Gli anni del liceo trascorsero quasi
senza avvenimenti, in uno studio noioso e fiacco. Gli insegnanti, nel complesso,
erano piuttosto mediocri. Il professore di italiano e latino conosceva la
Divina Commedia a memoria, ma era chiuso, formale e nevrotico. In una occasione capitata per caso e
all’improvviso, mentre ero chiamato a rispondere ad una interrogazione insieme
ad altri due o tre compagni, in piedi al lato della cattedra, non potei fare a
meno di criticare il gratuito sarcasmo con cui trattava gli studenti. Lui mi
trascinò davanti al preside, ma io tenni testa al professore, che si vendicò
ignorandomi per il resto dell’anno scolastico. Fino alla fine non mi rivolse più la parola e mi interrogò solo una volta a trimestre, perché non poteva fare a meno di darmi un voto. L'anno successivo lasciò la nostra scuola
per andare al liceo scientifico ‘Plinio’.
Quando ero già all’università,
mosso da una simpatia che nasceva dalla pena, andai a fargli visita nella sua nuova
scuola, ma fu un incontro senza calore.
La nostra professoressa di
matematica era una donna alta e severa, con i capelli raccolti in una treccia austera
arrotolata dietro la testa. Trasudava dignità, e con la sua voce metallica e
oracolare, dava benevolmente a noi studenti
gli stessi consigli materni che dava ai propri figli: “Per fare dei bei compiti d’italiano, dovete, nei ritagli di tempo, per
esempio la sera prima di andare a letto,
leggere qualche commento critico sugli
scrittori e poeti più importanti e vedrete poi che quello che sarà rimasto nella
vostra testa verrà fuori senza sforzo al momento di scrivere”.
Per lei era un’ottima cosa
prendere inconsapevolmente, senza nemmeno ricordarne la fonte, così come si erano
confusamente depositate nella nostra memoria, una frase da un critico, una
immagine da un altro, una definizione da un terzo, mescolarle insieme e
scodellare sul foglio protocollo di un compito in classe un minestrone di frasi
fatte prive di coerenza, spacciandolo per farina del proprio sacco.
La professoressa di greco aveva
gli occhi che sporgevano in un modo impressionante e le congiuntive sempre
infiammate. In quegli occhi anche per noi ragazzi era facile leggere un vuoto
totale di cultura e di carattere; e quando la professoressa, con una versione
greca davanti, arrancava penosamente per trovarne il significato, chiedendo
aiuto ai due o tre alunni bravi, tutta la classe, svogliata e disinteressata,
si dedicava ad altre silenziose attività.
Il professore di storia e
filosofia era un napoletano serio, triste e taciturno. Le sue interrogazioni
erano difficili, perché non voleva ascoltare da noi delle filastrocche, ma
ragionamenti che spiegassero le cause e l’intreccio dei fatti. Tuttavia,
durante gli anni passati con noi, non ha mai neppure sfiorato un avvenimento
non dico d’attualità ma nemmeno dell’ultimo mezzo secolo. Io non potevo non stimarlo
per la sua cultura e la sua rettitudine, e provavo simpatia per lui, perché, legnoso
e composto e fuori del nostro tempo, appariva goffo e addirittura ingenuo. A
me, però, piacevano le persone piene di fervore; e la cultura senza sentimento
e senza entusiasmo mi sembrava vuota e inutile.
I miei compagni di classe erano
tutti figli e figlie di impiegati (come me, del resto) e di professionisti. Non avevano passioni. I
pochi che studiavano con impegno, lo facevano solo per non fare brutta figura e
per un sentimento molto soggettivo di orgoglio.
Un solo ragazzo sembrava dotato
da madre natura di qualità superiori. Si chiamava Franco Zinnamosca; era
piccolo, peloso e scuro di carnagione, con le mani grassocce sempre umide di
sudore. Stava per conto suo, ed era serio e impenetrabile.
C’era poi un terzetto di amici
che potrebbe ben rappresentare il tono medio intellettuale e umano della
classe.
Due di essi, figli di genitori
pugliesi, si chiamavano Sergio Nicassio e Michele Belviso; il terzo, d’origine
veneta, Francesco Passettin.
Conosciutisi a scuola, si erano
subito capiti e uniti con la stessa velocità e completezza con cui si fondono
fra loro le palline di mercurio (prendo il paragone da Le confessioni di un italiano).
Studiavano con un discreto
impegno, ma erano freddi, imperturbabili e sornioni, sempre con un sorrisetto beffardo
e una battuta che scoraggiava le discussioni serie e riduceva ogni situazione a
dimensioni meschine. Erano alti di
statura, e questo faceva sembrare che le loro piccinerie cadessero sui loro
interlocutori con maggiore efficacia. Nella mia vita ho sempre avuto a che fare
con un conformismo vischioso e canzonatorio come quello di questi tre individui.
Come tutti gli altri della classe, anch’essi non si interessavano di politica
nemmeno vagamente. Dichiarandosi apolitici, pensavano di essere superiori e più
liberi e guardavano con ironia chi esprimeva delle forti convinzioni proprie. Una ragazza carina ed elegante ma
fredda e riservata affermava di discendere per parte di madre da un famoso e aristocratico poeta, aveva aggiunto il suo cognome a quello paterno e incedeva con una fierezza monarchica.
Io avevo ogni tanto delle discussioni, ma senza vera tensione, con un altro compagno di classe che dichiarava, con freddo puntiglio, di simpatizzare per il partito repubblicano.
Io avevo ogni tanto delle discussioni, ma senza vera tensione, con un altro compagno di classe che dichiarava, con freddo puntiglio, di simpatizzare per il partito repubblicano.
Ma tutti gli studenti del
nostro liceo erano apolitici. A me e a una ragazza di un’altra classe era
venuto in mente di pubblicare un giornalino scolastico ciclostilato. Ne
discutemmo alcune volte con la figlia di un senatore comunista, che voleva
aiutarci a realizzare questa iniziativa, e con una giornalista di Noi Donne, ma non fummo capaci di trovare
in tutto il liceo nessun altro sostenitore. Questo fallimento era, però,
inevitabile. A quel tempo noi non avevamo idee ma solo ‘slanci’: era troppo
poco per convincere gli incerti e trascinare i tiepidi. Inoltre il nostro mondo
scolastico sembrava compatto,
inattaccabile e immutabile. I suoi problemi, che forse erano visibili
anche allora, sembravano eterni e naturali come la grandine. Tutta la società
era allora troppo immobile. Mancavano ancora parecchi anni alla contestazione
studentesca, che portò, sì, in superficie i problemi storici della scuola, ma offrì delle soluzioni che furono peggiori
dei mali antichi.
All’uscita dalla scuola, nel
lungo tragitto a piedi da Corso Trieste, dov’era il nostro liceo, verso Piazza
Bologna, dove abitavamo, Gianfranco Varone, un ragazzone fantasioso e
sentimentale, era capace di fischiare mezza sinfonia di Beethoven o lunghi
brani di Wagner. Il gruppo allora si sgranava: alcuni acceleravano il passo per
andare avanti, altri lo rallentavano. A continuare la marcia assieme a Varone,
che fischiava con competenza e con la concentrazione ispirata di un direttore
d’orchestra, rimanevano solo pochi musicòfili.
(continua al post successivo)
