che anche la meno progredita tribù degli Scioscioni d’America conosceva esibizioni più nobili e artistiche.
Gli altri aspetti della personalità di zio Michelino erano tutti strettamente conformi al suo talento musicale. Aveva un buon impiego presso un istituto solido che pagava bene, e i parenti pensarono di mettere a suo carico la vecchia mamma, anche se non viveva con lui, perché il figlio le passasse l’assegno mensile di sostentamento. Ma Michelino non lo fece mai. Per tutti gli anni che durò questa penosa querelle, non si degnò nemmeno di rispondere alle suppliche della mamma, e lei non ebbe mai la forza di denunciarlo per la sua indebita appropriazione.
Dulcis in fundo. Ammiratore dei paesi dell’Est, a settant’anni, poco prima che Ceausescu venisse fucilato, lui che non era stato quasi mai fuori della sua minuscola cittadina, intraprese il lungo viaggio verso la Romania con due valigioni pieni di generi alimentari e di indumenti femminili, per trovare nel paese della libertà e del benessere qualche conforto alla sua vedovanza.
Zio Salvatore, invece, era fascista. Cupo donnaiolo, insofferente di ogni sentimento di responsabilità, perse per balordaggine un buon lavoro in una grande banca. Tornò dalla guerra più fascista di prima, per rabbia e rancore di declassato. Rimasto vedovo, portò un giorno i suoi due figli piccoli a casa della madre. “Torno a prenderli domani”, disse. E sparì. Emilia, che aveva quattordici anni, venne a vivere con noi a Roma. Il padre non si fece più vivo con lei. Si rividero brevemente quando lui era già vecchio. A casa nostra, Emilia fu trattata come una servetta. Dalle opinioni ingenuamente fasciste che manifestò per molto tempo, si poteva capire con commozione che rimase a lungo attaccata all’immagine del padre e a quella che, seppur dolorosa, considerava la sua propria storia. La storia della nostra famiglia non le apparteneva. Ma poi, piano piano, tutto crollò: la figura del padre, le opinioni ricevute e tutto il passato, ed Emilia ha vissuto come una persona senza una storia propria e senza una favilla di consolazione.
Zia Erminia era l’ultima figlia dei nonni. In gioventù, era piccola, rotondetta, vivace, con la bocca a cuore, piena di mossettine e di sgranar d’occhi, con i capelli neri pettinati in lunghi boccoli. Ma anche nell’età matura non ha mai rinunciato a essere seducente e civettuola. “Come mi trovi? Sono ingrassata? Sono ancora bella?” . E bamboleggiava, canticchiando una canzoncina di Natalino Otto: “Ho un sassolino nella scarpa, ahi, / che mi fa tanto tanto male, ahi”.
Le piaceva raccontare in un suo modo vivace ed enfatico, e in certe occasioni (in treno o durante una partita a carte, di cui era appassionatissima, oppure d’estate in spiaggia sotto l’ombrellone) sapeva tener viva la conversazione. Sentenziava e moraleggiava anche con grande sicurezza, senza farsi intimidire dalla complessità degli argomenti.
Col passare degli anni, ritrovare ogni volta zia Erminia, per cui avevo simpatia, sempre con gli stessi vezzi, le stesse intonazioni, le stesse barzellette, gli stessi aneddoti su personaggi vissuti ottant’anni prima (Gerardo Cacchione, Lucia Pappà e altri), di cui la memoria paesana aveva conservato il ricordo, fu una grande delusione. Mi accorsi che era arida e che trattava sua madre, nonna Gigliola, che visse con lei finché non morì novantenne, con una durezza quasi crudele. Invecchiando, il suo viso subì una trasformazione: gli occhi diventarono come di vetro e il viso si irrigidì. L’aridità dei suoi  sentimenti aveva preso il sopravvento e si mostrava apertamente, e lei non sapeva più sorridere ma solo ridere in modo esagerato.
Attualmente (giugno 2014), novantunenne, malata di Alzheimer, è ricoverata da sette anni in una casa di cura in un paese a venti chilometri da Chieti.
Il marito, zio Enrico, vissuto mediocremente sempre alla sua ombra, dopo il ricovero della moglie, ha dimostrato, con mia sorpresa, il carattere di un eroe. Vecchissimo anche lui, malandato in salute, le ha fatto visita regolarmente, estate e inverno, tre volte alla settimana, servendosi degli scomodissimi trasporti pubblici, finché non è morto, l'anno scorso, per una caduta all'interno della corriera.  

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giovedì 29 maggio 2014

Ricordi d'infanzia e di giovinezza. 30° Capitolo: "I nonni e due zii".


Mio nonno Francesco, commerciante di maiali, morì nel 1946, e io non ne ricordo niente. Nella sua unica foto rimasta ha un viso che mi è famigliare, perché è lo stesso viso dei suoi figli, miei zii, o almeno di molti di essi, che io ho potuto osservare per alcuni decenni. Occhi prominenti neri e rotondi, con uno sguardo un po’ strabico, liquido e senza fermezza, e un’espressione accesa, nervosa e oscillante di persona irragionevole. Di lui ho sentito raccontare le cose più stravaganti: gesti di gratuita e immotivata generosità verso estranei, e atti di autoritarismo e di meschinità verso la moglie e i figli.
Mia nonna Gigliola, che ho conosciuto bene, era una donnina mite, dolce e limitata. La sua maggiore preoccupazione era il mangiare, e lei comprava ceste di fichi e d’uva, di peperoni e melanzane, e uova e carne e lardo e vino. Ha fatto la vita di una formica operosa. Nonostante avesse attraversato due guerre mondiali, con nove figli e un marito egoista e nevrotico, mi disse una volta che lei sarebbe stata felice di tornare indietro per ricominciare a vivere esattamente la stessa vita che aveva vissuta. Quando era già vecchia, il pomeriggio d’estate, sedeva nel vicolo su una sedia, davanti al portoncino di casa, e leggeva il suo messale dai grandi caratteri tipografici. La sera, nella enorme e tetra cucina a piano terra, appena rischiarata da un’unica lampadina, seguiva i programmi radiofonici, e io la ricordo intenta ad ascoltare La fanciulla del West di Giacomo Puccini.
I tanti figli erano cresciuti piuttosto disordinatamente e avevano ereditato la personalità gretta e vile del padre.
Solo Alessandro e Antonio furono mansueti e innocui come la mamma, ma ebbero mogli volitive e arcigne.
Antonio si sottrasse ancora ragazzo all’ambiente famigliare arruolandosi in Marina. Lì diventò monarchico, legato a vecchie immagini di cavalleria e di distinzione, che avevano come simboli la divisa e la spada. Per molti anni partecipò a feste di matrimonio e di prima comunione di amici e parenti indossando sempre la sua elegante divisa di ufficiale. “A Elena non  avrei mai fatto il torto di venire in borghese”, mi disse quando si sposò mia sorella. Sembrava che la sua presenza in divisa portasse ad una festa non solo il plauso delle Autorità, ma anche una favilla di un mondo superiore e più raffinato, i cui eletti membri erano visti come testimoni di imprese eroiche e unici depositari di nobili sentimenti patriottici.
Zio Antonio era una persona molto perbene, e in un suo modo convenzionale manteneva i rapporti con tutti i parenti, inviando per ogni avvenimento famigliare (un successo scolastico o un avanzamento di carriera) lettere circolari, con foto allegata, che iniziavano sempre così: “Carissimi tutti”.
Zio Alessandro, che era il figlio maggiore, nato nel 1901, era invece alieno da ogni vanteria, schivo e timido, con una vena di malinconia piena di pudore. Faceva il copista in un ufficio statale e si vantava solo della sua bella scrittura. Però sapeva anche scrivere lettere che, a quel tempo e in quell’ambiente di provincia dominato da un gusto dannunziano di seconda mano, erano insolitamente semplici e sincere.
Benché avesse qualche tic di provenienza famigliare (ogni tanto girava la testa di lato), zio Alessandro aveva un modo di vivere calmo e rassegnato, quasi allegro. Era spiritoso, di uno spirito semplice e bonario. La gente lo rispettava, perché era gentile e aveva una certa finezza di espressione. Sapeva suonare la chitarra, improvvisare brindisi e recitare con naturalezza le poesie dialettali di Modesto Della Porta.
Passava i pomeriggi con gli amici visitando un paio di cantine e giocando a carte. La sera andava al caffè (sempre lo stesso, il Caffettuccio, nella piazza del mercato), dove si parlava di politica. Dopo la guerra, zio Alessandro era diventato comunista, ma era così candido e ingenuo, e tutta la sua cerchia di interlocutori era così sprovveduta, che la scena e il dibattito politico si riducevano per loro a una frase del presidente Eisenhower o a uno scambio di battute fra Togliatti e Saragat, su cui potevano fare discussioni accanite e interminabili.
La sera rincasava a tarda ora, lemme lemme, sui suoi piedoni bitorzoluti.
“Buonanotte, don Alessà”
“Buonanotte buonanotte… Ah, scì tu Pasquà, ma chi vì facènne a chest’ore: vì  a chiappà le ciambàne?”
E a casa, magari all’una del mattino, cenava da solo con un piattone di sagne e fagioli condito con peperoncino piccante.

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